Note:
Questa
storia è stata scritta per il BigBang Italia #7.
Il
word building di Oda è variegato e include un miscuglio di
culture e tradizioni diverse, ho cercato quindi di mantenere questo
tratto secondo me fondamentale inserendo personaggi dai background
culturali diversi. Ho provato inoltre ad evidenziare alcune cose che mi
hanno sempre lasciata perplessa di questo mondo come la più
totale assenza di un sistema scolastico o i problemi stessi che ci sono
nell'ordine della marina. Siccome uno dei personaggi usa termini
Yiddish nelle note qui sotto trovate le traduzioni, mi piaceva l'idea
di creare un contrasto tra la famiglia fortemente cattolica di Hina e
l'ambiente in cui invece cresce Smoker.
Ogni
capitolo prende il nome da una parola Giapponese che racchiude un
concetto.
1)
Mono no Aware, lit. "il pathos delle cose", la leggera malinconia che
si prova per la caducità delle cose e la consapevolezza
della tristezza dell'esistenza.
Altri
nomi degni di nota presenti in questo capitolo:
Okabe,
il cognome della famiglia di Hina, significa "sezione della collina",
in riferimento alla posizione della casa.
Natsukashii,
adj. riferito ad alcune piccole cose che ti riportano alla mente, con
gioia sottile, momenti piacevoli, non con un senso di malinconia per
ciò che è passato, ma con un senso di
apprezzamento per i bei momenti trascorsi
Tatemae,
ciò che una persona pretedente di credere: i comportamenti e
le opinioni che bisogna mostrare per soddisfare le domande della
società
Havamama,
da Eva + Mama, in riferimento alla donna che fu la prima madre e di
conseguenza la madre dell'uomo, in questo caso una madre per chiunque
ne abbia bisogno.
Traduzione
dei termini Yddish:
Bubbeh,
nonna
Bubala,
piccolina/cara
Luzzem,
lasciala stare!
Hockstetter,
rompiscatole
Dybbuk,
fantasma/spirito maligno
Narrishkeit,
sciocchezze
Shayner,
attraente
Shiksa,
ragazza/donna gentile
Klutz,
goffo
Schmeckle,
pene piccolo
Pisher,
piscia a letto/persona giovane e inesperta
Putz,
volgare per pene (spesso riferito agli stupidi)
Ashknaz,
un modo per indicare il linguaggio Yddish
Ess,
mangia!
Hak
mir kayn chaynik, smettila di borbottare come una teiera
A
messa mashee afdeer, una morte orribile a te!
Antloyfn,
correte/scappate
Ikh
hob dir in drerd, vai all’inferno
geh
gesund, addio – letteralmente “Vai in
salute”
La
storia è già completa, è composta da 5
capitoli ed è stata originariamente postata a Novembre
scorso su AO3 - verrà aggiornata una volta a settimana, con
conclusione il 29 Febbraio.
Double
Exposure
There
are friendships imprinted in our hearts that will never be diminished
by time and distance.
– Dodinsky, In the garden of thoughts
1.
Mono no aware.
La
casa sorgeva sulla collina da almeno duecento anni. Mura bianche e
persiane verdi, un tetto di mattoni rossi, edera rampicante sulla
parete sud e un vasto giardino, era questa la proprietà
degli Okabe: una villa d’epoca trasmessa di generazione in
generazione. I proprietari possedevano terreni su tutta
l’isola; erano una famiglia di commercianti e
l’attuale capofamiglia, Hideaki Okabe, era dedito
principalmente alla compravendita di oggetti d’arte. Sua
moglie, una donna tranquilla dai capelli rosa e l’aria
annoiata, trascorreva le sue giornate con quelle che potevano
considerarsi le mogli nullafacenti dei politici di Natsukashii Town, la
cittadina più grande dell’isola di Tatemae; si
erano conosciuti a Karate Island, nel South Blue, dove Hideaki aveva
dichiarato di essersi follemente innamorato dello sguardo scettico e
della personalità decisa di Natsuki. Non che le donne
dell’isola fossero rimaste soddisfatte della sua scelta,
molte di loro avevano messo gli occhi sul figlio degli Okabe fin
dall’adolescenza, e se l’erano viste soffiare sotto
il naso da una straniera, una straniera che sulla loro isola non faceva
che guardare tutti dall’alto in basso e annuire anche di
fronti ai discorsi più noiosi.
Poi,
però, era nata la bambina.
Sua
madre aveva scelto di unire le iniziali dei loro nomi e
l’avevano chiamata Hina; occhi tanto scuri da sembrare neri,
proprio come suo padre, e capelli rosati a contornare un viso delicato,
in breve la principessina della collina aveva conquistato
l’intero villaggio, e poco importava che i suoi genitori,
timorosi dei rischi che avrebbe potuto incontrare
all’esterno, la tenessero quasi segregata in casa: tutti in
paese adoravano la bambina, ma solo pochi l’avevano vista.
La
verità era che la gran parte della colpa era imputabile a
Natsuki che, dopo essersi trasferita sull’isola, aveva
lentamente iniziato a spegnersi; dapprima sinceramente innamorata del
marito, si era dimostrata disposta a modificare in toto il suo stile di
vita, abbandonando ogni cosa pur di seguirlo. Solo il seguito si era
resa conto di cosa volesse veramente dire essere la signora Okabe,
circondata da lussi e dall’alta società di
Natsukashii, ma priva quasi completamente della compagnia
dell’uomo che aveva sposato, spesso troppo preso dalle sue
attività di lavoro e costantemente in viaggio. Quando Hina
era nata, Natsuki era già sposata da tre anni e si era
lasciata trascinare nel vortice ozioso di feste e visite di cortesia
che scandivano la vita delle signore della città alta; le
attenzioni che aveva dedicato alla figlia erano piano, piano scemate,
fino a trasformarsi in semplici contatti e incontri organizzati ogni
mattina a colazione e durante le cene di famiglia (le volte in cui gli
impegni sociali non la chiamavano a uscire). Non è che la
signora Okabe non amasse sua figlia, semplicemente, senza che nemmeno
lei se ne rendesse conto, aveva lasciato che l’aria spessa di
Tatemae l’avvolgesse nelle spire di una
quotidianità che fino a qualche anno prima avrebbe
disprezzato.
Hina
era seccata.
Strinse
le piccole mani sottili sul bordo della gabbia, abbassando leggermente
lo sguardo sulle punte dei piedi; in realtà non era proprio
sicura che quello che provava fosse fastidio, quanto più una
spiacevole sensazione di disagio e inadeguatezza, causata da quegli
occhi indagatori e dallo sguardo sprezzante di quel ragazzino sporco.
Tuttavia
sua madre lo diceva sempre quando aveva bisogno di darsi un tono
“Che seccatura”, e Hina era così
abituata a sentirglielo dire (Che seccatura il nuovo progetto di
costruzione, che seccatura la festa a casa del sindaco, che seccatura
la moglie del comandante) che si era convinta fosse lo stato
d’animo migliore da adottare quando ci si trovava in
situazioni spiacevoli, quelle brutte volte in cui non sai che pesci
pigliare.
Così
cercò di farsi coraggio, senza avvicinarsi troppo,
perché quel ragazzino puzzava e c’era del fango
sui suoi capelli, e quel cane che si portava appresso avrebbe potuto
morderla, e cosa avrebbe detto suo padre se si fosse sporcata il
vestito? Dicevamo, così si fece coraggio e gli rivolse la
parola.
«Hina
è seccata» mormorò piano, senza osare
guardarlo negli occhi, pur rendendosi conto che questo non rispondeva
assolutamente alla domanda che il giovane le aveva posto poco prima.
Le
si era avvicinato comparendo dal nulla, osservando dall’alto
in basso il suo fisico minuto, il suo vestito costoso e la gabbia con
gli uccellini che stringeva tra le mani; doveva avere
all’incirca la sua età, al massimo un paio di anni
di più. Si trascinava sulla spalla una vecchia mazza di
legno, grossi chiodi arrugginiti spuntavano da
un’estremità e la bambina si domandò se
le incrostazione che vedeva fossero macchie di sangue. Aveva un grosso
cerotto sulla tempia sinistra e il viso pieno di graffi, come quello di
qualcuno che è appena stato coinvolto in una rissa.
Hina
si era persa; nonostante le fosse stato proibito di uscire dalla villa
di famiglia da sola, quella mattina aveva deciso che voleva vedere se
al mercato vendevano qualcosa per medicare le ali di Bianca, una delle
colombe che sua madre le aveva regalato qualche mese prima, che si era
ferita contro una delle sbarre della voliera. Così era
scivolata fuori dalla porta delle cucine ed era riuscita a uscire dal
cancello secondario del giardino senza che nessuno la notasse; poco
pratica della vita cittadina, si era persa in breve tempo, ritrovandosi
a girare senza meta, con una vaga sensazione di ansia alla bocca dello
stomaco.
Era
stato al limitare della città che aveva incontrato quel
ragazzino, che l’aveva fissata per qualche momento prima di
avvicinarsi e domandarle se si fosse persa.
«Ti
chiami Hina? Capisci quello che dico o sei torda? Ti sei
persa?»
Fece
un passo verso di lei e quindi contorse il viso in una smorfia strana
nel vederla indietreggiare leggermente e annuire con foga.
«Non
ti faccio mica niente, cosa credi! Mi chiamo Smoker» disse
appoggiando per terra l’arma di fortuna e sedendosi di fronte
a lei «Lui è Chaser, il mio migliore
amico».
Il
cane, un piccolo bastardino bianco sporco, abbaiò,
cominciando a scodinzolare nel sentire il suo nome, sedendosi a fianco
del suo padrone.
«Non
ho mica paura che tu mi faccia qualcosa, guarda che sono
grande!» esclamò vagamente piccata, sedendosi
compostamente di fronte a lui e stringendosi al petto la gabbia con la
colomba.
«Se
eri davvero grande mica ti perdevi, io sono grande» le fece
notare l’altro, senza smettere di fissarla, calcando con
particolare rilievo su quell’ “io”.
«Ma
se hai sbagliato tutti i verbi…»
«Cosa
vuol dire! Mica se so i verbi allora non sono grande! Io non mi perdo,
ho otto anni!»
«Io
ne ho solo sei, ma i verbi non li sbaglio»
continuò la bambina convinta, sentendosi un po’
meno intimorita dall’ignoranza del suo compare.
«E
io che volevo aiutarti! Arrangiati, tu e il tuo stupido
uccello».
«Bianca
non è stupida, sa fare un sacco di cose!»
«Sa
dare la zampa?»
«No,
beh –»
«Sa
stare seduta?»
«No,
ma –»
«Sa
fare il morto?»
«No».
«Cos’è
che sa fare?»
«Sa
volare» mormorò piano la bambina sentendosi quasi
stupida nel dirlo.
«Ma
è in una gabbia!» protestò Smoker.
«La
voliera a casa è più grande di così,
tanto più grande, grandissima».
«Sarà
grande quanto ti pare, ma rimane sempre una gabbia».
«Hina
non è d’accordo» borbottò la
bambina con una smorfia.
«Perché
lo fai?» le chiese improvvisamente il ragazzino aggrottando
le sopracciglia.
«Cosa?»
«Perché
inizi le frasi col tuo nome?»
«Si
dice terza persona, e mio padre lo odia» asserì
Hina «Ho iniziato l’anno scorso per fargli un
dispetto, ma ho deciso che mi piace».
Il
bambino sembrò pensarci un attimo, quando finalmente gli
sembrò che la motivazione fosse sensata tornò a
guardare la compagna.
«E
cos’è che ci fai qui se ce l’hai un
papà?»
«Volevo
andare al mercato» ammise lei «Ma non sapevo dove
fosse».
«Tutti
sanno dov’è! Come fai a non saperlo? È
tipo nel mezzo della piazza grande».
«Hina
non esce molto spesso» si giustificò
«Mia madre dice che è pericoloso».
«Beh,
tua mamma non sa proprio niente! La vedi questa? È la mia
super mazza, ci tengo lontana la gente, con me non ti
succederà niente».
«Ma
se non ci dovrei nemmeno parlare con te! Non ti conosco, e stai
sanguinando» disse senza alcuna inflessione nella voce,
indicandogli un taglio sopra la tempia.
«Ho
fatto a botte con dei ragazzini al molo».
«Come
mai?»
«Occupati
delle cose tue!»
«Hai
fatto qualcosa di cattivo?»
«No!»
protesto con forza il bambino, saltando in piedi irritato che lei
avesse anche solo potuto pensarlo.
«E
allora cosa?»
«Mi
hanno chiamato bastardo».
«Che
cos’è un bastardo? È una di quelle
parole che non si devono dire?»
«È
una cosa brutta, tipo che mia madre non mi voleva e non sapeva chi
fosse mio padre e per questo i miei genitori mi hanno abbandonato. Ma
cosa vuoi capirne tu, si vede che tu una famiglia ce
l’hai».
Hina
fissò intensamente l’uccello in gabbia,
osservandone i movimenti e ammirandone il piumaggio candido.
«Ed
è vero?» chiese senza sollevare lo sguardo.
«Cosa?»
«Che
sei un bastardo».
Negli
occhi di Smoker passò un lampo di rabbia, ma si rese presto
conto che non c’era disprezzo nella voce della bambina,
né alcuna traccia di cattiveria.
«Non
so chi fosse mio padre» ammise infine tornando a sedersi
«E non so nemmeno se mia mamma lo sapeva, è morta
tempo fa».
«Se
è morta non ti ha abbandonato, anche se loro te lo dicono. E
poi potresti benissimo esserlo –»
«Ehi!»
«Così
come potresti non esserlo, giusto?»
«Io,
beh immagino di sì».
«Quindi
perché te la prendi?»
«Perché
mi stanno insultando, mi pare chiaro».
«Ma
è stupido, se è vero è vero, se non
è vero che ti importa?!»
Smoker
rimase leggermente interdetto a fissarla.
«Te
lo dicono apposta per farti adirare e poterti picchiare».
«Cosa
vuol dire adirare?» domandò il bambino,
aggrottando le sopracciglia.
«Quando
te la prendi per le cose».
«Come
arrabbiarsi?»
«Sì,
ma il mio precettore dice sempre che solo i cani si prendono la rabbia
e non è un termine adatto a una signorina di buona
famiglia».
«Cos’è
un precettore?»
«È
il mio insegnante, quello che mi insegna a leggere e a scrivere.
Trascorro quattro ore assieme a lui ogni giorno, non è molto
interessante, ma mi piace tanto quando mi racconta del grande
blu».
«Sai
leggere?»
«Certo
che sì, tu no?» Smoker abbassò lo
sguardo, imbronciato, il suo volto trasformato in una smorfia che alla
bambina non sfuggì «Non sai nemmeno scrivere,
vero?»
«Tanto
mica mi serve».
«Certo
che ti serve, la mia mamma dice che sono cose che tutti dovrebbero
saper fare e che è colpa del governo che non ci
pensa».
«Senti
a me mica importano quelle cose lì,
però…»
«Cosa?»
«Pensi
che se ti riporto a casa posso ascoltarle anche io le storie del grande
blu?»
Hina
storse il naso e squadrò il bambino dall’alto in
basso.
«Prima
però ti devi pulire» decise «E ti devo
insegnare a parlare».
«Io
so parlare» protestò Smoker.
«Ma
non sai coniugare i verbi».
«Al
diavolo!»
«E
dici le parolacce» si interruppe per qualche momento
«E laveremo anche il tuo cane».
Si
sollevò in piedi, avvicinandoglisi finalmente, oramai priva
di qualsiasi paura e gli allungò una mano, mentre con
l’altra teneva stretta la gabbietta di Bianca; Smoker sorrise
appena e accetto l’offerta, rialzandosi e iniziando a
tirarsela dietro in direzione di qualcosa che solo lui conosceva.
«Ma
non ti ho detto dove abito».
«Oh
beh, Havamama lo saprà di sicuro. Lei sa sempre
tutto» esclamò il bambino incamminandosi con
decisione.
Havamama
era un donnone alto come un armadio e largo come una porta, la sua
pelle era scura più dell’ebano e quando sorrideva
una fila di denti bianchi illuminavano il viso segnato dal tempo. Aveva
vissuto a Natsukashii tutta la sua vita e si ritrovava con una casa
troppo grande, un marito morto dieci anni prima e nessun figlio;
gestiva un piccolo negozio di alimentari in cui non entrava quasi
nessuno, eppure Havamama andava avanti, sembrava invecchiare con la
città, seguendo il ritmo delle stagioni e osservando con
aria impassibile il ricambio delle persone. Nessuno avrebbe saputo dire
quanti anni avesse, né da quanti anni – o forse
secoli – fosse sull’isola, certo era che quel
donnone corpulento dal sorriso gentile, aveva trasformato la sua casa
in un centro per i giovani orfani della città e innumerevoli
erano stati coloro che erano passati sotto le sue mani materne e il suo
abbraccio gentile.
Smoker
era uno di questi bambini, senza casa, senza famiglia, solo con
sé stesso, diffidente nei confronti del mondo; erano in
pochi, nella sua generazione, i bambini che non erano riusciti a
trovarsi qualcuno che li adottasse, ma nessuno voleva prendersi in casa
un ragazzino dall’aria ribelle e violenta. Si diceva di lui
che attaccasse briga con i bambini più grandi al porto per
rubar loro i soldi del pranzo, che non si lavasse mai e che avesse le
pulci, dicevano anche che sua madre era una prostituta, una poco di
buono che aveva vissuto nella zona industriale della città
prima di morire di malattia; solo Havamama lo aveva accolto, lo faceva
dormire a casa sua nelle notti troppo fredde e gli dava da mangiare
quando nessuno degli altri abitanti della città trovava
tempo da dedicargli (ma c’era da ammettere che spesso le
donne della città gli lasciavano degli avanzi o lo
accoglievano per la merenda).
«Vieni
da Bubbeh» gli diceva ogni volta che lo vedeva avvicinarsi,
allargando le grosse braccia grassocce come a volerlo abbracciare;
Smoker si lasciava catturare per qualche secondo salvo poi sottrarsi a
quella stretta materna, lamentandosi di essere troppo grande per certe
cose.
Quel
giorno, però, quando la donna lo vide arrivare non
spalancò le braccia e non aprì bocca, osservando
incuriosita la bambina minuta che camminava al suo fianco; occhi scuri
e capelli rosati, una gabbia stretta al petto e una mano chiusa in
quella di Smoker. Hina sembrava essere uscita da un quadro ed era
chiaro che provenisse da tutt’altro ambiente: con i suoi
capelli puliti e i vestiti dalla finitura elegante si distingueva
nettamente dagli abitanti della periferia nord della città.
«Havamama
lei è Hina, Hina lei è Havamama».
«Molto
piacere di fare la sua conoscenza signora» mormorò
Hina a mezza voce chinando appena il capo e stringendo solo leggermente
più forte la sua gabbietta.
La
donna scoppiò a ridere, una risata calda e corposa che
riempì la strada.
«Una
piccola Bubala ti sei trovato Smoker, proprio carina, sì.
Sei una bella signorina, Bubala, lascia che Havamama te lo dica,
proprio bellina, sì».
«Grazie
signora» balbetto la bambina, intimorita da quello strano
modo di parlare.
«Ma
dovresti stare a casa tua, Bubala, dove stanno i ricchi. Con quei
capelli lì, Havamama sa dove dovresti stare, sì
che lo sa. Nella casa sulla collina. Smoker, dove l’hai
trovata?»
«Si
era persa, Havamama».
«Ti
eri persa, piccina? Vieni da Havamama, hai sete? Hai fame? Venite,
venite in casa, piccini».
Smoker
mollò la mano di Hina e seguì la donna oltre
l’uscio, per poi riaffacciarsi con aria interrogativa
nell’accorgersi di non essere seguito.
«Ti
spicci? Vuoi mica che quelli del porto vengano a portati via?»
«Luzzem,
Smoker! Piccolo hockstetter che non sei altro!» lo
redarguì Havamama, urlando dal fondo di una stanza.
«Sei
noiosa, Bubbeh» borbottò il bambino per risposta,
trascinando Hina all’interno e facendola sedere senza tante
cerimonie su una vecchia sedia di paglia.
«Noiosa
io? Come ti permetti?! Piccolo ingrato! Vai a prendere
dell’acqua piuttosto, non vorrai mica che la nostra ospite
muoia di sete, vero?»
«La
ringrazio» mormorò Hina torcendo i piccoli piedini
uno sull’altro «Ma non è necessario, io
vorrei solo tornare a casa».
«Mi
chiedo, però, piccola Bubala, se tu abbia idea di dove sia
casa».
Hina
abbassò lo sguardo e arrossì leggermente, sua
madre le aveva sempre insegnato che dire le bugie era sbagliato,
però ammettere di non avere idea di dove si trovasse le
costava più di quanto pensasse possibile; non che a soli sei
anni avesse idea di cosa fosse l’orgoglio, ma già
andava imparando, al contrario di Smoker, che non sarebbe riuscito a
capirlo per molti anni, che non l’avrebbe portata da nessuna
parte.
«No,
Havamama, non lo so dove sia casa».
«Ah!
Lo sapevo, e ora i dybbuk verranno a prenderti!»
«Che
cos’è un dybbuk?»
«Sono
fantasmi cattivissimi di gente morta e ti rubano il corpo e te lo
mangiano da dentro» continuò imperterrito Smoker,
appoggiandosi con aria saccente alla sua mazza chiodata.
«Narrischkeit!»
esclamò Havamama, mollandogli un leggero scappellotto sul
capo «Non preoccuparti, Bubala, ora questo piccolo stupido ti
riporterà a casa. Nella casa sopra la collina, Havamama sa
bene chi sei. Tutti in paese sanno chi sei, Bubala».
Le
appoggiò dolcemente una mano sui capelli, in una carezza
leggera e le sorrise.
«Torna
a trovare Havamama, la prossima volta vi farò i
biscotti».
La
grande villa era insolitamente silenziosa e a prima vista sembrava
quasi che non ci fosse nessuno; Hina mancava da quasi tre ore e
dubitava che in quel lasso di tempo nessuno si fosse accorto della sua
assenza.
«Hina
pensa che dovresti restare qui» borbottò
osservando con aria perplessa il giardino deserto.
«Hai
detto che potevo sentire le storie» si lamentò
Smoker con una smorfia di disappunto sul viso.
«Sì,
domani. Vedi quel punto lì della porta?»
domandò indicando due assi del portone che sembravano fissi
«Se li sposti di lato si aprono, ma devi stare attento
perché tipo ci passano quelli che lavorano e se ti vedono ti
mandano via e tu» concluse indicando Chaser «Non
puoi proprio entrare, devi aspettare qui fuori, capito?»
«Perché
no?»
«A
mio padre non piacciono gli animali, a Hina sì,
però lo caccerebbero via e si accorgerebbero di
te».
«Tuo
padre è un idiota» berciò Smoker
appoggiandosi al muro di cinta della proprietà.
«Non
si dicono quelle cose» lo ammonì la bambina
«Però se vieni qui domani mattina, ti faccio
entrare di nascosto così puoi sentire le cose che mi dice il
mio precettore».
«E
mi farai entrare davvero?»
«Certo
che sì, le signorine di buona famiglia non le dicono le
bugie, non lo sai?»
Hina
spostò le assi ed entrò silenziosamente
all’interno del cortile, si girò solo una volta a
guardare Smoker, le mani strette sulla gabbia di bianca, un sorriso
lieve stampato sul viso.
«Hina
ti aspetta, allora».
Le
assi si chiusero dietro di lei e Smoker udì solo i passi
veloci che si allontanavano lungo il sentiero di ciottoli oltre la
porta, sollevò le spalle e si allontanò insieme a
Chaser, se non avesse avuto il capo chino, a osservare dove metteva i
piedi, i passanti avrebbero potuto vedere il sorriso sincero che gli
percorreva il volto.
Nel
momento stesso in cui Hina rimise piede in casa, aveva già
deciso che avrebbe accettato di buon grado qualsiasi punizione i suoi
genitori avrebbero ritenuto più appropriata, visto il suo
comportamento del tutto irresponsabile; tuttavia, le sue attese
rimasero quasi deluse.
Ad
accoglierla, con sguardo sollevato, c’era solo il suo
precettore, un anziano signore nato e cresciuto a Tatemae che aveva
fatto da insegnante anche a suo padre quando era giovane;
l’uomo le venne incontro con aria preoccupata e
l’abbracciò di slancio.
«Sia
ringraziato il cielo!»
La
bambina barcollò leggermente sotto il peso di
quell’abbraccio inaspettato.
«Ho
quasi perso dieci anni della mia vita, signorina! Hai idea di che
spavento tu ci abbia fatto prendere?» esclamò il
vecchio «Anna! Vai ad avvisare le cameriere che
l’ho trovata».
«Hina
è dispiaciuta» mormorò piano,
abbassando lo sguardo per la vergogna.
«Meno
male che i tuoi genitori non erano in casa! O sai adesso che punizione
ti aspetterebbe?! Si può sapere cosa ti è saltato
in testa, bambina?»
La
vide rimanere interdetta per qualche secondo, piegare il viso di lato e
trattenere il respiro.
«Bianca.
Volevo solo andare a prendere qualcosa per la sua ala».
«Domani
faremo venire il veterinario, ora fila in camera, prima che qualcuno si
accorga che eri sparita!»
Annuì
e, senza lasciare la gabbietta, corse precipitosamente su per le scale,
fino alla stanza della voliera, dove entrò di filata,
lasciando che la porta sbattesse leggermente al suo passaggio. Non
sapeva bene cosa fosse quella sensazione opprimente che provava nel
centro della pancia, non che volesse davvero che i suoi genitori si
preoccupassero e stessero male come era accaduto al vecchio Jisho,
però la consapevolezza che non si fossero nemmeno accorti
della sua scomparsa le risultava inaspettatamente dolorosa.
Quando
sua madre venne a rimboccarle le coperte, quella sera, gli occhi di
Hina non si staccarono mai per un secondo dalla sua figura,
finché la donna roteando gli occhi non borbottò:
«Non è educato fissare le persone, tesoro, qual
è il problema?»
«Se
sparissi saresti triste?» domandò la bambina senza
mostrare nessuna emozione, il suo viso era una miniatura di quello di
Natsuki, altrettanto impassibile.
«Che
seccatura» la donna si passò una mano tra i
capelli rosa, ravvivandoli e spingendoli all’indietro, quindi
si sedette sul bordo del letto della figlia e la osservò per
qualche istante prima di rispondere «È una domanda
stupida e ti meriteresti una risposta stupida, ma so che non mi
lascerai uscire da qui finché non ti darò una
risposta soddisfacente».
La
vide annuire e quindi proseguì.
«Se
Bianca volasse via saresti triste?»
Sua
figlia annuì di nuovo.
«Hina
per me tu sei come Bianca, e se volassi via o ti allontanassi da me,
sarei davvero molto, molto triste. Per questo preferisco che tu rimanga
in casa o in giardino, non sai mai chi potresti incontrare fuori, e sei
ancora piccola, spariresti in fretta».
«Hina
non è sicura di capire».
«Hina
capirà, vedrai. E non frati sentire da tuo padre con questa
terza persona, sai che non lo sopporta».
Natsuki
le appoggiò una mano sul capo, scompigliandole leggermente i
capelli, non si chinò a baciarla per evitare di lasciarle il
segno di un rossetto troppo rosso sulla fronte.
«Buona
notte, cara».
Per
Hina quella non fu una buona notte.
Il
giorno successivo attese con crescente trepidazione di vedere le assi
di legno del portone di servizio spostarsi leggermente, fu la prima
volta che si accorse di aspettare con ansia un avvenimento; normalmente
la sua vita veniva scandita dal trascorrere di ore sempre uguali, tra
lezioni noiose e prove di etichetta, persino la stanza dei giochi le
era venuta a noia. Hina iniziava a desiderare di vedere il mondo,
scoprirlo. Il pomeriggio precedente i suoi occhi si erano posati su una
moltitudine di nuovi luoghi, nuove persone, nuovi eventi. Non aveva mai
visto nessuno come Havamama prima, né era mai stata in una
zona di periferia, a dire la verità non aveva mai nemmeno
visitato Natsukashii.
Quando
Smoker infilò il naso nello spiraglio e si guardò
intorno, Hina trattenne un leggero gridolino di entusiasmo e gli fece
cenno, da una delle finestre, di entrare; lo andò a prendere
passando per la porta delle cucine, utilizzando il portavivande al
posto dello scalone principale e allo stesso modo lo fece salire al
piano superiore.
Smoker
non aveva nessuna mazza con sé quel giorno, non aveva
portato Chaser e a giudicare dal colore del suo viso doveva anche
essersi lavato.
«Certo
che devi proprio essere ricca».
«Jisho
sensei dice che ai tempi di mio nonno noi Okabe eravamo più
ricchi, ma che poi c’è stata una spropriaqualcosa
e abbiamo perso dei terreni».
«Una
spropriache?»
«Non
lo so, cose da adulti» lo liquidò la ragazzina a
cui il concetto di espropriazione dei beni non era per nulla chiaro
«Senti, lo vedi quell’armadio
lì?»
Smoker
annuì fissando un grosso mobile bianco a due ante; lo
aprì delicatamente, osservando la pila di coperte
dall’aspetto morbido impilate su un lato.
«Ti
ci puoi sedere sopra, se vuoi. Hina pensa tu sia pulito abbastanza da
non sporcare niente» disse la bambina «E di
là ci sono gli scaffali e non ti ci puoi mettere».
«E
se qualcuno ci guarda dentro?»
«Ma
nessuno ci guarda mai dentro! Solo quando rifanno i letti il
lunedì!»
Smoker
non fece in tempo a protestare che Hina lo spinse dentro quasi a forza,
udendo in fondo al corridoio il fischiettare del suo precettore che si
avvicinava.
«Non
fare rumore, ti faccio uscire dopo» sussurrò piano
accostando l’anta in modo tale che rimanesse un leggero
spiraglio aperto.
«Hina-chan,
stavi parlando da sola?» domandò il vecchio
entrando nella stanza «Sai che tuo padre
disapprova».
La
bambina non rispose e si sedette su una sedia, un po’ troppo
grossa per la sua taglia, posta di fronte a una grossa scrivania
ordinata, su un lato una pila di quaderni, sull’altro un
calamaio e tre penne stavano ordinatamente disposti in attesa di venire
utilizzati.
«Vediamo
un po’, di cosa posso parlarti oggi?»
«Hina
vorr- Vorrei sentire qualche storia sulla rotta maggiore»
disse la bambina, correggendosi appena in tempo «Per
favore».
«Dovremmo
fare qualche esercizio di calligrafia e non ho ancora finito di
parlarti delle isole del mare orientale».
«Per
favore Jisho sensei, per favore» insistette Hina, e
l’uomo in parte si lasciò convincere
perché era davvero raro che quella bambina facesse richieste
così precise e con così tanta insistenza,
così si sistemò sulla larga poltrona di fronte a
lei e iniziò a raccontarle.
«La
rotta maggiore, non credere che aldilà della Reverse
Mountain il mondo sia tanto diverso, bambina, ci sono isole e ci sono
paesi, ma la gente è sempre la stessa. Ti ricordi
cos’è la Reverse Mountain, vero Hina?»
«È
una grossa montagna che si trova dove i quattro mari si incontrano e da
lì si può entrare nella rotta maggiore».
«Esatto,
quando sarai più grande ti spiegherò il concetto
di corrente e come funzionano quelle del nostro mondo, per ora basti
sapere che la Rotta Maggiore è una grande parte di mare che
attraversa il mondo in orizzontale».
L’uomo
prese una mappa e tracciò quattro lunghe linee parallele.
«Queste
ai lati sono le fasce di Bonaccia, prova a scriverlo, forza».
Hina
obbedì, mentre il suo precettore riprendeva a parlare.
«La
Rotta Maggiore si estende lungo tutta la superficie del globo ed
è disseminata di isole di dimensioni diverse. Si dice che su
alcune di queste isole esistano regni antichi come il mondo».
«Che
esistevano ancora prima della grande guerra?»
«Certo
che sì, bambina. Tuo padre stesso ne ha visitati alcuni, il
regno di Alabasta è antico almeno quattromila anni, ma se
tutte queste cose ti interessano potresti farti portare, quando sarai
più grande, sull’isola di Ohara».
«Cos’è?»
domandò perplessa Hina.
«Solamente
un’isola nel mare occidentale, abitata da studiosi e
scienziati. Lì sì che ti racconterebbero delle
belle storie!»
«Posso
sentire quella di Noland il bugiardo?»
«Pensavo
la sapessi a memoria» rise il vecchio, iniziando
però a raccontare.
Quel
giorno fu il primo di una lunga serie in cui Hina iniziò a
fare richieste strane quanto precise riguardo alle storie che voleva le
venissero raccontate. Ben presto lei e Smoker trovarono un equilibrio,
il ragazzino si intrufolava in casa verso le dieci, nascondendosi
nell’armadio, Hina cominciava la sua giornata di studio con
le lezioni pratiche: la scrittura, la calligrafia, i vocaboli, la
matematica. Poi passava a farsi raccontare la storia del mondo, delle
singole isole, si faceva leggere libri e raccontare leggende e Smoker,
seduto comodamente sulle coperte, ascoltava perdendosi con
l’immaginazione in posti che era sicuro non avrebbe mai
visitato.
La
loro strana routine andava avanti da quasi un mese quando, finalmente,
riuscirono a trovare un modo per far sgattaiolare Hina fuori di casa
nel pomeriggio. Ogni giorno, tra le quattro e le sei, la casa sembrava
svuotarsi; i genitori di Hina erano sempre fuori, il professore si
ritirava nelle sue stanze a riposarsi in attesa della cena, le
cameriere iniziavano a lavorare indaffarate ai preparativi per il
rientro dei padroni di casa. Così la bambina veniva lasciata
da sola a giocare nelle stanze vuote o a correre per il cortile;
qualcuno aveva fatto notare quanto fosse triste che una piccina di soli
sei anni fosse costretta a trascorrere in solitudine quasi tutta la sua
giornata, ma a lei non sembrava importare, inoltre con il suo sguardo
freddo – proprio come quello di sua madre – e
l’aria indifferente non invitava certo gli adulti ad
avvicinarsi.
Il
trucco per sparire era, avevano scoperto, avvisare sempre di dove si
trovava e a cosa avrebbe giocato; così la bambina diceva che
sarebbe scesa in cortile a giocare nel boschetto, si portava le
bambole, si portava una coperta e lasciava tutto all’ombra di
un grosso faggio. Se qualcuno veniva a cercarla un po’ prima
del solito e non riusciva a trovarla, Hina fingeva di essersi
addormentata dietro a un cespuglio o nel tempietto delle ninfe che suo
nonno aveva fatto costruire anni prima.
In
questo modo la mattina Smoker imparava cose che non avrebbe mai avuto
la possibilità di conoscere continuando a vivere nella
periferia, e nel pomeriggio Hina esplorava la città.
Havamama
era sempre felice di vederla e l’accoglieva ogni volta a
braccia aperte, se Smoker ne era geloso non lo dava a vedere e forse
non lo era per niente, anzi, fin troppo spesso Hina lo sorprendeva a
osservarla divertito mentre la bambina affondava
nell’abbraccio grassoccio della donna, mentre una voce calda
le diceva: «Proprio una piccola shayner shiksa questa bubala
diventerà, parola di Havamama, e Havamama non sbaglia
mai».
Le
fece i biscotti, le fece una torta, una volta preparò
persino una grossa terrina di quello che chiamò mousse al
cioccolato, nessuno dei bambini l’aveva mai assaggiata e
finirono con il farne indigestione.
Smoker
iniziò a portarla con sé nelle sue scorribande in
giro per la città, anche se spesso la bambina rimaneva
seduta a guardare mentre lui faceva a botte; non avrebbe mai saputo da
dove cominciare a tirare un pugno, inoltre sembrava doloroso e sarebbe
stata una vera seccatura se avesse dovuto spiegare a suo padre come mai
sul suo vestito c’era del sangue.
Fu
un giorno di luglio, caldo come pochi altri, che, finalmente, quella
che era stata soprannominata dagli altri bambini “La
principessina del porto”
si gettò nella mischia e ne uscì trionfante.
Smoker
era stato attirato in una rissa con l’ennesimo pretesto
stupido e lui, orgoglioso come sempre, ci era cascato con tutte le
scarpe. Aveva lasciato da parte la mazza chiodata e si era gettato a
pugni chiusi su due bambini più grandi di lui di due anni,
iniziando a riempirli di pugni; forse avrebbe anche potuto avere la
meglio se, proprio a metà della loro lotta, non fossero
sopraggiunti altri mocciosi a dar loro manforte. Hina non apprezzava
particolarmente quelle scene, trovava stupido picchiarsi per una cosa
simile – e quel giorno era bastato stuzzicare di nuovo Smoker
su sua madre – e finiva sempre con il rimanere in disparte
consapevole che gli altri ragazzini non l’avrebbero mai
toccata perché, anche se nessuno osava dirlo ad alta voce,
avevano tutti ben chiaro chi fosse suo padre.
Quel
giorno, però, proprio mentre Smoker veniva violentemente
buttato a terra e un pugno si infrangeva sul suo naso già
rotto, qualcuno disse qualcosa di troppo, qualcosa che suonava come:
«Tua madre è morta per colpa tua e ora
morirà anche Havamama! Ucciderai Havamama! Ucciderai
Havamama!»
La
cantilena assunse un tono canzonatorio, quasi profetico e Hina non ci
pensò nemmeno due volte a saltare in piedi, lisciarsi il
vestito, afferrare la mazza di Smoker e dirigersi silenziosamente verso
il gruppetto. La mazza pesava, un po’ troppo per una bambina
con un fisico minuto come il suo e la piccina si trovò a
trascinarsela dietro per un tratto, finché non fu abbastanza
vicina da sollevarla e rotearla sopra la sua testa, colpendo la schiena
di uno dei ragazzini e il braccio di un altro.
«Se
non la finite ve la lancio sulla faccia» disse senza cambiare
espressione, mentre i due bambini colpiti scoppiavano a piangere
cercando di toccarsi là dove i chiodi arrugginiti della
mazza erano penetrati della pelle e l’avevano strappata.
Il
più grande del gruppo sgranò gli occhi e
indietreggiò leggermente, più per la sorpresa di
quell’intervento inconsueto che per un reale spavento; tanto
bastò a Smoker per rimettersi in piedi, prendere gentilmente
la mazza dalle mani di Hina e brandirla minacciosamente.
«La
mia mamma dice che non si augura mai la morte a nessuno»
continuò la bambina tranquillamente «O i demoni
verranno a mangiarvi i piedi».
«I
demoni?» domandò un bambino perplesso.
«I
dybbuk» precisò Smoker avvicinandosi con la mazza
«Ma tanto vi ammazzo prima».
«Ferma,
ferma, ferma!» esclamò il più grande
dei ragazzini, tirando su il fratello da terra «Ce ne
andiamo! Ma voi due siete pazzi, pazzi!».
Smoker
sollevò le spalle in un moto di indifferenza e si
girò verso la compagna di scorribande.
«Grazie,
anche se ce la facevo pure da solo».
«Lo
so bene» borbottò lei pulendosi le mani nel
vestito e avvicinandosi «Ti sanguina il naso».
«Credo
sia di nuovo rotto».
«Klutz».
«Si
può sapere dove hai imparato certe parole?»
domandò suo padre con aria imbronciata.
«Hina
le ha sentite in giro».
«Smettila
subito, sai cosa ne penso della terza persona, sarà anche
popolare tra i bambini, ma non in questa casa, sono stato
chiaro?»
«Sì,
padre» borbottò la bambina, con un lampo di
irritazione che sfuggì all’uomo, ma non a sua
moglie che sollevò un sopracciglio con aria sorpresa.
«Ora
vuoi dirmi in giro dove?» continuò Hideaki
imperterrito.
«Le
persone lo dicono».
«No,
Hina, le persone non dicono Klutz,
sai almeno cosa vuol dire?»
«Credo
qualcuno che fa le cose e tipo cade, come Anna quando inciampa nei suoi
piedi».
«Beh,
ci sei andata vicina, cara» sorrise sua madre sistemandosi
una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Non
è quello il punto Natsuki! In chiesa non l’hai di
certo sentito, nessuno parla quel dialetto e l’ultima persona
che ho sentito parlare così era nel distretto Nord quindici
anni fa!»
«Il
mio amico lo dice spesso» si lamentò la bambina.
«Tu
non hai amici!» tuonò suo padre e per qualche
istante ogni rumore nella stanza cessò; Hina strinse i pugni
e i suoi occhi si piegarono in due fessure, la cameriera rimase con il
piatto di portata a mezz’aria e il maggiordomo
spalancò la bocca.
«Hideaki!»
Natsuki sibilò in direzione del marito lanciandogli
un’occhiata di fuoco.
«Non
è vero!» balbettò la bambina con gli
occhi lucidi.
«Natsuki,
per l’amor del cielo! Non può continuare a credere
che gli amici immaginari esistano davvero! Come pensi che
crescerà?»
«Meglio
di te sicuramente!» esclamò sua moglie alzandosi
di scatto a inseguire Hina che aveva lasciato la tavola ed era fuggita
dalla stanza.
«Che
seccatura» borbottò la donna uscendo dalla porta
principale, si accese una sigaretta e cercò di capire dove
fosse andata a cacciarsi sua figlia. La trovò nel boschetto
dietro al tempietto delle ninfe, intenta a lanciare giocattoli contro
il muro.
Come
la vide arrivare la bambina si asciugò le lacrime con foga,
voltandosi a darle le spalle, i piccoli pugni chiusi tremavano
leggermente.
«Smoker
è reale» mormorò piano.
Sua
madre le si avvicinò e si lasciò cadere a sedere
ai suoi piedi, facendole con la mano gesto di sedersi accanto a lei.
«Ti
credo, sai» disse espirando il fumo della sigaretta
«Me ne vuoi parlare?»
«Mi
credi davvero?» domandò Hina tirando su col naso
«Non sei seccata?»
«Tesoro
io sono sempre seccata, un giorno capirai meglio, ma per ora non farci
troppo caso. E certo che ti credo, sei mia figlia».
«Grazie
madre».
«Grazie
Madre».
«Perché
continui a chiamarla così? Sai che lo detesta?»
«Stai
zitta, Natsuki. Il rispetto va mostrato in ogni occasione».
«Ma
lei lo detesta, è freddo, è distante, come se
mettessi una barriera tra te e i sentimenti che potresti provare per
lei».
«Quali
sentimenti dovrei provare? Le dimostro il mio rispetto ogni giorno, non
è abbastanza?»
«Sei
così pieno di te che nemmeno ti accorgi di ferire la mamma,
Sakazuki».
«Non
è un problema mio, Natsuki».
«Preferirei
che non usassi “madre”»
borbottò la donna gettando il mozzicone di sigaretta nel
laghetto di fronte a lei.
«Mama?»
«Molto
meglio, e non dire a tuo padre che sono io che getto i mozziconi in
giro o chi lo sente».
«Lui
non vuole che lo chiami papà, però».
«Lui
non vuole un sacco di cose, zucchero» disse la donna
passandole un braccio attorno alle spalle «Allora, mi parli
di questo Smoker?»
Quando
Hina si addormentò, si ritrovò a pensare
all’abbraccio caldo di sua madre, così raro e
così diverso da quello quasi fagocitante di Havamama. Le
braccia di Natsuki erano più gentili e le sue mani non
avevano calli, né erano segnate dal tempo, era una
sensazione strana, come se sua madre le avesse lasciato intravedere una
piccola parte di sé, qualcosa che non aveva mai visto prima.
Non che all’epoca fosse abbastanza grande per capire davvero.
«Se
ti pesco a dire un’altra volta una cosa del genere a nostra
figlia giuro su Dio che ti mollo» sibilò quella
sera Natsuki entrando nel letto.
«Non
capisci, è tempo che cresca» le rispose suo
marito, ancora seduto alla scrivania.
«No,
Hideaki, sei tu che non capisci. L’uomo che ho sposato non
assomigliava a mio fratello».
Nessuno
riuscì a dormire quella notte.
Quando,
il mattino dopo, Smoker fece il suo ingresso nella villa, Hina aveva
gli occhi rossi e gonfi, ma si rifiutò di dirgli cosa avesse
fino a pomeriggio inoltrato.
«Scappiamo,
se vuoi» le propose mentre assieme osservavano le
imbarcazioni che si allontanavano dal porto, le gambe penzolanti oltre
il molo.
«No,
credo che la mamma ne soffrirebbe. Una volta gliel’ho chiesto
e ha detto che starebbe male, come starei io se scappasse
Bianca».
«Ma
Bianca vive in una gabbia» protestò debolmente
Smoker.
«Che
cosa vuol dire, lei è felice con me».
«E
tu sei felice?» domandò il bambino
«Perché Havamama dice sempre che la villa sulla
collina è una grossa gabbia e tu sei come un
uccellino».
«Ma
quella è casa mia» gli fece notare Hina con
ovvietà.
«Però
non puoi uscire e i tuoi genitori non ti guardano nemmeno».
Hina
scattò in piedi, oltraggiata.
«Non
è vero, Mama sarebbe triste se andassi via, mi vuole
bene».
«Lo
dici, ma sai che non è vero» borbottò
Smoker, accorgendosi solo vagamente di stare oltrepassando il limite
«Non si accorgono nemmeno che esci di pomeriggio, e tuo padre
ti tratta sempre malissimo!»
«Stupido
schmeckle!»
La
vide allontanarsi correndo e si domandò se non avesse
esagerato.
Fu
Chaser, con un uggiolio di protesta, a incoraggiarlo a seguirla; Smoker
si ritrovò a correrle dietro per le strade del porto e poi
lungo i vicoli sporchi della città, fino a vederla entrare
nella villa attraverso il buco nel muro che avevano scoperto mesi
prima. La seguì senza farsi problemi e attraversò
silenziosamente il giardino, senza notare gli occhi indagatori che lo
scrutavano dalla finestra del primo piano.
Si
intrufolò in casa e, dopo essersi guardato attorno con aria
circospetta, salì fino in camera di Hina, dove
trovò la porta chiusa.
«Aprimi»
mormorò bussando appena «Dai! Scusami!»
La
bambina non se lo fece ripetere due volte, tanto poteva essere
impulsiva a volte, quanto riusciva perfettamente a ragionare
razionalmente delle altre.
«Cosa
ci fai qui?» sibilò facendolo entrare di fretta.
«Mi
dispiace» borbottò Smoker «Non lo
pensavo davvero».
«Sei
uno schmeckle!» ribadì Hina sorridendo appena,
segretamente contenta che l’avesse seguita fino a
lì solo per scusarsi «Se ti trovano passerai dei
guai».
Non
aveva nemmeno finito di dirlo che la voce di sua madre invase il
corridoio.
«Hina
stai parlando da sola?»
«Di
là, di là!» sibilò la
bambina indicando la porta comunicante che dava sulla stanza della
voliera «No, mamma, lo so che certe cose le bambine di buona
famiglia non le fanno».
I
capelli rosa di Natsuki fecero capolino dalla porta e la donna
osservò con aria indagatrice sua figlia, squadrandola
dall’alto in basso, quindi oltrepassò
l’uscio e fissò la stanza vuota.
«Mi
era sembrato di sentire qualcosa».
Hina
abbassò lo sguardo e scosse debolmente la testa, di parlare
non aveva forza, era stata abituata a dire sempre la verità
e mentire ora le sembrava un affronto troppo grande.
Natsuki
sospirò, borbottando tra sé un ennesimo
«Che seccatura» e si avvicinò alla
figlia, appoggiandole una mano sul capo.
«Sei
proprio sicura che non ci sia niente che mi vuoi dire?»
domandò ancora.
«Hina
ha paura» mormorò piano la bambina.
«Di
cosa?» la donna aggrottò le sopracciglia e si
piegò fino a raggiungere l’altezza della figlia.
«Di
non potere mai più uscire di casa».
Natsuki
si morse il labbro inferiore e le prese la mano, trascinandola con
delicatezza verso la stanza della voliera; Hina trattenne un moto di
panico, ma la seguì, rassegnata al peggio.
E
il peggio arrivò davvero, ma non da sua madre.
Erano
appena entrate nella stanza dall’ingresso comunicante e sua
madre stava sorridendo sorniona, osservando il bambino seduto di fianco
alla voliera che la fissava con aria belligerante, quando la porta che
dava sul corridoio si spalancò con uno scatto e Hideaki
Okabe entrò come una furia nella stanza puntando il dito
contro Smoker e iniziando a urlare.
«Tu!»
esordì rabbioso «Cosa ci fai in casa
mia!?»
Il
bambino non rispose, leggermente interdetto e stupito da tutta
quell’aggressività.
«Tesoro»
ironizzò sua moglie fissandolo di sbieco, senza lasciare la
mano della figlia «Così spaventi il nostro
ospite».
«Ospite?
Sai cosa mi hanno detto giù al porto? Che questo piccolo
delinquente ha trovato un modo di girare con nostra figlia! E non so
come tu abbia fatto a uscire di qui, signorina, ma ti posso assicurare
che non capiterà mai più! Quanto a te…
farò in modo che tu venga spedito il più lontano
possibile».
«No!»
Hina cacciò un urletto e corse ad afferrare la mano del suo
migliore, nonché unico amico, lanciando uno sguardo
disperato a sua madre e uno carico di lacrime a suo padre
«Sarò buona, ma non mandarlo via».
«Tu
sei in grossi guai, signorina, ora lascialo andare! O uscirai di qui
solamente compiuti i vent’anni!»
Natsuki
roteò gli occhi verso l’alto avvicinandosi al muro
e accendendosi una sigaretta.
«Hina,
che cosa vuoi fare?» domandò con aria severa.
«Lui
è mio amico» mormorò la bambina.
«Oh,
sei Smoker?» chiese la donna rivolgendosi al bambino
«Il ragazzino a cui mia figlia sta insegnando a leggere?
Puzzi».
«Hina
sta facendo cosa? Adesso basta, finitela tutti, Hina lascialo
andare!»
«Non
ha sentito che ha detto di no?» intervenne finalmente Smoker
«Havamama ha proprio ragione, lei è un pisher
putz!»
Hina
di fianco a lui gli mollò uno scappellotto fissandolo con
aria di disapprovazione, mentre suo padre perdeva definitivamente le
staffe dando in escandescenze.
«Hai
sentito come mi ha chiamato?» sibilò rivolto alla
moglie che però si limitò ad alzare le spalle.
«Mi
dispiace, tesoro, sai che non parlo l’ashknaz».
«Sei
pazza?» aveva intanto domandato il bambino
all’amica «Non sai nemmeno cosa gli ho
detto».
«Sono
abbastanza sicura che fosse una cosa brutta» aveva risposto
Hina strappando un sorriso a sua madre.
«Ora
basta. Sono stufo. Hina, vieni qui!»
«No»
ebbe la forza di protestare la bambina.
«Vieni.
Qui» sillabò suo padre, rosso in faccia come non
lo aveva mai visto.
Lo
sguardo di Smoker era duro e implacabile; aveva solo otto anni, ma la
rabbia e il disprezzo riuscirono a trasparire lo stesso, investendo
l’uomo in una corrente d’odio e risentimento, quel
risentimento che Hina non aveva mai avuto il coraggio di esprimere, o
che forse era stata educata a tenersi dentro.
«Ha
detto di no» disse con voce ferma, tenendo stretta la mano
dell’amica che a quel contatto sembrò farsi
coraggio e sollevò lo sguardo su sua madre.
«Per
favore» mormorò con voce pacata.
La
donna sospirò, sollevò gli occhi al cielo e si
passò una mano tra i capelli.
«Che
seccatura» borbottò quindi «Ma se questo
è quello che vuoi, immagino che non ci sia
alternativa».
Quindi,
sotto lo sguardo allibito del marito e quello quasi entusiasta di sua
figlia, percorse la stanza a grandi falcate e spalancò le
finestre, quindi si girò vero la voliera e
sollevò, senza tante cerimonie, il tettuccio di ferro,
lasciando uscire tutti gli uccelli.
Mano
a mano che i colombi, le cocorite, i canarini scomparivano oltre la
finestra aperta, Hina sentiva il cuore farsi più leggero;
solo Bianca rimase ferma sul davanzale, a fissare nella sua direzione,
per poi sollevarsi e andare a posarsi sulla sua spalla.
«Ora»
disse sua madre «Rendimi orgogliosa».
«Natsuki
sei impazzita?!» Hideaki alzò la voce, osservando
con aria sconvolta e irritata la moglie.
«Stai
zitto» gli intimò la donna, quindi rivolgendosi a
Smoker: «Per quanto riguarda te, signorino, imparerai a
leggere, a scrivere, e soprattutto imparerai che il sapone non
è tuo nemico. Sono stata chiara?»
Il
bambino fece una smorfia di disgusto, più disgustato
all’idea di doversi lavare che a quella di imparare, ma al
suo fianco Hina sembrava davvero felice, così
sospirò mestamente e annuì piano.
«Sissignora».
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