Disclaimer: non posseggo One Piece, purtroppo... tutti i personaggi
sono di proprietà del sensei Oda!
Buonasera a tutti! Sono fiera(?) di presentare l'ultimo parto della mia
mente, ovviamente una Sanji/Zoro (ma no? sul serio?). Metto subito le
mani avanti, comunque, temo che stavolta i miei personaggi siano un
pelo OOC. Intanto Sanji non è un cuoco ma un informatico
(come da introduzione), e Zoro non è uno spadaccino ma un
hacker (sì, so che sembra ridicolo, ma concedetemi il
beneficio del dubbio!). E per coloro che hanno aperto questa storia
convinti di leggere una appassionante avventura ambientata tra virus e
PC, devo disilludervi subito perché invece si tratta di una
malinconica storia d'amore tra due disadattati anche abbastanza
cretini.
Questo è quanto. Per chi decide di proseguire, ci si vede a
fine capitolo! ;)
“E’ fragile come una
CPU… non farlo a pezzi ”
Se continua così giuro che mi ammazzo.
Lavoro casa, casa lavoro, lavoro… ogni benedetto (si fa per
dire) giorno. Ogni mattina tornare in questo posto asettico, circondato
da
robot concentrati sul fare carriera e immerso in file e file di monitor
luminosi.
Mi chiamo Sanji, sono un ingegnere informatico e lavoro per una delle
più
grandi multinazionali del mondo. Qui si produce ogni tipo di supporto
elettronico del mondo intero. Personal computer, tablet, cellulari,
smartphone,
lettori mp3 e mp4… e-book reader, console per videogames
fissi o portatili e
qualunque cosa vi possa passare per la mente. Ma non solo. Anche
software,
programmi, sistemi operativi. Siamo noi che vi permettiamo di fare la
spesa con
la carta di credito, e siamo anche la causa del prelievo automatico dal
vostro
conto corrente per saldare la rata del mutuo. Siamo quelli grazie ai
quali
potete inviare email mentre viaggiate in treno e quelli che monitorano
ogni
vostra visita in internet. Siamo capaci di facilitarvi la vita o di
rendervela
un inferno. Abbiamo in mano le redini del mondo.
Che figata, starete pensando. Col cazzo.
Per tenere in pugno la tecnologia internazionale è
necessario un dispendio di
tempo ed energie di cui non avete neanche idea e un numero di
dipendenti che è
quasi impossibile da controllare. Io non sono parte del consiglio di
amministrazione e tantomeno un proprietario. Sono solo un tecnico,
anche se
piuttosto bravo, che sta ai vertici del sistema. Con la mia squadra ci
occupiamo di proteggere la sicurezza dell’azienda da ogni
possibile attacco
informatico. Credetemi, non indovinereste mai il numero di hacker
presenti in
questo maledetto mondo e nemmeno la quantità di chiamate che
ricevo ogni giorno
e ad orari improbabili per ripulire il sistema. Ecco perché
sembro perennemente
un cadavere e sono solo come un cane.
Beh, forse l’essere solo come un cane non è colpa
del mio lavoro, ma mi fa
comodo pensarlo. Tutti cerchiamo giustificazioni, no?
Incredibilmente oggi sto andando al lavoro in orario
d’ufficio, alle otto in punto. Già,
perché di solito mi chiamano in anticipo. Magari
oggi sarà una giornata tranquilla, anzi lo spero dato che
stanotte non ho
praticamente chiuso occhio. E si vede che sono suonato, ho sbagliato
addirittura piano… meno male che sono riuscito a raggiungere
l’ufficio. Adesso
devo solo guadagnare la sedia e fissare un monitor, fingendo di
lavorare. Pare
un bel programma.
“Sanji-kun, meno male che sei arrivato! Stavo per chiamarti,
abbiamo un
problema”
Ottimo, ho parlato troppo presto. Di solito sarei stato felicissimo di
venire
accolto dalla dolce Nami-swan, il miglior direttore di settore che
chiunque
possa desiderare sia per capacità manageriali che per lato
B.
Ecco, lo sapevo che mi sarebbe scappato. Ok lo ammetto, sono un
depravato: io
lo sapevo già, ora lo sapete anche voi.
Oggi comunque non sono in vena di smancerie, anzi non sono proprio in
vena per
nulla. Senza contare che non ho sentito la sveglia e mi sono fiondato
fuori di
casa senza nemmeno il caffè. Uno zombie sarebbe messo meglio.
“Dimmi, mia dea. Cosa succede?”
“Un
attacco, sembra serio. Usopp dice che non sa cosa fare e
Chopper ha ammesso che non ha mai visto una cosa simile. Siamo nelle
tue mani.”
Che meravigliosa notizia. Se Usopp non sa che fare sarà bene
che mi dia una
mossa.
Usopp e Chopper sono ottimi ingegneri, assolutamente preparati. Chopper
è
praticamente appena uscito dall’università ed
è stato assunto e assegnato a
questa squadra per validissimi motivi, è laureato con il
massimo dei voti e ha
una mente sopraffina. Usopp è mostruoso nel suo ambito, con
lui formo un team
affiatato e davvero imbattibile. Se lui sta dando di matto vuol dire
che il
problema è grave.
Appena entro nella stanza vengo quasi assalito da un tecnico
riccioluto.
“Saaanji ti prego! Risolvi la situazione!”
Mi divincolo dalla stretta per dare un’occhiata al monitor, e
quello che vedo
mi lascia esterrefatto. Effettivamente non è facilissimo
capire che sta
succedendo, anzi… mi siedo e immediatamente comincio a
lavorarci.
Dietro di me, la squadra osserva il mio lavoro. Mi considerano un genio
ma non
sanno quanto abbiano torto. Io sono preparato, ho esperienza e
capacità, ma
nient’altro. Ho talento, ma niente più. E ne sono
sicuro. I geni in questo
mondo sono poco più del 2% della popolazione, e potrei anche
avere la
presunzione di considerarmi parte di questa minuscola percentuale se
non lo
conoscessi, un genio.
Lui è incredibile. Accanto a lui divento un pivellino.
Che altro dire, io sono normale. Nel senso che ho una vita di merda,
come fossi
un genio, ma sono normale. Mi viene da piangere.
“Allora Sanji-kun?”
“Hai capito il problema?”
“Riesci a risolvere?”
Basta! Cristo, lasciatemi in pace almeno un secondo! Come diavolo
faccio a
concentrarmi se devo lavorare con le vostre urla nelle orecchie? Se
potessi tirare
un pugno allo schermo e staccare la spina del computer… Uff,
calma. Conta fino
a dieci e ricomincia a respirare…
“Ci rispondi?”
“Sanji!”
Oddio, credo che dovrò contare fino a cento… Non
riesco a focalizzare, i
pensieri volano da tutt’altra parte. Allora, è un
attacco al software, un virus
probabilmente. Cerca di copiare i codici di accesso, per fortuna il mio
sistema
di sicurezza è abbastanza sofisticato da riconoscere
l’intruso e negargli ogni
ingresso. Però temo che non sia finita qui. Dovrei
cancellarlo… ma non ho idea
del come. Mi cadono le palpebre e neanche sbadigliando apporto
abbastanza
ossigeno al cervello, cazzo, non dovevo stare fino alle cinque di
mattina a
farmi seghe davanti a quel porno e… NO! Concentrati idiota,
il virus!
“Non so come risolvere, dovete darmi un po’ di
tempo” mi trovo ad ammettere con
un sospiro. Le espressioni dei miei colleghi non mi lasciano per nulla
tranquillo. Chopper è disperato, Usopp è
terrorizzato e Nami è incavolata nera.
“Sanji-kun, non ce l’hai un
‘po’ di tempo’! L’azienda perde
13 milioni di
dollari l’ora e ne sono già passate tre! Ti
risparmio calcoli più precisi” mi
sbraita addosso la nostra affascinante direttrice. D’accordo,
ero in grado da
solo di capire la gravità della situazione ma non per questo
mi cadrà dal cielo
la soluzione. Sbuffo per la frustrazione. D’un tratto Usopp
si inquieta e
indica verso la parete a vetri del nostro ufficio. Guardando nella
direzione
del suo indice riesco chiaramente a vedere il consiglio
d’amministrazione
dell’azienda in delegazione. Grandioso, di bene in meglio.
Nami impallidisce
ma, da perfetta ed impeccabile donna d’affari, deglutisce e
si avvia ad
accogliere i nostri superiori. Senza dimenticarsi, ovviamente, di
sibilarmi un
amorevole “Vedi di muoverti o saranno guai” che mi
provoca brividi gelidi lungo
la spina dorsale. Senza una parola, mi volto verso il monitor.
Tutta la maledetta mattinata passa così, a cercare una
soluzione per la
cancellazione di quel virus di merda e a dare soddisfacenti spiegazioni
agli
ignoranti che amministrano anche la nostra sezione. Di buono
c’è che sono
riuscito a far ripartire tutto o quasi. Di terribile
c’è che non sono riuscito
neanche a toccare il virus, sembra che ogni volta che riesca ad
individuarlo
scompaia nel nulla.
Non ho alternative, ovviamente. So dove devo andare nella
pausa pranzo. Avverto Usopp di non aspettarmi tanto presto
perché devo
‘riflettere’, lui non risponde ma annuisce
complice. Nessuno sa come faccia a
tornare sempre con la soluzione a qualunque problema, ma ormai non
fanno più
domande. È per quello che mi hanno etichettato come genio,
ma sono liberi di
pensarla come vogliono, non m’importa. Quello che conta, ora
come ora, è
tenersi il lavoro. Anche perché è
l’unica cosa che mi permetta di dare alla mia
vita una parvenza di realtà, se dovessi venire licenziato
sarebbe come se
firmassero la mia condanna a morte.
Buffo, senza lavoro sarei un cadavere a pieno titolo; con il lavoro
sono un
morto vivente. Credo che solo Patty sentirebbe la mia mancanza.
Ah, Patty è la mia tartaruga, vive con me e mi conforta
nelle ore di
solitudine.
Non dite niente, per favore, me ne rendo conto anche da solo.
Faccio una sosta in gelateria, mi sentirei uno schifo
altrimenti. È una vita che non mi faccio vedere,
praticamente dall’ultima volta
che ho avuto un problema che non sapevo risolvere. Poi del cibo per lui
va
sempre bene, non oso immaginare come si sta nutrendo. Rabbrividisco
ogni volta
che mi rendo conto delle sue abitudini alimentari, ma ormai non mi
ostino più a
cercare di istruirlo, so riconoscere una causa persa quando ne vedo
una. Credo
che gliene porterò un chilo, di gelato.
“Che gusti le metto, signore?”
“Faccia lei, tranne il cioccolato”
Non gli piace il cioccolato, me lo ricordo bene anche se di solito non
sto attento
ai dettagli. O forse gli piace, ma mi ha detto di no solo per farmi
incazzare.
Gli avevo preparato la torta per il compleanno… al cacao.
Merda. Forse dovrei
tornarmene a casa e rassegnarmi a perdere il lavoro.
“Ecco a lei. Fanno 12 dollari e 20”
Prendo in considerazione l’idea di mangiarmi da solo dodici
dollari di gelato,
con la possibilità poco probabile di dividerlo con Patty e
l’eventualità molto
probabile di vomitarlo tutto nel lavabo per lo stress. No, non posso
permettermi di assecondare le mie debolezze adesso. E devo
ammettermelo, in
fondo lui mi manca.
Cammino, forse un po’ troppo lentamente considerando i
milioni che sfumano ogni
istante in cui io me la prendo comoda. L’autunno sta
lasciando il posto
all’inverno, il vento si fa più gelido e devo
sollevare il colletto della
giacca. Ho dimenticato a casa la sciarpa, è un sacco di
tempo che non cammino
per la città e non mi ero nemmeno accorto che fosse cambiata
stagione. Ecco
come gli impegni riescono a scinderti completamente dalla
realtà, creando una
spaccatura tra la vita e quello che tu consideri vita tale da lasciarti
senza
fiato quando te ne rendi conto. Se te ne rendi conto. Da un certo punto
di
vista sono felice di esserne consapevole, significa che sono ancora
qua. Anche
se mi sento morto dentro.
Mi allontano dalla zona di Manhattan e mi addentro nel Bronx, il grigio
della
nebbia si confonde con il colore spento dei muri sberciati. Con tutti i
soldi
che ha potrebbe abitare in una zona più bella, se non nei
quartieri di lusso
almeno in un’area residenziale. Ma anche questa è
una battaglia persa, io mi
sono rassegnato tempo fa.
Raggiungo il palazzo dal portone rosso, non hanno ancora
aggiustato la serratura. Meglio per me, non devo
suonare e posso tergiversare ancora mentre salgo le scale. Quasi non mi
accorgo
che sto rallentando ancora. Sempre più piano… Cosa gli dirò?...
più piano… Cosa
mi dirà?... piano… Mi
sbatterà la
porta in faccia… pianissimo… Ora
torno a casa…
Busso, ovviamente. Abbastanza leggero da poter credere che
non abbia sentito, abbastanza forte da essere sicuro che
verrà a rispondere.
Sono davvero patetico.
Sento dei passi dall’altra parte della porta e per un attimo
mi viene il dubbio
che non abiti più qui. Se non dovesse essere lui? Valuto
l’ipotesi per qualche
istante, potrei nascondermi dietro alla pianta rinsecchita
all’angolo del
pianerottolo e guardare senza essere visto chi aprirà la
porta. Oppure potrei assumermi
le mie responsabilità e andare con coraggio incontro ad una
monumentale figura
di merda. In quel caso potrei regalare allo sconosciuto il gelato, di
sicuro lo
gradirà più di Patty. O del lavabo.
Dall’altro lato del corridoio sembra che si sia messa in
azione una cassaforte,
si sentono cigolii e ingranaggi che stridono come se non fossero stati
utilizzati di recente. Dopo quasi cinque minuti di rumori, il silenzio.
Si apre
uno spiraglio, legato dalla catena. Cos’è, paura
dei ladri?
Nel fascio di luce che viene dalla porta, riconosco una fisionomia nota
e una
familiare testa di capelli verdi. Abita ancora qui, in questo posto da
schifo.
Una parte di me esulta, l’altra se ne dispiace. Non
cambierò mai. Lo osservo,
per quanto mi è permesso dalla porta semichiusa; non
è cambiato di molto, solo
i capelli un po’ più lunghi e la pelle un
po’ più pallida. Anche lui mi guarda,
con i suoi occhi che paiono buchi neri in cui devi stare attento a non
cadere e
perderti per sempre. Ero solito scivolarci dentro e bearmene per ore,
tempo fa.
Adesso devo stare attento a camminarci nel bordo, come un equilibrista.
Vorrei
sorridere ma ho paura che esca un ghigno quindi non ci provo nemmeno,
non che
lui stia facendo grandi sforzi per mettermi a mio agio, mi guarda come
fossi
un’apparizione. La voce mi è morta in gola, non
riesco nemmeno a salutare. Fortunatamente
ci pensa lui a rompere il ghiaccio.
“Ah, sei tu.”
Ho per caso detto ‘fortunatamente’?
D’un
tratto mi sembra di aver recuperato tutto il mio coraggio e la mia
strafottenza.
“Mi fai entrare?”
Mi squadra un’altra volta e mi punta di nuovo quelle perle
nere che ha al posto
degli occhi dritte in faccia. Sostengo lo sguardo per un tempo che mi
pare
infinito. Poi lui alza gli occhi al cielo e sbuffa. La porta sbatte per
poi
riaprirsi, libera dal catenaccio.
“Entra” mi dice, il tono piatto.
Lo seguo attraverso l’ingresso, la casa è
esattamente come
la ricordavo. Vuota, se non si conta il numero esagerato di personal
computer e
congegni elettronici che giacciono ovunque, dal salotto alla camera. Ha
due
semplici stanze praticamente semivuote; un tavolo, la cucina con solo
il gas e
il lavandino e, nella seconda stanza, il letto, il comodino e i pesi.
Cavolo,
quel comodino l’ho comprato io… non riesco a
contenere una stretta di
commozione.
“Non l’hai buttato” gli faccio notare,
indicando il mobiletto in noce. Guarda
distratto verso l’altra stanza.
“Perché avrei dovuto?” mi chiede
ingenuamente, sembra che abbia detto una
colossale idiozia. Scuoto la testa, non mi serve davvero una risposta.
Mi porge
una sedia e crolla con malagrazia sulla sua, il volto già
immerso nello schermo
sul tavolo. Le dita danzano febbrilmente sulla tastiera, come stesse
componendo
una melodia. Lo guardo ammaliato per qualche minuto, dimentico di
quello per
cui ero venuto. Mi fa sempre questo effetto, è
più forte di me, e credo che
anche lui non abbia dimenticato la sensazione di sentirsi osservato.
Non gli ha mai dato fastidio, di questo sono sicuro.
E’ lui a riscuotersi per primo. Parla senza staccare gli
occhi dal monitor, il
suono esce dalle sue labbra come fosse lontano anni luce da
lì e non nella
stessa stanza accanto a me. Certo, ormai è questo che siamo
diventati… due
galassie diverse. E devo farmene una ragione.
“Di cosa hai bisogno?”
Che brutta domanda da sentirsi rivolgere, ti scarica addosso tutta la
pochezza
di spirito che senti di avere nel petto ma che avevi tentato di
nasconderti
fino a quel momento. Percepisco la mia meschinità come una
seconda pelle, ma
inutilmente cerco di celarmi dietro ad una maschera.
“Cosa ti fa pensare che abbia bisogno di qualcosa?”
chiedo, la voce falsamente
sarcastica e leggermente distorta. Ottengo un effetto inaspettato, si
volta
verso di me. Erano anni che la mia voce non conquistava questo
risultato, ma
non so se esserne stupidamente felice o terribilmente spaventato. Si
è reso
conto della situazione disperata in cui mi ritrovo?
Dall’espressione capisco esattamente cosa sta pensando, di solito ti ripresenti quando il tuo minuscolo
cervello non riesce a
penetrare i misteri della vera informatica. Ma non mi umilia
così, si limita
alla riflessione. Poi lo sposta lo sguardo sulle mie ginocchia.
“Oh, gelato…”
Prende la vaschetta che avevo ancora in mano, me ne ero dimenticato. In
quel
momento, quasi come un riflesso incondizionato, mi guardo intorno alla
ricerca
d’indizi su come e cosa mangia, quanto può essere
difficile da sopprimere
l’abitudine. Con orrore mi rendo conto delle confezioni di
cibo in scatola e
cinese take away, delle lattine di birra e bottiglie di pepsi cola.
Sento un
brivido su tutto il corpo.
“Magari la prossima volta ti faccio la spesa, sembri averne
bisogno…”
Non commenta nemmeno stavolta, la cosa suona strana alle mie orecchie.
Una
volta non mi risparmiava nulla, anzi. Lo sento scartare il gelato e
armeggiare
con coppette e cucchiaini. Poi, una risatina divertita.
“Ma guarda, niente cioccolato…”
Ecco ricomparso lo stronzo che conosco.
Mangiamo in silenzio, lui ancora lo sguardo perso nel
computer, io fisso su di lui. Come al solito indossa vecchi jeans
trasandati e
una t-shirt scolorita. Non ha perso il suo fisico atletico, anzi sembra
aver
aumentato la massa muscolare, d’altra parte le occhiaie nere
e il colorito
pallido mi suggeriscono che non esce molto di casa. La sua salute
fisico-psichica non sembra molto migliore della mia, ma come sempre
è ‘mal comune
nessun gaudio’. Guardo da sopra le sue spalle che cosa sta
facendo al computer
e, al solito, non capisco una mazza. Sta configurando qualcosa,
inserisce
caratteri ma di più non riesco a decifrare. Sembra che mi
abbia letto nel
pensiero perché, d’un tratto, comincia a
spiegarmi.
“E’ un virus invisibile; lo programmo in modo che
si, come dire, “nasconda”
dentro ai server e che si riproduca quando vengono riconfigurati i
codici. Lo
spedisco in coppia con un virus esca e, quando disattivano e riattivano
i
programmi per cancellare l’esca… mi danno accesso
a tutti i loro server,
esattamente come ora”. È sempre stato un filo
saccente nelle spiegazioni, mi
tratta come un laureato di primo pelo e la cosa mi ha sempre mandato in
bestia.
Ho tutte le intenzioni di farglielo notare ma riprende a parlare prima
che
riesca a lamentarmi.
“Ciò significa che, ora, posso scaricare ogni
informazione da tutte le loro
catene di archiviazione elettronica… cosa che ho intenzione
di fare,
ovviamente” continua, gli è spuntato un sorrisino
furbetto a lato della bocca.
Rapido, inserisce una chiavetta USB nel portatile.
“vuol dire che conosco ogni minima notizia e relazione di
quest’azienda e che
posso farne uso in qualunque momento per qualunque scopo. In sintesi,
li tengo
per le palle” conclude, il sorrisino trasformato in un ghigno
sghembo di pieno
appagamento e considerazione di sé. Maledetto hacker del
cazzo, sapesse come
si stanno dannando in questo momento gli informatici che si occupano
della
sicurezza del sistema che si è appena divertito a
smantellare. Ora come ora gli
tirerei un schiaffo da capogiro. Credo che si sia reso conto del mio
pensiero
spontaneo, perché mi guarda divertito.
“Non picchiarmi, non è la tua azienda che ho
hackerato…” mi dice, candido come
una colomba appena caduta in una stiva di petrolio. Lo guardo
malissimo, non è
certo questo che mi preoccupa e ormai mi sono rassegnato anche del
fatto che si
diverta a delinquere, il mio problema ora è quel virus
che…
Cazzo. Oh, cazzo.
No, non posso aver fatto un errore così clamoroso ed
eclatante. Non posso aver
passato l’intera mattina a cercare di distruggere una
semplice esca mentre il
vero virus, invisibile, stava copiando i dati comodamente da dentro il
server.
Se dovesse essere così… non oso nemmeno
immaginare la possibile stima dei
danni, altro che licenziamento, quelli mi fanno la pelle. Si accorge
subito del
mio repentino cambio di umore e mi guarda un po’ preoccupato.
“Stai bene? Sei impallidito” mi fa notare, gli
ricorderei che lui è talmente
bianco da potersi mimetizzare con il muro ma, francamente, ora ho altro
per la
testa. Sposto lo sguardo da lui al suo computer un paio di volte prima
di
recuperare l’uso della parola. La voce mi esce flebile dalla
gola, vorrei non
dover pronunciare niente del genere. Ma se c’è una
persona che può aiutarmi a
sistemare la situazione, quello è lui.
“Potrei… potrei aver subito un attacco simile al
mio sistema, stamattina”
comincio cauto, evito di guardarlo in faccia. Sento comunque che si
è
raddrizzato sulla sedia, vuol dire che è interessato. Allora
continuo.
“E… potrei aver passato la giornata a cercare la
presunta ‘esca’, dopo aver riattivato
il programma”. Sento la gola secca e il respiro pesante. No,
non può essere
vero, deve essere un incubo.
Non mi risponde subito, il silenzio diventa pesante. Risollevo lo
sguardo su di
lui, ho bisogno di sapere, ma lo trovo concentrato, una mano a
sorreggersi il
capo e l’altra che picchietta sul tavolo, gli occhi chiusi.
Quando riapre le
palpebre mi fissa, il suo sguardo quasi mi trapassa. Mi sento male.
“L’hai cancellato il virus?” mi chiede
semplicemente, ma intuisco che la
risposta a questa domanda è la chiave per la mia
tranquillità.
“No… non sono riuscito nemmeno a vederlo.
È per questo che sono qui” rispondo,
credo che la verità sia l’arma migliore. Si
rilassa subito, ha addirittura il
coraggio di sorridere davanti alla mia espressione terrorizzata. Gli
rivolgo
uno sguardo sdegnato.
“Non preoccuparti, il problema è un altro. Se
fosse stata una semplice esca,
anche tu saresti riuscito a cancellarlo” mi tranquillizza,
ricominciando a
lavorare sul suo PC.
Si è accorto che mi ha appena insultato?
Al mio ritorno in ufficio so esattamente come comportarmi.
Mi rinchiudo nel mio antro e, con le due dritte di Zoro, risolvo il
problema in
meno di due ore. La direttrice è al settimo cielo, gli
amministratori sono
soddisfatti, il calcolo dei danni è alto ma non
insostenibile e io ho ancora il
lavoro. Per l’ennesima volta, grazie a lui.
Ho a malapena il tempo di andare a farmi una doccia e a cambiarmi
d’abito e
vengo letteralmente trascinato fuori, a bere sopra lo scampato
pericolo. Dovrei
essere felice di passare una serata in compagnia, io che mi lamento
sempre del
fatto che faccio coppia con Patsy. Eppure mi sento vuoto e stanco,
stasera
vorrei solo stendermi sul divano e smettere di pensare.
Di pensare che io non merito di sedere qui.
Di pensare che l’unica persona che ci permette di avere
ancora un lavoro e uno
stipendio è da un’altra
parte, sola.
Di pensare che quella persona mi manca da morire.
Di pensare che la mia solitudine e la sua sono uguali.
Di pensare che, in fondo, è solo colpa mia.
Nami parla ininterrottamente da ore ormai, ma io non
recepisco nemmeno una parola. Usopp è ubriaco fradicio e
balla sul tavolo,
sparando panzane assurde a cui solo Chopper può ancora
credere. C’è anche il
ragazzo di Nami, sono insieme da circa due mesi. Io non lo sopporto,
è un
cafone idiota ed arrogante, ma lei sembra stare bene, era da tanto che
non la
vedevo ridere così felice. O forse è su di giri
perché, nonostante il rischio
di oggi, non ci hanno abbassato lo stipendio. Quella ragazza
è impossibile da
decifrare.
Alla fine è lui che le tappa la bocca, meno male non ne
potevo più. Siamo tutti
alticci ormai, lei e il suo bello cominciano a strusciarsi addosso e a
limonare
nel bel mezzo del locale e io mi sento ancora più solo.
Non che mi piaccia Nami, chiariamo, anche se è una gran
bella ragazza e non
disdegnerei certo. Il mio tormento è molto più
interiore, si potrebbe definire
platonico. Se non fosse che sono anche morto di fame e non scopo da un
anno.
Ecco, mettiamo in piazza tutti i problemi, chissenefrega della
dignità…
Tiro fuori dalla tasca il cellulare, tanto per fare qualcosa e
distogliere lo
sguardo non perché abbia effettivamente qualcuno da
chiamare. Pigramente scorro
le dita sul display leggendo i numeri della rubrica; sono tantissimi
contatti,
che però non sento più da tempo immemore.
Compagni di liceo, qualche amico
delle vacanze estive, colleghi di università…
arriva anche il suo contatto: marimo idiota.
Devo riconoscere che non
sono mai stato granché carino, con lui.
Potrei chiamarlo e chiedergli come sta, se non temessi di fargli venire
un
mezzo infarto per averlo contattato due volte nella stessa giornata. E
inoltre,
chiamarlo da non esattamente sobrio non mi sembra una grande idea.
Comincio a
scrivere un SMS:
“Cretino, non stare da solo tutta la sera e vieni a bere
qualcosa”
Leggo due o tre volte, indugiando sul tasto
‘invio’.
Aggiungo una cosa:
“…che questa vittoria la
dobbiamo a te”.
Rileggo. Non mi convince.
“la devo a te”
Così è perfetta. Chiudo lo schermo con uno scatto.
Sarebbe perfetta, se non fossi un codardo.
Angolo dell'autore:
Eccoci qui! Allora, che ne pensate?
Questa fic è un piccolo esperimento, tutta in prima persona
e con il punto di vista di Sanji. Aspetto vostri commenti, vorrei
sapere se l'idea ve gusta o se invece trovate la narrazione pesante.
La storia è già pronta e confezionata, consiste
in due capitoli lunghetti (quello che avete appena letto e il prossimo)
più una specie di epilogo, che invece è cortino.
So che è OOC ma spero non troppo, mi scuso per quanto
è sboccato il mio Sanji (ci provo in tutte le maniere ad
insegnargli l'educazione, io, ma è impossibile, è
peggio di uno scaricatore di porto!).
Zoro è un disadattato. Evviva.
La tartaruga si chiama Patty perché nemmeno Sanji avrebbe
potuto chiamarla Carne, e avevo paura a chiamarla Zeff (non ci tengo a
ritrovarmi morta con una gamba di legno a perforarmi la schiena).
Il rating è giallo e rimarrà tale.
Un bacione, alla prossima!
killer_joe
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