L’innocente
Perdonami
Padre, perché ho peccato
[Sacramento della
Confessione]
Dovresti vederla pregare, Benedetta. Nessuno sa pregare
come lei. Inginocchiata sulle ruvide assi di fronte all'altare, le mani
giunte
a stringere un rosario, sembra una santa che invoca il martirio.
Dovresti vederla mentre le labbra si muovono veloci –
santa madre di dio prega per me umile
peccatrice – dovresti vedere i suoi occhi fissi
sull'icona della Vergine,
le ginocchia scorticate dalle schegge di legno, i pochi capelli legati
stretti dentro
la cuffia e la voce bassa che sussurra e sussurra e sussurra
–
santa vergine lava via le mie
colpe lavami
l'anima perché ho peccato sì ho peccato.
Dovevi vederla qualche anno fa, quando era ancora l'amato
tesoro di suo padre, la beniamina del Conte, padrone delle terre
adagiate tra ulivi
verdissimi e filari d'uva grassa e rigogliosa.
Era bella, Benedetta; bella come il grano dei campi da
cui aveva preso l'oro nei capelli, gli occhi verdi come acini, la pelle
purissima.
Ah, se l'amava suo padre. Si beava della sua vista, la guardava
correre tra i vigneti mentre giocava a palla o rincorreva i piccoli
levrieri da
caccia, la risata infantile che era come musica, e ringraziava il
Padreterno di
avergli dato una figlia così perfetta, così degna
di lui. Poco importava che i
parenti – prima – e i maestri – dopo
– avessero insinuato che forse (ma solo
forse, ché dire di più sarebbe suonato
sconveniente alle sensibili orecchie del
Conte), Benedetta non era esattamente la creatura più
sveglia che si fosse mai vista.
I parenti, si sa, sono infidi per natura, e i maestri si
possono sempre cacciare.
E poi, si diceva il Conte, cosa se ne fa una femmina
dell'intelligenza? Serve solo a farsi venire le fantasie, a spezzare il
cuore
ai bravi padri timorati. No, una donna deve crescere devota e
sottomessa, trovarsi
un buon marito e mettere al mondo tanti bei maschi in salute.
Già se la vedeva la processione dei pretendenti,
già se
la immaginava maritata al rampollo di qualche famiglia importante,
circondata
da uno stuolo di bambini gagliardi e pronti a far la riverenza
all’orgoglioso
Signor Nonno.
Meglio bella e un
po' tarda che brutta ma intelligente, si diceva il Conte
mentre guardava
sua figlia giocare e cadere e sbucciarsi le ginocchia –
meglio un po' sciocca che con la testa zeppa di
strane idee,
pensava mentre la tata accorreva a placare gli strilli di Benedetta,
che a
dieci anni ancora piangeva e se la faceva nelle mutande come quando ne
aveva
due e la balia tardava a portarle il latte.
I parenti si azzittivano e i maestri cambiavano, tanto che
alla fine non ne venne chiamato più nessuno.
Benedetta si faceva sempre più bella, anche se a malapena
aveva imparato a leggere e a scrivere. Aveva però imparato a
pregare e a quello
si dedicava con tutto il suo fervore, piccola e immobile davanti
all'altare della
cappella di famiglia, sola e sperduta tra le ombre della navata. Di
quali
biasimi dovesse chiedere perdono non si sa, ma Don Lanzino, il prete di
famiglia, gliel'aveva detto: ogni donna nasce peccatrice, quindi
prega, Benedetta, prega – e
chiedi
assoluzione a Dio, ché se la tua anima fosse stata pura ti
avrebbe fatta nascere
maschio.
Prega, Benedetta,
prega – e infatti lei pregava, e non importava se
fuori c'era il sole, non
importava se i bambini delle serve erano ancora nei campi a correre nel
grano;
Benedetta la potevi trovare quasi sempre in chiesa a chieder clemenza
per le
sue colpe, la potevi trovare inginocchiata sul velluto del
confessionale a
salmodiare qualche atto di contrizione, un velo tirato sul capo e sulle
spalle
a coprire gli sgargianti vestitini a fiori e i gomiti sbucciati.
Passavano gli
anni e, pur con quel poco di sale in zucca che il Signore le aveva
concesso,
Benedetta cresceva beata, devota, amata e vezzeggiata.
Venne il giorno, doveva essere passato da poco il suo
quattordicesimo compleanno, che Benedetta fu ritrovata sanguinante in
mezzo ai
campi, muta e immobile, pareva morta.
Ma non era morta, il cugino più grande si era divertito
con lei e poi l'aveva lasciata lì, abbandonata nell'erba.
L'avevano visto, nei
giorni precedenti, che la faceva giocare, e Benedetta rideva mentre si
davano
la caccia per i giardini. Qualche zia aveva suggerito che era un po'
sconveniente che una ragazza se ne
andasse in giro così, le gonne tirate fin quasi al
ginocchio, la faccia tutta
rossa come una serva. E avevi il tuo bel da fare nel convincerle che
Benedetta
era solo una bambina –
ma quale
bambina,
con quel seno che quasi straripava dal bustino troppo stretto
–
quale bambina, con quel
corpo
arrotondato e quelle gambe lunghe da gazzella? Il cugino le ronzava
sempre
attorno da quando era tornato dal militare, e naturalmente era stata
colpa sua –
di Benedetta – se s'era messo qualche idea in testa. La carne
è debole e la
donna è peccatrice, e non c’è penitenza
che tenga.
Il Signor Padre non ci aveva visto più:
svergognata,
le aveva detto non appena
Benedetta era stata riportata a casa e resa presentabile –
svergognata, le aveva urlato, nonostante
Benedetta non capisse
nemmeno cos’era successo. Non lo capiva proprio
perché si fosse ritrovata in
quel campo con i vestiti e le carni lacerate, né comprendeva
perché il Signor Padre
fosse così arrabbiato con lei da batterla fino a lasciarle i
lividi addosso. Capiva
solo che il biasimo doveva essere suo, solo suo – come diceva
Don Lanzino, come
dicevano le zie, i cugini, tutti quelli che la guardavano e abbassavano
gli
occhi, scuotendo la testa.
Benedetta piangeva e pregava per le sue colpe, quelle
nuove e quelle vecchie, pregava anche il giorno che fu portata via,
senza un
abbraccio, senza che nessuno venisse a salutarla, neanche il Signor
Padre,
neanche i cani che pure amava tanto. Stringeva forte il rosario tra le
mani
mentre la carrozza attraversava i lunghi filari di cipressi e varcava
il
cancello di ferro del convento.
Le fecero indossare le ruvide vesti del noviziato, le
tagliarono i capelli per infilarli nella cuffia e le misero al collo il
crocifisso di legno scuro con l’effige del Redentore. Ogni
giorno, dopo le
funzioni, Benedetta correva trafelata al cancello nella speranza di
vedere la
carrozza del Signor Padre, ma la carrozza non giunse mai, né
mai arrivarono
doni a Natale o a Pasqua, quando il convento risuonava delle allegre
voci dei
parenti in visita.
Chi vuoi che torni
a prendere una svampita come te?, le dicevano le novizie
mentre tutte
insieme si davano da fare in lavanderia, brave e operose figlie di Dio,
e
Benedetta si guardava le mani screpolate e infilava le unghie nel
sapone, senza
sapere cosa rispondere.
Chi vuoi che si
ricordi di una svitata come te?, ribadivano le novizie a
mensa, tra una preghiera
e l’altra, e la Badessa zittiva i risolini con
un’occhiataccia.
Benedetta stringeva i denti e correva in chiesa, giorno
dopo giorno, mese dopo mese, e sempre in chiesa la potevi trovare
quando la
primavera lasciò il posto all’estate e
l’estate fece spazio ai primi freddi.
Avvolta nelle vesti scure, Benedetta si confessava, china
sull’inginocchiatoio del piccolo confessionale di legno, le
mani rese
insensibili dal gelo e dalla liscivia; sciorinava ogni giorno i suoi
peccati a
Don Luigi, il sacerdote che veniva a dir messa in convento.
A Don Luigi piaceva la voce morbida di Benedetta, il suo
pigolio spaurito da uccellino, gli occhi verdi che brillavano nella
penombra.
Gli piacevano soprattutto le sue mani piccole, amava baciarle e tenerle
tra le
sue mentre Benedetta sussurrava piano le sue frasi di poco conto, e lui
neanche
la ascoltava.
Gli avevano raccontato della sua vergogna, ma era bella
Benedetta, bella da dannarsi l’anima – nonostante i
suoi peccati, o forse
proprio per quelli. Era un po’ stupida, è vero, ma
Dio ama tutte le sue
creature, anche quelle più sfortunate. L’aspettava
tutti i giorni nel buio
soffocante del confessionale, pazzo d’amore, apriva le
imposte e le afferrava
le dita sottili infilandosele tra le cosce. Lei provava a ritirare la
mano, ma
Don Luigi la stringeva più forte –
metti
la
tua manina qui, Benedetta, le mormorava alzandosi di poco la
tonaca –
fai la brava, metti la
mano qui sotto e
tutti i tuoi peccati verranno lavati.
L’assoluzione arrivava puntuale e Benedetta ritornava
ogni volta, piena di speranza, e ogni volta se ne andava col cuore
alleggerito
e le dita umide del sudore del prete.
Un giorno Don Luigi la chiamò in sacrestia, Benedetta ne
uscì un’ora dopo con dieci Ave Maria da recitare
per penitenza e una creatura
ficcata a forza nel grembo.
La mandarono via quando iniziarono le nausee, nessuno ne
fece parola. Le suore la guardavano con riprovazione –
svergognata, sussurravano,
peccatrice
senza cervello – e Don Luigi non la voleva neanche
più confessare, anche se
lei andava ogni giorno a bussare alla finestrella del suo cubicolo,
puntuale
come una liturgia. Il graticcio rimaneva chiuso e Benedetta pregava da
sola con
la guancia appoggiata al legno, pregava tenendosi la pancia che
già s’era
ingrossata dentro le vesti.
Il sacerdote non si fece vedere neanche quando le sorelle
la misero su una carrozza, con le sue poche cose infilate in un baule e
giusto
i denari per pagare la famiglia di fattori che l’avrebbe
ospitata fino a quando
avesse fatto quel che c’era da fare.
Il bambino nacque in ottobre, dopo un’estate passata a
raccogliere fieno nei campi e a mungere vacche, il seno che si
ingrossava e
penzolava pesante quando si metteva in ginocchio sulle fredde pietre
della sua
stanzetta
per
pregare al crocifisso
appeso alla finestra; nacque che era cominciata da poco la stagione di
vendemmia e le cime dei monti avevano iniziato a coprirsi di neve.
Partorì con l’eco dolce dei braccianti che
cantavano raccogliendo
l’uva e con la vociaccia della levatrice che la incitava e la
scherniva mentre
Benedetta si sentiva squarciare in due come un pollo da farcire
–
prima ti sei divertita e adesso
piangi?
Il neonato era un ranocchietto rachitico, un girino tutto
rosso e bianco che strillava da spaccarsi i polmoni, ma quando glielo
misero
tra le braccia Benedetta si sentì colmare d’amore
per quella creatura, si sentì
per la prima volta perfetta e pura e assolta e piena di grazia come una
vergine
immacolata.
Glielo tolsero che era ancora sporco del suo sangue,
neanche si accorse quando glielo portarono via, stremata
com’era, vinta dal
sonno.
Al risveglio pianse e gridò e scalciò, si
strappò i
capelli, e continuò a piangere e a gridare anche quando la
riportarono al
convento, pallida e smagrita, gli occhi infossati nelle orbite come
un’anima in
pena.
Le suore la guardavano con compatimento
–
neanche
si rende conto, dicevano,
povero
agnellino stolido, tempo un mese e avrà già
dimenticato – ma Benedetta non
dimenticava, le lacrime si asciugavano sulla pelle essiccata dal sale e
gli
occhi non trovavano pace.
Da allora si è messa a pregare giorno e notte, Benedetta,
in chiesa a tutte le ore, anche quando fuori nevica e il gelo stringe
il
convento in una morsa senza perdono.
Prega per me
vergine madre prega per me e dammi la pace dammi
la pace dammi la pace, biascica Benedetta, il fiato che si
condensa in nuvole di vapore e i denti che battono e marciscono nella
piccola
bocca, giorno dopo giorno, anno dopo anno, Padrenostro dopo Padrenostro.
Inverni sono venuti e passati, ma Benedetta è sempre
lì,
come un nodo nel legno, cero votivo corroso dagli anni, piccola icona
sacra
abbandonata e dimenticata, mai rimpianta, mai perdonata.
La dovresti proprio vedere pregare, Benedetta, senza
quasi più capelli ormai, il corpo rinsecchito di cicogna
malata, il seno vuoto
come un seme in inverno.
La dovresti proprio vedere mentre prega. Non te la scorderesti
più.