Tangle.
Becky lasciò
che i lunghi capelli biondi le ricadessero sulle spalle, pesanti. Si
passò una
mano fra le ciocche rovinate, dicendosi che forse avrebbero potuto
sopravvivere
un altro anno senza essere tagliate. O forse no.
Sbuffò,
nervosa come al solito, mentre aspettava che il suo ospite arrivasse in
casa.
L’ansia sembrava ormai costituire la fetta più
grossa della sua esistenza:
l’ansia per i compiti, l’ansia per
l’arrivo di qualcuno, l’ansia di parlare in
pubblico, l’ansia prima di una festa, l’ansia per i
regali di Natale, persino
l’ansia di non avere abbastanza ansia. E quello era solo uno
dei tanti giorni
in cui l’ansia si faceva sentire: ed ecco, allora, che le
doppie punte
sembravano peggiori del solito, che quel brufolo tra le sopracciglia
non voleva
saperne di somigliare un po’ meno a un vulcano, che tutte le
felpe migliori
erano improvvisamente ricoperte da anestetici pallini; ecco che
iniziava a
gesticolare e a rimettere, freneticamente, tutto quanto in ordine. Ed
era tutta
colpa di quello stramaledettissimo aiuto per chimica. Oh, ed era anche
colpa
della sua dannatissima boccaccia, perché avrebbe potuto
benissimo concordare un
appuntamento in biblioteca o al parco. No, effettivamente al parco
faceva
troppo freddo, a febbraio. In ogni caso, non avrebbe dovuto
assolutamente
permettere che qualcuno – un ragazzo! – ficcasse
il naso in casa propria.
Eppure ormai
il guaio era fatto e continuava a darsi mentalmente della stupida,
perché
camera sua non era così in ordine, e chissà
cos’avrebbe pensato lui.
Il cuore le
balzò letteralmente in gola quando qualcuno suonò
al campanello.
Quando Luke
Hemmings si ritrovò di fronte alla porta che, secondo Google
Maps, apparteneva
a Becky Ross, era già pronto a scappare a gambe levate. Il
timore di aver
sbagliato indirizzo era troppo grande, per non parlare della paura
profonda per
cosa sarebbe successo quel pomeriggio. E, del resto, come dargli torto?
Luke aveva
paura, innanzitutto, di annoiarsi a morte: più che
giustificato, si trattava
pur sempre di un pomeriggio di “aiuto per chimica”,
così l’aveva definito lui
quando, quasi disperato, aveva chiesto alla compagna di classe un
miracolo.
In secondo
luogo, aveva paura di cosa sarebbe successo dopo. Non era mica detto
che un
pomeriggio passato con la
“ragazza-geniale-prendo-nove-ma-vado-in-ansia-comunque”
sarebbe servito a fargli carpire i segreti di quell’inutile
materia. E se non avesse carpito i segreti di
quell’inutile materia, be’, avrebbe preso
un’altra insufficienza. E un’altra
insufficienza equivaleva al linciaggio da parte dei suoi genitori, cosa
di cui
non aveva assolutamente voglia. Fu per colpa
dell’onnipresente minaccia dei suoi
genitori che si convinse mentalmente a farlo, ad entrare in quella
casa, a
costo di trovarsi davanti una vecchia bavosa perché quello
era l’indirizzo
sbagliato. Passò distrattamente la lingua
sull’anellino che portava al labbro
inferiore e suonò il campanello.
Eleanor si
osservava allo specchio, preda delle “solite
paranoie”, così le aveva definite
il signor Rollins quando si erano visti l’ultima volta.
Mentre con un dito
prendeva a torturare il braccialetto comprato all’ultimo
concerto degli Arctic
Monkeys, pagato un occhio della testa – dei suoi genitori
–, si domandò
intimamente se fosse il caso di andare davvero in quella piazza, quel
pomeriggio, solo per sentirlo suonare.
Eccola lì,
di
nuovo, lei e i costanti dubbi: voleva davvero prendere la scelta giusta
ma,
qualunque possibilità analizzasse, era sempre alto il tasso
di fallimento. E
lei non voleva fallire, non poteva fallire.
Allora, se
aveva così tanta paura di fallire, perché
continuava a tornare in quella piazza
ogni pomeriggio dopo pranzo, senza nemmeno la certezza di trovarlo
lì? Non
poteva, si diceva, passare ore in piedi, nascosta tra un mucchietto di
gente,
non quando faceva troppo freddo, non quando faceva troppo caldo, e con
l’unico
scopo di vedere quel ragazzo suonare magia sulle corde di un basso
elettrico.
Non sapeva nemmeno il suo nome. Non aveva la più pallida
idea di quanti anni
avesse, di che scuola frequentasse, da dove venisse. L’unica
cosa di cui era
certa era che non si esibiva senza la maglia di una band, che il giorno
prima
aveva suonato Paranoid dei Black Sabbath e che aveva una voce
magnificamente
carezzevole.
Ma non era
abbastanza. Non sapeva se quel pomeriggio sarebbe stato lì
come sempre, non
sapeva se fosse consigliabile tornare lì, e lei aveva
bisogno di una certezza,
della sicurezza che quelli non fossero pomeriggi sprecati. Di certezze
non ne
aveva, eppure i suoi piedi la stavano conducendo automaticamente nel
solito
posto.
Calum Hood era
lì anche quel giorno, seduto sullo sgabellino che si era
portato da casa, la
maglia portafortuna dei Nirvana nascosta sotto il maglione grigio.
Stava
preparando, come tutti i giorni da qualche mese a quella parte, tutto
il
necessario per almeno due ore di pura musica, di note che si infilavano
nei
vicoli più stretti per raggiungere il cuore della gente
attraverso le orecchie.
O almeno,
sperava che fosse una cosa così poetica, perché
lui non vedeva che magia nella
potenza della musica. Anche se in realtà la proprietaria del
bar dell’angolo si
era lamentata un paio di volte per “tutto quel
baccano” e, in tutto quello, lui
aveva sempre il terrore che i suoi genitori potessero passare per le
vie del
centro e vedere il figlio impegnato in tutt’altro che lo
“studio in
biblioteca”. A sua discolpa, Calum poteva dire che visitava
la biblioteca ogni
giorno, dopo aver suonato. Anche se, a dirla tutta, era per spulciare i
nuovi
CD nella fonoteca del piano superiore.
Mentre
prendeva in mano il basso ormai un po’ vecchiotto e
scarabocchiato, notò che
qualche curioso iniziava a guardarlo, forse chiedendosi quale fosse la
sua
strategia per guadagnare. E Calum doveva ammetterlo, non gli dispiaceva
quando
gli lasciavano delle monete nella custodia del basso, era piuttosto
gratificante, sebbene non avesse più problemi economici di
qualunque altra
famiglia media. Doveva ammettere anche che stava aspettando la
ragazzina coi
capelli mezzi verdi e mezzi neri, che non mancava mai alle sue piccole
performance. Non che lui si ricordasse di chiunque si fermasse a
guardarlo, in
realtà scappava subito dopo aver finito di suonare, ma la
ragazzina era lì
tutti i giorni, sempre, ad ascoltare in silenzio e cantare in un
sussurro le
canzoni che conosceva.
Sperava tanto
che venisse, di certezze non ne aveva, eppure cercava tra la folla una
ragazzina sconosciuta che anche quel giorno non si sarebbe fatta
attendere.
Roxy aveva
messo da parte, per una sera, il rossetto scuro e lo smokey eye per
ritornare,
solo per una sera,
quella ragazza tremolante e un po’ insicura che era stata
prima di conoscerlo e di conoscere se stessa. “Domani sono
tre anni da quando ci siamo incontrati ed io non ci posso essere, ma ti
giuro che ci vedremo presto”.
Queste le parole che le aveva sussurrato su Skype il giorno prima il
suo
migliore amico, e a lei mancava terribilmente. Si ritrovava, un
po’
egoisticamente forse, a pensare che quel viaggio a Bali non avesse
fatto altro
che allontanarli ulteriormente, e lei non avrebbe potuto odiare di
più tutto
quello.
Un mese non
era poi molto, si era detta quando lui era partito “per
ritrovare se stesso”,
così aveva detto, lui e le sue cazzate spirituali. Un mese
di scuola era
perfettamente recuperabile, non che gli importasse poi molto, ma a lei
importava eccome.
E se n’era
andato a Bali con quella scusa, genitori consenzienti e tutto, in mezzo
a tutti
i casini che c’erano tra loro, in mezzo a quel brutto litigio
perché lei si
sentiva sola e lui non si sentiva abbastanza ed entrambi continuavano a
litigare da soli, mai apertamente, per paura di rovinare quel rapporto
che,
Roxy aveva paura, si era già sgretolato tempo prima. Lei
sapeva di essere
insopportabile quando gli rispondeva scazzata ma senza voler litigare,
e lo
odiava quando lui era sempre nervoso, ma senza voler litigare, e
finivano
entrambi per farsi solo del male.
Era stanca di farsi del male, stesa sul letto
quella sera, con un libro che non stava davvero leggendo tra le mani.
Almeno
finché
suo padre non le urlò, dal piano inferiore, di scendere.
Ashton Irwin
aveva fatto troppi chilometri per tirarsi indietro proprio ora. Non che
avrebbe
potuto, anche volendolo, visto che aveva prenotato il biglietto di
ritorno e il
taxi proprio per quel giorno. Comunque stava avendo un sacco di
ripensamenti, e
non solo perché aveva capito di aver fatto troppe cazzate.
Era sempre
stato intimamente convinto che i ragazzi non si affezionassero davvero
alle
ragazze e che anche quelle facessero fatica ad affezionarsi davvero ai
ragazzi. Almeno,
fino a quando non aveva capito cosa implicasse
l’affezionarsi. A dire il vero
non ci sarebbe mai arrivato se non avesse cercato su Google
“buco nello
stomaco, nervosismo perenne, egocentrismo” e non avesse
ricevuto in risposta ai
sintomi digitati, oltre a una serie di malattie terminali,
“l’amore, la malattia
peggiore di tutte”. Ashton era però sicuro che si
sarebbe accorto di un suo
eventuale innamoramento, sapeva di non essere innamorato, quindi
tradusse liberamente "amore" con "affetto". E così aveva
capito di voler bene a Roxy Armstrong, e che era per
questo che, attorno a lei, si sentiva sempre da Dio. Ed era per questo
che,
quando lei parlava di qualcun altro, lui diventava improvvisamente
acido e
permaloso. Ed era per questo che, quando lei gli aveva confessato di
sentirsi
la persona più sola del mondo, lui si era incazzato da
morire, perché com’era
possibile che non vedesse che lui ci stava mettendo l’anima
per far funzionare
quell’amicizia?
Era dopo
troppi ripensamenti, qualche rimpianto e tante parole, che si trovava
sul
pianerottolo di casa Armstrong, con una lettera che non aveva mai
davvero
riletto fra le mani e troppi pensieri per la testa.
Ellen non
riusciva a smetterla di ridere, dietro le quinte, perché era
dannatamente
nervosa, e lei non era mai
nervosa.
Sostanzialmente, cercava sempre di non farsi tangere da alcun
sentimento
negativo, per essere positiva e propositiva nei confronti di tutti, e
anche
quella sera appariva come la solita Ellen, così solare, col
sorriso cucito
addosso. Ma il cuore le tremava forte nel petto, e non capiva cosa
fosse. Non
era la sua prima esibizione di fronte a un pubblico. Certo, era la sua
prima
esibizione con
lui davanti
a un
pubblico, ma quello non c’entrava assolutamente niente. Si
erano preparati per
mesi, aveva ripetuto il copione almeno tre volte, la sera prima, aveva
fatto
colazione e aveva dormito persino sei ore, quella notte. Un record per
una
riccia abituata alle quattro ore di sonno fisse e a
quell’intruglio
dell’omeopata che ogni tanto faceva persino effetto.
Sbuffò, per poi
ridacchiare di nuovo, stavolta da sola, perché i suoi
compagni erano corsi in
camerino. Tutti, tranne quelli a cui toccava aprire lo spettacolo.
La ragazza
finì per attribuire il proprio nervosismo al fatto che, per
quella sera, si era
dovuta liberare dai propri vestiti neri, in particolare dai jeans
stinti pieni
di strappi, che erano i suoi preferiti, nonché i suoi
portafortuna. Le avevano detto
che il rosso le donava, gli altri, ma lei proprio non riusciva a
vedersi senza
il nero.
Alzò lo
sguardo verso di lui, dall’altra parte del corridoio, che le
faceva un pollice
in su proprio mentre le luci si abbassavano. Lo sapeva che quella
storia andava
avanti da troppo tempo, ma non era il momento di pensarci,
perché l’adrenalina
stava salendo, e non c’era modo di fermarla.
Michael scosse
i capelli rossi nel suo solito tic, mentre una compagna del corso di
teatro
correva in camerino per farsi riallacciare la cuffietta da nonna che
indossava.
Ridacchiò, perché era proprio una delle ragazze
più belle della compagnia a dover interpretare la vecchia
bacucca nello spettacolo di quella sera, ed era esilarante.
Lui invece se ne
stava lì, appoggiato mollemente al muro col piede sinistro,
l’aria tranquilla,
mentre mentalmente ripassava ogni battuta e aveva un momento di panico
a ogni vergola sbagliata. Si faceva le ultime annotazioni, si diceva
“questa battuta
devi farla più veloce”, ed era come se nel suo
cervello ci fosse un blocco per
gli appunti che aspettava solo di essere riempito dai suoi pensieri. Si
sentiva proprio come quando scriveva canzoni e anzi, fra una battuta e
l’altra, aveva
anche terminato il testo di Good
Girls, che Ellen Fox gli aveva ispirato tempo
fa.
Si morse il
labbro già sufficientemente arrossato nel guardare la
ragazza che rideva, in
piedi al limite tra il sipario e il dietro le quinte. Un sorriso si
formò
istantaneamente sul suo viso, come su quello di qualunque persona le
ronzasse attorno, e come biasimarli? Si trattava pur sempre di una
ragazzetta vestita di rosso che si soffocava nelle proprie risate.
Michael Clifford sapeva come sarebbe
finita quella serata, lo sapevano entrambi, ma quello non era il
momento di
pensarci. Anche se non riusciva proprio a non pensarci, persino nel
momento in
cui le luci si spensero e lei si girò inevitabilmente verso
di lui.
***
Luke aveva
troppa voglia di mettersi a ridere, ma era sicuro che così
avrebbe urtato i
nervi della compagna, per questo non lo fece.
- Però non
ti
fa ridere? - le domandò, curioso, mentre si metteva in bocca
un paio di
biscotti tutti insieme, facendone cadere le briciole sul tappeto.
Quel tappeto avrebbe
causato alla ragazza un
crollo nervoso. -
Cosa fa ridere? - chiese Becky, passandosi una mano sulla
fronte perché, diamine, quel ragazzo e la chimica erano due
poli positivi. O
negativi. Sì, decisamente negativi.
Il sorriso di
Luke si allargò. Non ce l’avrebbe fatta a
trattenersi dal ridere molto a lungo.
- Sono almeno due ore che stiamo studiando chimica. Voglio dire, io e te. E stiamo studiando chimica. E la cosa esilarante
è che
penso di aver appena capito come si risolve il problema.
Becky si
alzò
dalla sedia di scatto, lo guardò fisso negli occhi azzurri e
si risedette
altrettanto di scatto. Si portò le mani tra i capelli e
sospirò, tutto molto
meccanicamente, tutto sotto lo sguardo sconcertato del ragazzo. -
Risolvilo. -
ordinò. - Adesso.
- Hai una
calcolatrice?
E senza
proferire parola, la ragazza gliela sbatté sul libro. Era
abbastanza evidente
che fosse sull’orlo del tracollo. O delle imprecazioni. E
bisogna puntualizzare
che Becky era davvero poco volgare, generalmente. Ma due ore di studio,
di chimica
per giunta, con un Luke Hemmings che non vuole saperne di tenere il
didietro a
posto sulla sedia e che non riesce a smettere di mangiare, avrebbero
provato
emotivamente chiunque, santi e martiri compresi.
Luke chiuse
gli occhi dopo aver pigiato l’uguale sulla calcolatrice,
sperando con tutto se
stesso che il risultato fosse… - Quarantadue virgola
ventitré. Becky, guarda, quarantadue virgola
ventitré,
in questo
momento potrei sposarti! - urlò, e la ragazza si
domandò cosa mai stessero
pensando i vicini, mentre non poteva fare a meno di sorridere.
Alzò la
mano
per battergli il cinque, ma in due secondi lui le fu addosso, con i
suoi due
metri e mezzo di gambe, per schioccarle un bacio sulla guancia e
sventolare il
pacco di biscotti come un trofeo. - Ce l’ho fatta, ce
l’ho fatta e i miei
genitori non mi spediranno in Burundi a vendere infradito!
In quel momento,
guardando quella gioia sincera, Becky si sentì come se un
pezzo di ghiaccio si
fosse improvvisamente sciolto da sopra il suo petto e capì,
finalmente, il vero
significato di “lasciati andare”, quelle due parole
che tanto spesso le
ripetevano. Rise, una risatina forse un po’ isterica ma tanto
lui non ci fece
caso, impegnato com’era a festeggiare e a ripeterle
“Ci dobbiamo vedere anche
prima del prossimo compito, e quello dopo, e anche quello dopo ancora
se a te
va bene”.
E lei,
stranamente, non vedeva l’ora che arrivasse il prossimo
compito di chimica. Non
ci provò nemmeno a chiedergli se volesse fare altri
esercizi, erano entrambi
troppo fusi, e poi per una volta non le importava affatto.
Si sentiva
spensierata anche mentre lo accompagnava alla porta e lo salutava con
un “Ci
vediamo domani” e un altro bacio sulla guancia che, forse, le
fece un po’
battere il cuore, aperto a qualcosa di finalmente diverso
dall’ansia. E andava
bene così.
Calum stava
già sorridendo quando vide, con la coda
nell’occhio, che la ragazza dai capelli
mezzi verdi gli si stava avvicinando. A dire la verità stava
combattendo tra la
voglia di fare conversazione e quella di scappare a gambe levate,
perché semplicemente
non era da
lui fare
conversazione. Oh,
e perché c’erano sempre i suoi genitori in
agguato, ovviamente.
Tuttavia non
fece nemmeno in tempo a scegliere una delle due opzioni,
perché lei era già lì,
a guardarlo accovacciato alle prese col suo basso.
- Secondo me
Drown ti si addice. Sta bene con la tua voce. - cominciò
Eleanor, e sarebbe
apparsa come una ragazza sicura di se stessa se non fosse diventata
rossa un
secondo dopo. Non poteva fare a meno di domandarsi cosa stesse facendo
e la
paura di essere malgiudicata iniziò a farsi spazio nel suo
stomaco.
Contrariamente
a quanto si aspettasse, però, il bassista si girò
verso di lei e si alzò in piedi,
arrivando alla sua altezza. O forse leggermente più in alto.
- Ti ringrazio. -
le regalò un sorriso smagliante, al punto che lei
indietreggiò un pochino.
Eleanor non
fece in tempo a trovare qualcosa di intelligente da dire,
perché la loro
imbarazzante conversazione fu interrotta da una signora con dei
sacchetti della
spesa in mano. - Calum! E tu cosa ci fai qui in questo momento? Pensavo
fossi
andato a studiare in biblioteca come al solito.
E in quel
momento, il ragazzo non sapeva quale fosse la voglia predominante:
quella di
urlare, quella di imprecare, quella di fingere di essere
un’altra persona o quella
di adottare la tecnica del “Ti presento la mia
ragazza!”. Ma in effetti nessuna
di quelle era particolarmente attuabile, soprattutto se si considera
che lui
sembrava parecchio in difficoltà, perso tra una ragazza
timida e ancora
senza nome e una madre dal cipiglio severo. Doveva trovare una via di
scampo. -
Mamma, lei è la ragazza con cui studio matematica il
giovedì. Siamo appena
usciti dalla biblioteca, la stavo accompagnando a casa come ogni
settimana. -
finse con maestria che la custodia del basso poggiata per terra e lo
sgabellino
non esistessero e, del resto, sua madre non fece domande.
La donna
squadrò la ragazzina con aria apparentemente soddisfatta. -
Oh, e come si
chiama?
Eleanor non
fece in tempo a rispondere, perché Calum aveva
già visto il braccialetto degli
Arctic Monkeys della ragazza e si era affrettato a sparare il primo
nome che
gli era venuto in mente. - Arabella.
- Molto bene,
Arabella, Calum. - la donna si sistemò lo chignon con la
mano libera,
ricominciando a camminare. - Vi saluto, ci vediamo dopo a casa tesoro!
Il ragazzo
poté giurare di non essere mai stato così in
ansia in vita sua, mai. E in
effetti, non era il tipo che andava in ansia molto facilmente, se non
in
presenza dei suoi genitori, davanti ai quali era necessaria la commedia
del
figlio perfetto. - Grazie per non aver detto niente di fronte a mia
madre. -
sorrise nuovamente, il ragazzo, prima di mettersi la custodia in
spalla. -
Credo sia meglio che io vada, per oggi ho avuto abbastanza emozioni
forti. Ti rivedrò
domani?
Lei si era
già
girata per andare via, confusa dalla velocità con cui erano
successe le cose,
ma accennò un sorrisetto, senza rispondergli. - Sono
Eleanor, comunque.
Lui la
guardò
andare via, ed entrambi avevano, per la prima volta, una certezza. Si
sarebbero
rivisti il giorno dopo. E forse anche quello dopo ancora.
Entrambi avevano
perso un battito, guardandosi negli occhi. E andava bene
così.
Roxy iniziava
a pentirsi di aver lasciato il ragazzo entrare in camera sua,
perché ora erano
entrambi in piedi, lei che leggeva per la seconda volta quelle parole
– e un
pochino si preoccupava, perché senza lo smokey eye e il
rossetto scuro non si
sentiva a suo agio – e lui che semplicemente la guardava,
l’espressione seria e
la pelle un po’ più abbronzata. Quando ebbe finito
di analizzare con occhio
critico ogni parola, ogni segno di punteggiatura, ogni carattere
affilato tracciato
velocemente, fece l’inaspettato.
Scoppiò in
una
risata. Una risata che forse, in fondo, aveva qualcosa di amaro. E allo
sguardo
confuso e, probabilmente, anche un po’ disperato che lui le
rivolse, rispose
dopo aver appoggiato la lettera sulla scrivania. - Io non ho pensato agli altri
dicendoti di sentirmi così tanto sola
e tu ti senti egocentrico?
E Ashton, che
non aveva ancora proferito parola con la ragazza, si mise a ridere a
sua volta,
al suo posto, con la paura che avvicinarsi a lei avrebbe destabilizzato
quella
sorta di equilibrio che si era venuto a creare.
Lei scosse la
testa, facendo dondolare un piccolo boccolo che si era ribellato alla
piastra
del giorno prima, e cercò di non deglutire troppo
rumorosamente, perché Ashton
le era mancato da morire e perché sentiva già un
groppo formarsi nella gola. -
Un mese a Bali e sei più rincoglionito del solito.
E lui lo
sapeva, Ashton lo sapeva che quello era il via libera. Così,
la raggiunse in un
solo passo per poi fermarsi di nuovo, mentre lei stava solo aspettando
un
abbraccio che non arrivò. - Nel mio viaggio spirituale mi
sono reso conto che sono
tre cazzo di anni che ti sopporto, e che voglio continuare a farlo
anche se sei
una psicopatica egocentrica che in questo momento vorrebbe uccidermi. -
e fu
solo allora che la strinse forte a sé, lasciando che il
cappello cadesse chissà
dove, e la poteva sentire, sapeva che aveva una voglia matta di
prenderlo a
ceffoni per quello che aveva appena detto, perché
“Sono l’unica a potermi
insultare, tu non hai voce in capitolo”, ma non gli poteva
importare di meno. Aveva finalmente capito cosa voleva davvero e sapeva
che nessuno avrebbe potuto
portarglielo via.
In effetti
sì,
Roxy non vedeva l’ora di togliergli quel bel sorrisetto dalla
faccia con una
delle sue scenate, ma in quel momento era troppo felice per poter
escogitare
qualcosa di diabolico. Fu per questo che si limitò a una
pacca sulla nuca. - Irwin,
al tuo prossimo viaggio spirituale ti stacco le palle. - e quella era
la loro
normalità, quelli erano loro, era per questo che Roxy si
sentiva così piena. Perché era
proprio come bere l’ultimo
sorso d’acqua, come terminare una saga tanto amata, come
tornare dal viaggio
più bello del mondo. Era dolceamaro, una vittoria col sapore
di un rimpianto:
in quel caso, il rimpianto di aver momentaneamente perso la cosa
più preziosa
che avesse per colpa sua, perché non si era accorta
dell'unica persona che non se n'era mai andata. Roxy
si ritrovò a pensare, ancora stretta fra le sue braccia, che
Ashton era davvero
come tornare dal viaggio più bello del mondo,
perché Ashton era la sua casa.
- Comunque la
prossima volta ti porto con me a Bali. Guarda come sei pallida!
Stavolta il
pugno arrivò davvero al ragazzo, sul bicipite, piuttosto
forte, in effetti. E andava
bene così.
Ellen
ridacchiò
sulle labbra del ragazzo che la stava tenendo ancorata al muro prima di
mordicchiarle di nuovo e chiudere gli occhi, perché tutto
quello era troppo.
E anche
Michael, con le mani di lei tra i suoi capelli rossi, si diceva che
tutto
quello era troppo, ma era così
scontato che sarebbe finita così, finiva sempre
così tra loro due.
Nel buio di
quel camerino, tra un oggetto di scena e l’altro, Ellen lo
strinse più forte a
sé, smettendo per un attimo di baciarlo, giusto per
poggiargli la guancia sul
petto e calmarsi. Sentire il battito del cuore di lui per ritornare un
attimo
coi piedi per terra, per calmare i brividi e quella sensazione
opprimente che
le impediva di pensare lucidamente, ecco di cosa aveva bisogno ogni
volta che
stava con Michael.
Andava avanti dalla sera in cui lei era rimasta un po’
più a
lungo in sala prove e lui aveva deciso di non lasciarla sola. Nessuno
dei due
avrebbe scommesso mezzo centesimo su di loro, quel giorno. Ma poi
avevano
continuato ogni giovedì sera. Per un motivo o per un altro,
uno dei due se ne
usciva con “Pauline dammi pure le chiavi che oggi chiudo io,
tranquilla, tanto
devo aspettare” o “Rimango a provare ancora un
po’”, e casualmente l’altro si
offriva di fargli compagnia. Ecco come consumavano quel qualunque cosa ci fosse tra loro, tra una
scenografia incompleta,
copioni svolazzanti e sedie malandate.
Ma Ellen se lo
ripeteva in continuazione, tutto quello era troppo travolgente per lei,
non
sapeva quanto ancora avrebbe resistito senza che il suo cuore
esplodesse nel
mezzo di un bacio, senza che le sue gambe diventassero niente
più che cera
colata mentre lui le alzava la maglietta, e non ce la faceva
più perché se
avesse dovuto usare una parola per descrivere quel maledetto ragazzo,
avrebbe
scelto “troppo”.
Lui la
lasciò
fare, appoggiarsi sul suo petto, e le carezzò i capelli
ricci. Adorava farlo. -
Dobbiamo andare per il saluto finale, penso. - sussurrò, per
non spezzare
quella magia che poteva sentire nell’aria quando lei gli
stava accanto. Erano così
vicini. - Va tutto bene? - ma poi si diede dello stupido,
perché lei stava sempre
bene, non si poteva fare una domanda del genere alla ragazza che
portava il
buonumore ovunque.
Lei si
staccò
immediatamente, recuperando il senso della realtà. -
Andiamo. - disse,
iniziando a camminare per paura di essere in ritardo e fare una
figuraccia, ma prima di uscire, nella penombra si
girò verso di lui. - Sono tanto sconvolta in faccia?
Lui rise. -
Solo il tuo rossetto. E i capelli.
- Merda! Devo correre
in bagno. - ed era già pronta a volare nel suo camerino, ma
lui la strinse a
sé da dietro, ed Ellen si sentì intorpidita in
ogni suo membro, come se avesse all’improvviso
perso la facoltà di muoversi. - Faremo in modo che non se ne
accorga nessuno. -
un bisbiglio appena accennato, le braccia possessive che trattenevano
la
schiena di lei al proprio petto, le labbra appena sotto
l’orecchio della
ragazza, il suo grande punto debole.
Lei si
domandò
se sarebbe mai finita tra loro due, se sarebbero mai arrivati a una
conclusione
o si sarebbero sempre limitati a nascondersi in un buio che sapeva di
passato. Ma
in quel momento, lui era con lei. E andava bene così.
***
All’ingresso
di scuola, Roxy, che aveva appena spento una sigaretta, si
avvicinò a Becky, Ellen
ed Eleanor con un sorriso eccitato sulle labbra dipinte di scuro.
- Oh cielo, e
ora quale sarà la nuova meravigliosa
scoperta? -
domandò Eleanor ad alta voce, facendo ridere le altre.
- Ragazze,
ragazze, ragazze! - Roxy sembrava piuttosto impaziente. E parecchio
urlante. -
Domani sera dovete venire con me al tendone. Sembra ci sia una nuova
band in
città!
Ellen fece un
passo in avanti con aria solenne. - Amica, tu lo sai, dove
c’è una band ci sono
io.
- E di chi si
tratta? - chiese Becky, curiosa.
- È questo
il
bello, nessuno lo sa! Non vogliono svelare la propria
identità fino al concerto,
non possiamo non esserci! Sarà una figata!
Becky
sbuffò,
sapendo che si sarebbero fatte convincere, alla fine, e sorrise.
Eleanor
inarcò
un sopracciglio. - Almeno ce l’ha un nome, questa band?
-
Sembra si
chiamino 5 Seconds of Summer.
Argh.
Ho poco da dire. Questa è la mia prima Fanfiction sui
ragazzi e, devo ammetterlo, è stato un pochino emozionante
scriverla, anche se non saprei descrivere bene il perché.
Ognuno di questi personaggi è un pezzo di me, sento
particolarmente mia la storia di Ellen e Michael, è
piuttosto personale. Ma ripeto, ognuno di loro ha qualcosa di me, un
tratto caratteristico, un atteggiamento, un'attitudine, un bisogno.
E siccome non voglio annoiarvi ulteriormente, vi lascio sperando che
questa storia un po' strana vi sia piaciuta e vi invito a farmi sapere
che ne pensate anche perché, essendo la prima volta che
scrivo in questo fandom, non avevo idea di come districarmi ahahah
Un abbraccio a tutti.
Figlia
di un pirata
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