Non c’è
nulla interamente in nostro potere, se non i nostri pensieri
Cartesio (filosofo e
matematico francese, 1596-1650)
L’alba
era già sorta da parecchio, ma il cielo inspiegabilmente
tardava ad illuminarsi.
Forse,
dipendeva dalla foschia onnipresente e molesta che nelle ultime due
settimane era diventata una compagnia fissa e sgradevole di quel
gennaio ormai agli sgoccioli.
Costanza
alitò sulle dita fredde e bianchicce, per cercare un
po’ di quel calore che il camino della stanza non era
riuscito a donarle, nonostante la solerzia con la quale la cameriera
era venuta a rifornire di abbondanti ceppi di frassino la brace ormai
spenta della notte.
Sebbene non ci fosse nessuno da disturbare, si
alzò silenziosamente dal baldacchino, sistemando i piedi ghiacciati nelle calde babbucce di lana
grigio perla, abbandonate sullo scendiletto persiano.
Recuperò
il moccio della candela che aveva acceso qualche ora prima del
crepuscolo, quando si era svegliata improvvisamente, non riuscendo a
ricordare per l'ennesima volta dove si trovasse.
Era
una sensazione che le era diventata famigliare, suo malgrado,
nonostante fosse già trascorso un mese dall’arrivo
in quella nuova e indesiderata casa.
Il
mozzicone tra le mani, avvertì la carezza della cera
sulle dita, ormai fragile e quasi trasparente, completamente
inutilizzabile.
La
ragazza agguantò con delicatezza quell’innocente
rimasuglio, per poi gettarlo nell’apposita scatola di ferro,
che la cameriera avrebbe avuto cura di ripulire e rifornire non appena
Costanza avesse lasciato la stanza per la colazione.
Quindi,
si sedette sull’elegante sedia in legno di ciliegio, davanti
lo scrittoio ribaltabile, adagiato sotto l’ampia finestra con
i pesanti tendoni di broccato appena scostati che lasciavano
intravedere irregolari rettangoli di quel cielo perennemente fosco.
Osservò
con la solita noncuranza le copiose venature che attraversavano quel
pezzo di albero ormai privo di vita, poi aprì il primo
cassetto di sinistra, dove custodiva il cofanetto con tutto
l’occorrente per la corrispondenza.
Sistemò
meglio la lunga vestaglia bianca di raso foderato, che le ricadeva
addosso come un vecchio sacco informe per la raccolta del grano, ma che
tuttavia lei adorava.
La
schiena incurvata, la luce del mattino che faticava a scacciare quella
buia della notte, Costanza intinse la piuma d’oca nel
calamaio: l’inchiostro era denso, quasi vischioso, bastava un
attimo perché rovinasse il foglio immacolato su cui si stava
per posare.
Tuttavia,
le dita della ragazza, agili seppure intorpidite dal freddo, ebbero la
meglio, e così le parole cominciarono a scivolare sulla
carta, fragrante e lievemente arricciata ai bordi:
Novara,
mercoledì 24 gennaio 1849
Cara
Nonna,
è
l’ennesima giornata fredda ed uggiosa, in una
città che continuo a ritenere visceralmente ostile ed infida, sempre
avvolta com’è da una densa caligine grigiastra.
Mi
mancate molto, lo sapete, ed ogni giorno penso a voi e a quello che ho dovuto
abbandonare contro la mia inutile volontà di donna e figlia:
le nostre adorate montagne, l’aria fresca delle sera e quella
gentile del mattino, il canto timido degli uccelli, l’abetaia
dove amavamo passeggiare...
Qui
il tempo scorre uguale al primo momento in cui sono arrivata, ovvero
lentissimo e noioso.
Non
ho amici, ma questo ve l’ho già ripetuto almeno in
altre due lettere, scusatemi se continuo a tediarvi, ma siete
l’unica mia consolazione in questa nuova vita che non ho
minimamente desiderato.
L’altra
sera c’è stata una festa, qui a palazzo, un diversivo per animare la vita sociale che ci stiamo costruendo: Nicolò ed io abbiamo
finalmente potuto conoscere i nostri famosi parenti Caccia Dominioni,
il ramo nobile della famiglia che, naturalmente, sono stati
l’attrazione dell’intera serata.
Lo
zio Aldo è un uomo molto anziano, lo immaginavo un
cinquantenne bonario, invece avrà come minimo una ventina
di anni in più.
E’
gentile, mi ha stretto teneramente la mano, e sebbene non abbia mai veramente
sorriso, ho visto una luce affettuosa nei suoi occhi cerulei, come se
fosse stato contento di conoscermi.
Non
ha quasi capelli, è stempiato sulla fronte, e questa sua
caratteristica lo fa assomigliare ad uno scoiattolo spelacchiato, dato
il colore dei ciuffi che ancora può vantare!
La
zia Rosa, invece, è una donna assai minuta, ma ben
proporzionata, pallidissima e con gli occhi di un nocciola sbiadito: ha
un profumo delizioso, non saprei dire quale essenza nasconda; forse,
quando entreremo maggiormente in confidenza, oserò chiederle
da quale Mastro profumiere se l’è fatto creare,
perché vi assicuro, cara nonna, che è davvero una
fragranza gradevolissima.
Rispetto
al marito, ha talmente tanti capelli che potrebbe donarglieli,
folti e chiari da risplendere anche senza la luce diretta!
Non
so quanti anni abbia, sicuramente è più giovane
dello zio Aldo, credo almeno di una decina di anni, ma queste sono solo mie supposizioni, e non intendo cedere alla curiosità di chiedere alla mamma notizie maggiormente dettagliate.
Ovviamente,
assieme a loro, sono venuti anche i due figli, Pietro e Federico, che non credo conosciate.
Non
si assomigliano per nulla: il primogenito, Pietro, è biondo e ha gli occhi
grandi ed azzurrissimi; l’altro, invece, è moro e
decisamente più atletico, dalla corporatura meno tozza.
Tuttavia, ho notato avere una caratteristica in comune: il naso, infatti, appare leggermente schiacciato,
per il resto non sembrano neppure fratelli, alla stessa maniera di come
non sembrano figli dei loro genitori; su questa frase sibillina, abbiate pazienza che mi spiegherò al meglio.
Il
più giovane è intraprendente, spigliato, fin
troppo allegro: ha cercato di invitarmi a ballare almeno tre o quattro
volte, non ricordo con esattezza, perché sono sempre riuscita
ad allontanarmi prima che lui si avvicinasse troppo!
L’altro
cugino, invece, è taciturno, e credo sia anche un po’
sciocco: mi ha dato l’impressione, infatti, che non sappia
imporsi su alcuno, forse a causa dello sguardo sfuggente o di quel suo
costante assenso degli occhi color del ghiaccio.
Sono
convinta si sia annoiato parecchio, esattamente come me, ma
è rimasto educatamente seduto per l’intera durata
della cena -a mio avviso interminabile ed inutilmente abbondante- per
poi rintanarsi con gli altri uomini nel salottino da fumo; persino
quando hanno aperto le danze, Pietro non si
è allontanato dal suo rifugio, adducendo come
scusante il desiderio di dare un’occhiata alla biblioteca e
alla collezione di armi di mio padre.
Occhiata
che, detto tra di noi, si è protratta per quasi l’intera durata delle
danze.
Tra
i due giovani, cara nonna, ammetto che mi affascina di più
il timido Pietro, forse perché lo reputo maggiormente affine
al mio carattere introverso.
Anzi,
sono convinta che, a suo modo, sia persino più ribelle del
fratello, seppure, come ho scritto poche righe fa, a mio avviso non abbia ancora
imparato ad imporsi.
Ora
vi devo lasciare: il cielo, nonostante siano quasi le nove del mattino,
si sta sempre di più oscurando, e purtroppo sono rimasta
senza la scorta di candele.
Vi
abbraccio con tutto il mio cuore e la devozione di nipote affezionata,
scusandomi se vi ho annoiato con descrizioni di persone che, sebbene
non vediate da anni, sono certa ricorderete.
Attendo
con trepidazione una vostra lettera,
Costanza
La
ragazza piegò in quattro il foglio, quindi lo
infilò con cura in una busta color avorio, recuperata dal
cofanetto dedicato alla corrispondenza.
Infine, la sigillò con della calda e colante ceralacca, sorridendo tristemente.
Soddisfatta
e speranzosa, smistò la lettera nell’apposito
contenitore, da cui la cameriera l’avrebbe presa per farla spedire
quanto prima.
****
“La
situazione tenderà a precipitare molto presto!”
sbraitò il notaio, versandosi un bicchierino di liquore al
ginepro.
La
moglie guardò torvo l’uomo, reputando poco
signorile quel gesto da ubriacone compiuto di mattino presto.
Fece
un cenno alla cameriera che si era appiattita in un angolo e,
ordinandole di lasciare immediatamente la sala da pranzo,
tornò a concentrarsi sulla tazza fumante e sulla fetta di
torta al limone che stava per addentare, prima dell’attacco
di rabbia del consorte.
“Padre,
voi vi preoccupate troppo!” cercò di rabbonirlo un
giovane sui venticinque anni, alto e massiccio quanto il genitore, il
viso avvampato di furore ed entusiasmo.
“Non
possiamo più rimanere con le mani in mano, fingendo che quei
maledetti Austriaci non stiano stringendo il cappio attorno ai nostri
poveri colli! Lo capite che stiamo parlando della libertà di
tutti noi? E’ necessario e doveroso intervenire, altrimenti
perderemo la poca credibilità che ci è rimasta
davanti al resto del mondo!”
“Parli
proprio come il giovane sciocco ed irresponsabile quale sei! La guerra,
voglia il Cielo che non scoppi mai, non è il gioco infantile
che facevi da piccolo, con quelle stupide spade finte e il cavallino
più mansueto di cui disponevamo nelle stalle! Nemmeno le
lezioni di scherma potranno salvarti, se e quando ti ritroverai in
mezzo alla bolgia, alle urla e alla selvaggia crudeltà del nemico: al
tuo fianco, uniche e non cercate compagne, rimarranno solo la desolazione,
l'incomprensione e il senso profondo di smarrimento…”
Il
notaio abbassò lo sguardo, gli occhi scuri, inferociti fino
all’attimo prima, ora erano velati da vecchi ricordi sopiti.
All’improvviso,
infatti, gli tornò alla mente il suo passato da giovane
ribelle, fiero esponente della Carboneria, persino del suo fugace incontro con
Mazzini, durante una riunione dei soci a Genova, città
d’origine del fondatore del movimento rivoluzionario, fino ai momenti concitati dell’arresto da parte degli Austriaci,
più di vent’anni prima, e di come il padre lo
avesse tirato fuori da quella spiacevole situazione, grazie
all’influenza economica e alla fama che precedeva il nome dei Granieri.
Don
Armando ritornò cupamente al presente, accorgendosi di come avesse condotto quell’arringa sempre in piedi, un
braccio appoggiato al freddo marmo della mensola del caminetto,
staccandosi da quell’angolo solamente per compiere una mezza
piroetta su se stesso, come a non voler incontrare lo sguardo di quel
figlio testardo ed inconsapevole delle sciocchezze che brandiva a
destra e a manca, quali fossero trofei di cui essere orgoglioso.
Accorgendosi
del bicchierino colmo di liquore ancora in una mano, lo
trangugiò d’un fiato, facendo poi una smorfia di
disgusto e tornando a sedersi a capotavola.
Costanza
entrò nella stanza lo stesso istante in cui il padre e il
fratello avevano appena deposto le armi, dopo che le loro grida
l’avevano improvvisamente accolta mentre scendeva la
scalinata in marmo.
Nicolò
rimase in silenzio per qualche istante, il capo dai folti e ricci
capelli abbassato sulla tovaglia immacolata: congiunse le dita, i
gomiti abbandonati sulle ginocchia, quindi cercò di
trattenere un sospiro.
“Perdonatemi,
ma devo sbrigare certe faccende al circolo. A più
tardi”
Il
giovane si alzò senza degnare di uno sguardo i presenti,
sbattendo volontariamente la porta, che si richiuse senza troppo rumore
dietro di lui, il tacchettio degli stivali che calpestavano il costoso
marmo del pavimento.
La
ragazza deglutì meccanicamente, cercando di intuire dagli
sguardi dei genitori il motivo di quell’abbandono
così freddo ed improvviso da parte del primogenito.
Stava
aprendo la bocca per cercare di avere qualche notizia sullo screzio che
era certa si fosse appena consumato, quando la moglie del notaio, donna
Luisa, spiegò con fare forzatamente allegro:
“Questa
mattina arriverà il tuo nuovo insegnante di musica, Costanza
cara! Ci raggiungerà tra un’ora, e ovviamente
rimarrà a pranzo con noi, così potrete cominciare
già nel pomeriggio le vostre lezioni! Sei felice,
figliola?”
“In
realtà, oggi non mi sento bene… ho dormito poco,
e dopo pranzo era mia intenzione riposarmi…”
tentò di replicare la ragazza, assumendo
un’espressione afflitta.
Poi,
si portò una mano ad una tempia, cercando di addurre
un’improvvisa emicrania come giustificazione,
l’ennesima in quell’ultimo mese contro le assurde
proposte che le perpetrava la madre.
“Ma
non possiamo rimandare! Il maestro Rossini è il
più prestigioso dell’intera provincia! Ha lavorato
persino a Milano e a Venezia, non è educato rimangiarsi la
parola data! Sono convinta ti piacerà moltissimo: anzi, voci
che si rincorrono da qualche tempo, lo vogliono alla ricerca di una
moglie! Se siamo fortunati, la promessa sposa potresti essere proprio
tu!”
Costanza
sgranò gli occhi: non aveva alcuna intenzione di sposarsi,
il suo unico desiderio era ritornare dalla nonna, in mezzo ai boschi,
cullata dalla montagne, immersa nella vita selvaggia che, in quei
primi diciotto anni di esistenza, era stata
la sua fedele compagna di viaggio.
Lanciò
un’occhiata d’aiuto in direzione del padre, assorto
in chissà quali pensieri: aspettò che
l’uomo alzasse almeno una mano, che dicesse la sua opinione
su quel mucchio di assurdità che la moglie stava propinando
alla sua unica figlia, ma attese inutilmente.
Così,
non vedendo alcun segnale da parte del notaio, tornò a
tuffarsi in mezzo alla solitudine e all’arrendevolezza che,
ultimamente, si stavano impadronendo delle sue mancate decisioni:
guardò delusa il volto appuntito della madre, gli occhi
allungati ed azzurri, la bocca sottile aperta in un sorriso di
incoraggiamento.
Erano
in quei momenti, negli ultimi mesi sempre più soventi, che
Costanza si domandava come facesse quella donna ad essere la figlia di
donna Maria, la sua adorata e saggia nonna.
Avevano
due caratteri così diversi, visioni della vita completamente
all’opposto…
“In
attesa che il maestro arrivi, hai il permesso per andare a ritirarti
nelle tue stanze, figliola” si rabbonì donna
Luisa, convinta di compiere un gesto di grande magnanimità.
La
ragazza strinse il tovagliolo color panna che aveva adagiato sulle
ginocchia, appena qualche attimo primo: lo ripose sul tavolo e,
cercando di sorridere, acconsentì:
“Molto
bene, ma almeno permettetemi di decidere una cosa: mi farò
portare la colazione nella serra, lì fa più
fresco. Chissà che l’emicrania mi passi
completamente…”
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