Ghé.
Non
c’è stato
bisogno di far presidiare il fiume: l’intero esercito si
è radunato a fissare
l’acqua, come se la corrente impetuosa fosse una fune di
sicurezza tesa verso
di loro e in grado di riportarli a riva. E forse è proprio
così, riflette
Hephaistion mentre continua a cavalcare avanti e indietro lungo
l’argine,
osservando gli uomini schierati ordinatamente sotto il sole.
Ha
impartito
il comando perché era la cosa giusta da fare, ma nessun
soldato si è sottratto
al suo dovere, non certo quel giorno.
E quando
le
navi sono state finalmente avvistate, al largo della confluenza, tutti
hanno
saputo – e hanno creduto.
Non
è stato
necessario annunciare l’adunata: le truppe si sono allineate
spontaneamente
lungo le banchine, le donne e i bambini che accorrono da ogni angolo
dell’accampamento, urlando e schiamazzando.
Stava
controllando lo stato delle provviste insieme a Ptolemaios quando
è giunta la
notizia, e insieme si sono fatti strada tra i ranghi fino al pontile,
dove
Krateros stava già aspettando, scalpitante e nervoso come un
vecchio stallone.
Anche
Hephaistion
sente la tensione corrergli dolorosa lungo la spina dorsale –
i soldati l’hanno
anticipata, scossi da un fremito che li fa vibrare come la scarica di
una
tempesta estiva.
Stanno
tutti
fissando le navi che si avvicinano assieme al loro carico: il Re,
restituito
alla sua gente dal fiume che li ha tenuti separati, o solo un cadavere
muto e
freddo da consegnare agli imbalsamatori. Nessuno ne ha parlato a voce
alta, ma
la domanda la può leggere inespressa nei loro occhi e nello
spasmo delle
bocche e delle mani.
Hephaistion
sa che è vivo – ne è certo come che il
sole continuerà a sorgere e la luna a
tramontare, portando la marea. Ci sono verità
incontrovertibili nel mondo
naturale, come avrebbe detto Aristoteles – ogni altra cosa
non è pensabile e Aleksandros
è sempre stato una forza della natura. Eppure, non
può fare a meno di piantarsi
le unghie nei palmi come un ragazzino ansioso incapace di mantenere la
calma.
Le
imbarcazioni sono abbastanza prossime da scorgere le tre file di
rematori
vogare in direzione della sponda, e udire gli ordini del trierarca sul
ponte,
che prepara gli uomini per l’attracco.
Abbastanza
vicine da poter vedere il Re.
Il suo
corpo
giace su una lettiga posta sopra un rialzo della trireme principale, i
paracieli scostati. Anche da quella distanza il riflesso dorato dei
capelli è
sufficiente per togliere ogni dubbio. Ed è immobile, le mani
pallide incrociate
sul petto.
Quella
inerzia, così innaturale per lui, gli fa drizzare i peli
sulle braccia, e anche
Ptolemaios rabbrividisce al suo fianco, trattenendo il respiro. Solo
che ora
c’è un nuovo rumore che sale dalla terra e scivola
sull’acqua fino a morire tra
le onde – un mormorio di tale strazio e dolore che neanche il
lamento di tutte
le ombre d’Averno potrebbe essere più
insopportabile. C’è il terrore della
perdita nel gemito dei soldati – nei singhiozzi e nel brusio
frantumato delle
voci – e l’angoscia di anime perdute che mai
più rivedranno la luce.
Per un
attimo, Hephaistion deve combattere la tentazione di accovacciarsi a
terra e
premersi le mani sulle orecchie; con la coda dell’occhio
riesce a scorgere
Ptolemaios che fissa la nave a sguardo sbarrato mentre Krateros sembra
congelato sul posto.
In Persia
è
costumanza piangere i defunti stracciandosi le vesti, ma questo
è molto più di
una tradizione o una mera abitudine: è un raglio strappato
al cuore da un
dolore troppo grande per essere immaginato. È reale, ed
è ciò che significa
restare senza di lui.
Un
istante
dopo, nell’attimo che segue il silenzio, Aleksandros solleva
la mano in saluto,
piantandola nel cielo.
Dentro il
fragore di gioia assordante che esplode come il ribollire di schiuma
attorno a
lui, Hephaistion lancia un’occhiata alla nave e
all’uomo sopra la lettiga.
Oh,
sì, sa
bene di cosa si è trattato: un’entrata ad effetto,
certo – ma ancor di più è
stata una lezione.
L’hanno
rinnegato sulle rive dell’Hyphasis, rifiutandosi di
proseguire al di là del
confine estremo, fin nell’ignoto più assoluto; gli
hanno preferito la sicurezza
del ritorno, perfino fatto intendere che avrebbero potuto fare a meno
di lui. E
adesso lo sanno – hanno avuto un assaggio di quello che
significherebbe
perderlo davvero. Sa anche che sarebbero disposti a perdonarlo se
venissero a
sapere che l’ha fatto apposta, come un amante devoto
è disposto a soprassedere
i capricci di un cuore ferito.
Bastardo,
pensa
Hephaistion, reprimendo un
singhiozzo che ha il gusto del pianto, meraviglioso,
pazzo, adorato bastardo – e finalmente il sorriso
lo vince, la risata che
erompe chiara come il sole mentre getta la testa indietro, ferendosi
gli occhi
contro la luce.
Quando
riabbassa lo sguardo e lo punta sulla nave in attracco, deve imporsi di
non
slanciarsi sul ponte e saltare addosso ad Aleksandros, per scrollarlo
fino a
inculcargli in testa un po’ di buonsenso. Ptolemaios per sua
fortuna lo afferra
prima, serrandolo in un abbraccio soffocante, e persino Krateros gli
assesta
una pacca sulla schiena che per un soffio non gli fa sputare i denti.
“Non
ho mai
dubitato!” esclama quest’ultimo, un ghigno osceno
disegnato sulla barba scura,
“neanche per un momento. Stupido ragazzo che non è
altro, ma gli Dei lo
adorano. Non ho mai dubitato, io.”
Hephaistion
ride di nuovo, e si volta a osservare la nave che viene agganciata alla
banchina con le corde lanciate dai servienti, afferrate da terra e
assicurate
ai piloni di legno. Mentre la passerella viene abbassata e la lettiga
del Re
sollevata nel ruggito delle truppe che si raccolgono intorno,
Hephaistion si
impone di distogliere lo sguardo per riportarlo sulle file di ufficiali
rimasti
impietriti dietro di lui.
“Formate
i
ranghi!” abbaia, “e tenete questo branco di idioti
lontano dal pontile prima
che lo facciano collassare in acqua!”
Ptolemaios
barcolla mentre la folla lo spintona in una nuova ondata di entusiasmo.
Hephaistion lo aiuta a rimettersi in piedi e gli avvicina le labbra
all’orecchio, per sovrastare il frastuono selvaggio di urla e
schiamazzi.
“Rientriamo
alla tenda prima di finire schiacciati. Non c’è
modo di parlargli se restiamo
qua.” Per un attimo sorride alla sorpresa che riesce a
leggergli in faccia, in
una smorfia di comicità involontaria: forse si era aspettato
di vederlo
slanciarsi su Aleksandros per ricoprirlo di baci appassionati, magari
incitato
dalla folla festante. Ma non ce n’è bisogno: ha
già incontrato i suoi occhi
mentre si avvicinava sull’acqua, e per ora è
sufficiente. Che i soldati si
prendano pure questo momento – lui avrà il suo
molto presto.
Faticano
a
riguadagnare la strada per la tenda, spintonando le truppe e tirandosi
dietro i
cavalli tenuti per i finimenti.
Fermo di
fronte all’entrata, persino da quella distanza Hephaistion
riesce a scorgere la
lettiga del Re venire issata sulle spalle dei portantini e poi
trasportata a
riva, gli uomini che le fluttuano attorno come stormi di uccelli, le
mani
levate in adorazione.
Aleksandros
rivolge un sorriso a tutti, seduto dritto sulla lettiga, le labbra che
si
muovono senza che lui riesca a sentire i nomi con cui certamente saluta
ciascuno di loro. I portantini sono costretti a fermarsi ogni poco, per
permettere ad Aleksandros di stringere le mani e accettare le
benedizioni
mentre gli uomini gridano il suo nome in un ritmo serrato, come
l’incitazione
che precede una battaglia.
A
metà della
strada, Hephaistion lo vede alzare una braccio e arrestare i portatori.
Osserva
la concitazione dei servi che scattano immediatamente al suo ordine e,
poco
dopo, la folla si apre in due ali per far passare uno scudiero con un
cavallo
condotto alla cavezza.
Hephaistion
trattiene il respiro: la bestia è un castrone addestrato e
tranquillo che serve
più a far scena che altro, ma nonostante questo deve di
nuovo reprimere
l’urgenza di raggiungere Aleksandros e scrollarlo per un tale
sfoggio di
vanità. Solo l’orgoglio lo trattiene –
il proprio, e quello del Re. Sa bene per
quale motivo lo stia facendo: vuole dimostrare ai suoi uomini di essere
in
grado di arrivare alla tenda come un soldato e non come un infermo, ma
questo
non rende il gesto meno sconsiderato – non se pensa al dolore
che deve provare
e che gli legge in faccia quando finalmente monta in groppa, tendendo
le labbra
in una smorfia che gli si conficca nel cuore.
Gli
uomini –
almeno loro – sembrano gradire la prodezza, e le incitazioni
si fanno più
chiassose quando Aleksandros sprona il cavallo e prende ad avanzare, il
viso
puntato in avanti come fosse a una parata, e non invece in procinto di
stramazzare a terra morto e stecchito da un momento
all’altro.
Qualcuno
ha
anche trovato dei fiori e ora hanno preso a lanciarli verso di lui,
pavimentando
la sua marcia con un tappeto di colori sgargianti e profumi stordenti.
Solo
cinquanta passi – Hephaistion li ha contati nella testa, ma
gli sembrano
comunque un’eternità, specie quando Aleksandros
scivola a lato dell'animale,
perdendo l’equilibrio. Lo scudiero lo sostiene prontamente e
lo aiuta a
rimettersi eretto senza che le truppe festanti si siano rese conto di
nulla,
continuando a premere da tutti i lati e a sospingerlo avanti.
Infine,
il
cavallo giunge alla tenda, e Aleksandros è davanti a lui,
pallido per la
sofferenza, le labbra che tremano – ma gli occhi sono accesi
da quella luce che
conosce bene, e che ora brilla più fulgida che mai.
“Hephaistion,”
lo sente sussurrare prima di scivolare di nuovo, solo che ora
è lui a
sostenerlo e a prenderlo tra le braccia mentre smonta da cavallo
– i soldati
che esplodono in un boato selvaggio di gioia e approvazione.
“Tutta
questa
scena e neanche ti reggi in piedi,” lo rimprovera Hephaistion
e intanto lo
stringe a sé, aspirando il suo odore e lasciandosi avvolgere
dal calore ardente
della sua pelle. Le lacrime premono per uscire e fa giusto in tempo a
ricacciarle indietro con uno sforzo di cui non si sarebbe creduto
capace.
Alza la
testa
per rivolgere un cenno a Ptolemaios, che lo precede nella tenda assieme
a Krateros
– poi finalmente entra anche lui, il braccio attorno alla
vita di Aleksandros,
richiudendo il lembo di stoffa dietro le spalle e lasciando libero
l’esercito
di gridare al cielo la sua esultanza.
Una volta
dentro, lontano dagli occhi adoranti, Aleksandros sembra lasciar
trapelare i
segni della sua debolezza; Hephaistion li percepisce nel modo in cui si
appoggia contro di lui e gli stringe la stoffa del chitone,
tirandogliela sulle
spalle. Lo sostiene con facilità e lo aiuta a raggiungere
uno dei divani,
facendocelo adagiare sopra.
Aleksandros
gli sorride, ancora accesso dalla gloria mentre affonda tra i cuscini,
il volto
cereo e zuppo di sudore.
“L’hai
sentito?” chiede, scoprendo i denti in un ghigno soddisfatto.
“Questo sì che è
un benvenuto. Dovrei morire più spesso, fa meraviglie per la
reputazione.”
“Stai
sanguinando,” è tutto quel che riesce a rispondere
Hephaistion in un tono
strozzato. Con gli occhi, rivolge un muto segnale a Ptolemaios
– che annuisce e
lascia la tenda senza dire parola.
“Non
è
nulla.” Aleksandros si tira su un poco, raddrizzando il
busto. “E ho sete.
Portatemi del vino.”
“L’acqua
andrà benissimo.” Hephaistion si china ad
aggiustargli i cuscini dietro la
schiena e allunga un braccio ad afferrare la caraffa sul tavolo vicino.
“Penso
che
l’occasione si presti a qualcosa di un po’
più forte, a dire il vero, e
Krateros tiene sempre della buona brodaglia da parte, se non ricordo
male.”
A
Hephaistion
non sfugge la tensione nelle sue labbra mentre lo dice, ma sa anche che
preferirebbe morire che ammettere la sofferenza; così tace,
e rimane zitto
persino quando Krateros si avvicina con un ghigno, portando una coppa
ricolma
di liquido color rubino.
Aleksandros
ne ingoia metà in un unico sorso mentre Ptolemaios fa di
nuovo il suo ingresso
nella tenda con Philippos al seguito.
Il medico
trattiene il respiro quando Aleksandros lo saluta alzando il calice e
rivolgendogli un sorriso sfacciato. “Certamente non vorrai
rimproverarmi una
piccola celebrazione con i miei amici, non è vero?”
“Io
non ti
rimprovero niente,” risponde asciutto Philippos,
“anche se mi chiedo perché
continui a dare ascolto al mio giudizio.”
Aleksandros
si lascia andare a una risata, che si trasforma ben presto in un
accesso di
tosse. “Ah, iatré,”
riesce a dire tra
le lacrime, “se davvero vuoi riprendermi, faresti meglio a
metterti in fila.
Immagino di dovermi attendere un reale rimbrotto, se queste facce mi
dicono il
vero. Molto bene, soldati,” e si rivolge a tutti loro come se
stesse ascoltando
delle perorazioni, “sono tutto vostro. Mi rimetto alla vostra
clemenza.”
Il tono
è
leggero, ma ci vuole ben altro per ingannare Hephaistion;
l’affilatezza della
lama è ben nascosta sotto la superficie placida della sua
voce, assieme a una
nota di risentimento. Bene, pensa – si merita tutto
ciò che sta per arrivargli,
ma ciò non significa che debba piacergli.
Anche
Ptolemaios, che lo conosce da quando era un bambino, sembra aver colto
quella
sfumatura irritata perché si limita ad annuire e a
incrociare le braccia al
petto.
“Di
sicuro ci
hai elargito il peggior spavento della nostra vita,”
pronuncia a bassa voce.
Krateros,
invece, non sarebbe in grado di vedere un cinghiale in una stanza
neanche se ce
l’avesse davanti; aspetta impaziente che il medico finisca di
tendere alla
ferita e rimpiazzi le bende e, dopo averlo osservato lasciare la tenda,
esclama: “Si può sapere a che gioco pensavi di
giocare?” I peli scuri della
barba sembrano fremergli sotto le labbra. “Potrai anche
credere di essere
figlio di un dio, se tuo padre non era abbastanza uomo da renderti
fiero di
lui, ma questo non ti rende immortale!”
Hephaistion
trasalisce appena al commento, e si volta a osservare il Re. Krateros
è andato
a colpire una nota dolente, e non c’è traccia di
scherzo nel suo tono.
Gli occhi
di
Aleksandros si sono fatti scuri, ma pare che l’abbia presa
bene, o meglio:
sembra più un uomo che si stia sottoponendo a una seduta di
frustate, in attesa
del colpo successivo e ben determinato a non lasciarsi sfuggire un
lamento.
Non che
non
se lo meriti, pensa mentre raggiunge il divano vicino e si siede in
silenzio.
Il suo turno arriverà più tardi, per ora vuole
solo assistere. Si scopre a
tremare appena, la testa inspiegabilmente leggera, come dopo una
ubriacatura.
“So
bene di
non essere immortale,” risponde Aleksandros in tono cauto,
“ho abbastanza
cicatrici per provarlo. Ma sono anche un Re, ed era
necessario.”
“Lo
definirei
più irresponsabile a essere sincero,” si
intromette Ptolemaios prima che
Krateros possa peggiorare la situazione. “Esporti a un tale
pericolo… sei stato
fortunato a uscirne vivo.”
“Lo
so.” Le
nocche di Aleksandos sono bianche là dove tiene le dita
serrate attorno alla
coppa, ma la voce resta salda e misurata. Una bella dimostrazione di
volontà –
questo, Hephaistion glielo deve proprio concedere.
“Ah,
quindi
lo sai,” sbuffa Krateros. “Dovresti essere accecato
dalla pazzia per non
rendertene conto. Ti fermi a pensare, qualche volta? Irresponsabile
ragazzo.”
Alza le mani in un moto di disgusto. “Saltare da solo in quel
fortino dopo che
le rampe erano collassate… Sei diventato idiota o
cosa?”
Aleksandros
sembra prendersi del tempo per rispondere, inspirando a fondo e
socchiudendo
gli occhi.
“Sono
solito
guidare le mie truppe con l’esempio,” scandisce
lentamente. “Dalla prima linea.
Ed è quello che ci ha condotto fin qua. Gli uomini non
seguirebbero un codardo
pronto a nascondersi in fondo ai ranghi. È di macedoni che
stiamo parlando, e
non dovrei essere io a ricordartelo.”
“Lo
erano,
prima che tu lasciassi entrare persiani, indiani e altri maledetti
barbari nel
tuo esercito,” scatta Krateros, ormai oltre ogni ragione e
prudenza.
Ptolemaios
fa
un passo avanti e lo tocca sulla spalla.
“E
questo
cosa ha a che fare con la faccenda?” Stavolta, la nota
minacciosa nella voce di
Aleksandros è più accentuata, ma sembra
rimetterla subito a briglia,
riprendendo a parlare in tono incolore. La sua ira è tradita
solo dal vago
tremito nelle mani. “Non mi sono mai tirato indietro davanti
al pericolo, e non
l’ho fatto stavolta. Non manderei mai i miei uomini a
fronteggiare qualcosa che
non sono in grado di affrontare io stesso.”
“Non
hai
bisogno di dimostrarlo,” interloquisce Ptolemaios, scoccando
un’occhiata
d’avvertimento a Krateros. “Gli uomini sanno che
non temi nulla. Ma devi
pensare al futuro. Abbiamo bisogno di te. E non ci possiamo permettere
di
perderti. Coraggioso o no, non avresti mai dovuto agire in modo tanto
sconsiderato.”
“Perdikkas
mi
ha già detto le stesse cose,” ribatte Aleksandros
irritato. Ha terminato il
vino ma tiene ancora in mano la coppa come se volesse giocarci. In
realtà,
osserva Hephaistion – che ha rialzato la testa dopo essersela
tenuta tra le
mani per tutto il tempo – sembra piuttosto che la voglia
stringere fino a
frantumarla.
Krateros
si
lascia andare a una risata sonora. “Ci scommetto che te le ha
dette. E
scommetto anche che non hai ascoltato una sola parola.”
“Sto
ascoltando te.”
“Ah,
davvero?
Che la tua testa di mulo sia maledetta, ragazzo. Ti sei quasi fatto
uccidere
senza una ragione. Non sei un soldato qualunque, e non dovresti
comportarti
come se lo fossi.” Ora sta urlando. “Sei un Re, e
non ci servi a nulla se
muori. Ce la fai a ficcarti la verità in quella testaccia
dura?”
Hephaistion
li sente entrambi trattenere il respiro. In Persia, un uomo che
parlasse in
questo modo al Grande Re sarebbe messo a morte col fuoco, e verrebbe
ritenuto
un atto di misericordia. In Egitto, finirebbe sepolto vivo e urlante,
lasciato
alle bocche affamate degli scarafaggi. In Macedonia, il sovrano
potrebbe
riuscire a infilzarlo con la lancia – dipenderebbe dalla sua
mira e da quanto
ubriaca è l’Assemblea dei Pari.
Invece
quello
che Aleksandros sembra fare ora, è fissare un punto vuoto
nella stanza, gli
occhi d’argento aperti sul volto pallido come la morte. A
ogni modo pare
sufficiente a ridurre Krateros all’immediato silenzio.
“Che
cosa
vuoi che ti dica?” La sua voce suona dura e piatta come una
moneta. E senza più
una stilla di fiato. “Che mi dispiace? Va bene allora. Mi
dispiace se mi sono
fatto quasi uccidere per dar la caccia a un nemico che ci avrebbe
tenuti
inchiodati quaggiù e fatti a pezzi, per poi lasciarci
affogare nel fiume.”
Sepolto nel tono gelido c’è un rantolo basso,
sibilante. “Mi dispiace se ho
guidato il mio esercito a una vittoria che ha reso sicura la nostra
posizione e
rimosso ogni minaccia prima di metterci in navigazione. Mi dispiace di
essermi
ricordato che sono un uomo. Ora sei soddisfatto?”
Sull’ultima
parola la voce si rompe in un ansito, e Ptolemaios gli rivolge uno
sguardo
esasperato.
“Non
è che
non avresti dovuto combattere, Alekos,” dice,
“è solo che vorremmo che avessi
più cura di…”
“Non
lo
capisce!” si intromette di nuovo Krateros, incapace di
frenare la lingua, “non
lo intende che questa non è l’Iliade e che abbiamo
bisogno di un Re e non di…”
“Lasciatelo
in pace!” Hephaistion rialza la testa con uno scatto. Si
sente bruciare gli
occhi mentre fissa gli altri due. E la rabbia vibra in ogni parola.
“Per l’amor
degli Dei, lasciatelo in pace una buona volta!”
Nella
tenda
cala il silenzio – interrotto solo dal respiro pesante di
Aleksandros, che gli
arriva alle orecchie come una stilettata. Per un attimo tutti gli
sguardi sono
su di lui, ed Hephaistion li accoglie a testa alta, raddrizzando le
spalle.
Krateros
si
lascia sfuggire un grugnito di frustrazione. Si volta nella sua
direzione e
scuote la testa, guardandolo come se gli fosse cresciuta la coda.
“Gli
idioti
vanno sempre a coppia, vero?” raglia. “La faccenda
è seria, non è uno scherzo
innocente, tantomeno…”
“Lo
sa. E lo
sappiamo tutti,” sbotta Hephaistion, i denti serrati. Stenta
a riconoscere la
propria voce, tanto è vibrante di rabbia.
“L’avete ripetuto fino alla nausea.
Perché ora non vi tappate la bocca?” Li guarda
entrambi, socchiudendo gli
occhi. “O devo chiudervela io?”
Ptolemaios
si
affretta a interromperlo prima che possa dar seguito alle minacce.
“Bene. Direi
che non hai torto. È stata una stupidaggine e siamo tutti
concordi
nell’ammetterlo. Dunque possiamo considerare chiusa la
faccenda, dico bene?”
Gli rivolge un’occhiata di avvertimento – non che
sia sufficiente a
intimorirlo, non in questo momento.
Krateros,
invece, sembra averla colta e pare calmarsi, anche se controvoglia.
Hephaistion
non dice nulla, si limita a lanciare sguardi affilati come pugnali
all’indirizzo di tutti prima di riprendersi la testa tra le
mani, cominciando a
massaggiarla.
“Mi
ritengo
diffidato,” sente dire Aleksandros, il fruscio dei cuscini
quando si riadagia
sul divano. “E prometto di non rifarlo. Non che mi sia
piaciuto molto questa
volta.”
“Spero
proprio di no.” Questa gli è uscita
così, dura e secca, ma Hephaistion non ha
alcuna intenzione di rimangiarsela – ah, no. E che sia
dannata la Reale Ira e
tutto il resto.
Li
ascolta
parlare di organizzazione e di procedure per un po’: la
necessità di
acquartierare le truppe che hanno scortato Aleksandros, in attesa di
essere
raggiunti da Perdikkas con il grosso dell’esercito nei giorni
successivi, dopo
aver assicurato Multan e i territori circostanti con
un’ultima sortita. Li
sente discutere di un amministratore corrotto in qualche
città a ovest, e di
quanto abbia alzato le tasse nella sua provincia, azzoppando il
commercio – ma
è solo rumore di fondo. A ogni modo la riunione dura poco,
ed è bene che sia
così. Aleksandros è esausto, e non bisogna essere
ciechi per vederlo: il volto
è ancora più pallido, gli occhi arrossati.
“Grazie,”
lo
sente dire, “per aver tenuto tutto in piedi. Siete stati
impeccabili.” Si
prende una pausa per respirare, ed emette di nuovo quel rantolo
affaticato.
“Adesso, però, ho bisogno di riposare. Al resto
penseremo più tardi.”
“Ce
ne
occupiamo noi,” risponde Ptolemaios, preparandosi a uscire.
“Non devi darti
pena.” Rivolge un’occhiata a Krateros che lo
raggiunge sulla soglia. Ma lo
sguardo di Aleksandros ora è soltanto per lui.
“Hephaistion,”
dice, il tono che non ammette repliche – ma non gli sfugge la
nota dolce al di
sotto. “Tu invece rimani qua.”
Hephaistion
si rimette in piedi e lo raggiunge all’altro capo della
stanza. Afferra uno
sgabello e si siede accanto a lui, poi prende una pezzuola e la tuffa
nel
bacile, passandogliela piano sulla fronte, fino alle sopracciglia.
“Ah,
questo è
piacevole.” Aleksandros gli sorride dal basso. “Non
vuoi rinfacciarmi anche tu
la mia stupidità? Devi aver aspettato giorni per
farlo.”
Hephaistion
scuote lentamente la testa. Neanche un’ora fa aveva pronta la
ramanzina fino
all’ultima parola, ma ora gli sembrano frasi vuote e senza
importanza.
“No,”
risponde semplicemente.
Aleksandros
lo osserva quieto per qualche istante, poi distoglie lo sguardo,
puntandolo
sulla coppa che ancora stringe in mano. “Lo puoi fare, se
vuoi. Me lo merito.”
“Se
lo sai,
allora non ne hai bisogno,” risponde Hephaistion a bassa
voce. Si stupisce di
ritrovarla tanto ferma. “Inoltre, ti tratterrebbe dal
ripeterlo di nuovo?”
“Non
lo
rifarò.” Ha ribattuto subito, il dolore che sembra
appannare di poco la
certezza del tono.
Hephaistion
sospira piano. “Fino a quando non lo riterrai di nuovo
necessario.”
Lascia
andare
la pezza e riempie la coppa con acqua fresca; Aleksandros la sorseggia
lentamente, poi alza gli occhi a incontrare di nuovo il suo sguardo.
“Mi
sei
mancato.”
È
un sussurro
a cui Hephaistion risponde chinandosi, e poggiandogli un bacio sulla
fronte
accaldata. “Sono qua.”
Le
fasciature
sono di un bianco abbagliante – catturano lo sguardo,
così fuori luogo sulla
pelle chiara di Aleksandros. Gli occhi continuano a scivolargli
lì sopra, fin
quando non si sorprende a fissarle. Ciò che nascondono si
è quasi preso la vita
di entrambi.
Aleksandros
nota la sua occhiata e pare comprendere, ma di questo ormai non
dovrebbe più
stupirsi.
“Vuoi
vederla?” domanda gentile. Hephaistion solleva la testa, poi
torna a fissare il
bendaggio. Annuisce, una volta. Segue con gli occhi Aleksandros, che
poggia le
dita sulla stoffa per poi farle ricadere un attimo dopo.
“Dovrai
farlo
tu,” dice, “Io non…” ma le sue
mani sono già lì.
E
tremano;
ordina a se stesso di essere lieve, si impone una presa salda e pulita,
ma le
dita continuano a frustrarlo. Se comunque gli ha fatto male mentre
trafficava
con i lembi di stoffa, Aleksandros se l’è tenuto
per sé, come sempre.
Poi,
d’improvviso, la fasciatura si sfila via e la ferita
è allo scoperto.
È
un’oscenità
sul suo corpo giovane e forte, un sacrilegio che grida la peggiore
vendetta.
Non
profonda,
perché Philippos l’ha ricucita come e dove ha
potuto; il fulcro, tuttavia, è un
buco di carne cruda, un orrendo occhio rosso spalancato sul fianco. I
contorni
sono gonfi e lividi; la freccia l’hanno dovuta sradicare,
tagliarla via pezzo
per pezzo – così ha detto Philippos. Altri sono
morti per ferite come questa.
“Ah…”
Hephaistion si lascia andare a un guaito di dolore. Con infinita
delicatezza
poggia un dito sul bordo di quell’oltraggio e sospira.
Abbassa la testa e
sfiora la carne mortificata con le labbra, muovendole appena e
assorbendone il
calore innaturale. Lo sente bruciare in gola e negli occhi, assieme al
riflusso
di lacrime che non è ancora riuscito a versare. Poi, rialza
la testa e ricopre
la ferita con le bende, fin quando il tremore nelle dita non cessa e il
pianto
è di nuovo rimesso al suo posto, dietro il confine degli
occhi.
“Alekos,”
cerca di sorridergli, ma il tentativo si infrange in una smorfia.
“Guarda le
cose che fai a te stesso.”
“Io,”
risponde Aleksandros implacabile, “sono un completo
idiota.”
“Sì,
lo sei.”
Gli è uscita con una tale sicurezza, come gli avesse detto
che il cielo è blu,
che Aleksandros non può fare a meno di scoppiare in una
risata. Cauto, però,
perché il buonumore deve costargli un bel po’ con
quel fianco martoriato. Ma
c’è poco da fare, ed è sempre stato
così tra di loro: non hanno mai avuto
bisogno di trattenere i colpi.
“Sono
stato
aiutato nel farmela, questa ferita. Non posso prendermi tutto il
merito.”
Hephaistion
sente il riflusso scuro e feroce della collera risalirgli la gola e
incendiargli la faccia. E qualcosa, di questa brutalità,
deve avere colto di
sorpresa Aleksandros, che infatti ora lo fissa come fosse stordito
– o
spaventato.
Ma negli
occhi legge anche la comprensione – non quella del compagno,
o dell’amico di
una vita. È l’anima dell’amante quella
con cui gli sta parlando, ma è una voce
che non ha mai avuto bisogno di parole.
“L’uomo
che
ha fatto questo…” Persino il tono gli esce nero;
si sente addosso uno sguardo
terribile, ma Aleksandros lo sostiene senza battere ciglio.
“Morto,”
risponde. “Ogni creatura che respirava.”
Questo
per un
attimo lo coglie di sorpresa. Non è qualcosa a cui
l’esercito si abbandona
facilmente – nulla che le truppe di Aleksandros abbiano mai
fatto. Persino a
Tyrus e a Gaza era stata riservata una maggior misericordia. Ma non
erano
andate tanto vicine a uccidere il loro Re, no.
“Non
è stato
dato nessun ordine. I soldati… sono impazziti. E non si sono
fermati.” Nella
vibrazione della voce è evidente che Aleksandros non
l’avrebbe voluto. “Tu che
cosa avresti fatto?” gli chiede a bassa voce.
Hephaistion
si concede una pausa prima di rispondere. Certe cose non si pronunciano
senza
cautela. “Li avrei uccisi.”
“Tutti
quanti?”
“Tutti.
E
quello, in particolare, l’avrei ammazzato
lentamente.”
Aleksandros
sembra lasciarsi avvolgere dalle sue parole e poi farsele filtrare
dentro, fino
ad affondare nella pelle e dietro gli occhi. Non può non
sapere che i suoi
uomini farebbero questo per lui – che l’hanno
già fatto. Forse, è solo un
sacrificio che deve essere compiuto, il prezzo per restargli accanto.
Con la
mano
debole e fradicia di sudore, Aleksandros afferra una delle sue e la
stringe.
Può sentire l’energia nella presa – una
forza inviolabile che come sempre è
pronto a condividere.
“Gli
Dei
abbiano pietà per i miei nemici.”
“Abbiano
pietà per i tuoi amici, vorrai dire.” Hephaistion
gli stinge le dita a sua
volta. Stavolta, il sorriso che sente distendersi sulle labbra gli
sembra più
naturale, o così spera che appaia. Sa solo che gli
è mancato, e che è inutile
cercare le parole per esprimerlo; non è mai stato bravo con
quelle – è
Aleksandros, tra i due, quello dei grandi discorsi. Così
resta in silenzio e
lascia che siano carne e respiro a parlare per lui, le loro mani
intrecciate, e
il fiato che per un attimo viene a mancare.
“È
stato
molto difficile?” domanda Aleksandros dopo la lunga pausa.
“Sono venuto non
appena ho potuto. Quello che voglio dire
però…” sembra lottare con le frasi,
cosa strana per lui. “Le dicerie. Hai creduto
che…”
“No,”
risponde lui pronto. “E sei stato uno sciocco a correre qua
così presto.” Gli
solleva la mano per portarsela alle labbra, così da
soffocare l’affilatura nel
tono. “Io sapevo. Ma…”
“Mi
dispiace.”
“Oh,
Alekos,”
lo interrompe e la voce gli esce strozzata, per quanti sforzi abbia
fatto nel
tenerla a bada. “Temevo di sbagliarmi.”
“Mi
dispiace.”
Hephaistion
gli rivolge un cipiglio che manda lampi. “La vuoi finire di
ripeterlo?”
Aleksandros
ricambia con un tuono. “E tu vuoi chiudere la bocca e
baciarmi una buona
volta?”
Hephaistion
sorride e lo accontenta subito, restando a lungo sulle sue labbra, fin
quando
Aleksandros è costretto a staccarsi per riprendere fiato.
“L’ho
sentito, sai?”
“Certo
che
l’hai sentito,” ansima Aleksandros, rosso in viso.
“Hai la mano proprio lì
sopra.”
Hephaistion
gli rivolge un ghigno divertito e si china a baciarlo di nuovo.
“Non quello,
stupido. La ferita.” Sospira sulle sue labbra, mentre gli
prende la testa tra
le mani, carezzandogli le tempie con i pollici. “Ho sentito
la freccia quando
ti ha colpito. O quando sei caduto, non lo so. Ma era anche dentro di
me.”
Per un
istante Aleksandros tace, si limita a fissarlo prima di allungare una
mano per
sfiorarlo sui capelli. Poi, finalmente: “Philè.”
“Non
farlo
mai più.”
“Ti
ha fatto
male?” Sembra non voler desistere. Vuole sapere – e
la sua espressione è
strana; pare nascondere un mistero a cui non vuole davvero pensare
– o forse
desidera soltanto dimenticare.
Hephaistion
inclina la testa, pensoso. “Non esattamente. Era
più la consapevolezza di
qualcosa che non andava.” Scuote la testa, irritato. Non
è propriamente così,
ma ha sempre avuto difficoltà a mettere in parola il legame
che condivide con
Aleksandros da tutta la vita. Quando erano ragazzi, e aveva cominciato
a
percepire le sue emozioni e i moti del suo cuore, aveva creduto di
essere pazzo.
A ogni
modo
la sua espressione dev’essere abbastanza eloquente per lui,
che annuisce con
sicurezza.
“Anch’io
ero
certo che fossi con me,” dice a occhi socchiusi. Ha ancora
quello sguardo
strano, come se fosse stato colpito dalla violenza di una profezia. O
forse è
solo un segreto che non può rivelare – che non
può, o non vuole.
“Mi
hai
salvato la vita,” dice semplicemente, e sembra non voler
aggiungere altro. Gli
solleva la mano che indossa l’anello con l’effige
solare e se la porta alle
labbra, baciando il rubino. Muove la testa per premerselo contro la
bocca,
soffocando un sospiro.
Se
Hephaistion avesse avuto ancora dei dubbi sul significato delle sue
parole,
quel gesto è sufficiente a cacciare via ogni
perplessità e ad aprire di nuovo
le coltri buie che per un attimo gli hanno avvolto il cuore. Qualunque
cosa
Aleksandros abbia trovato, nel viaggio oscuro e terribile che per
giorni li ha
separati, ha deciso di tenerlo per sé, e gli va bene,
è pronto ad accettarlo.
Può portare il peso di un segreto, ora che il Sole
è tornato a risplendere
sulla sua vita – ed è un fardello piccolo e
immenso, come l’anello che sente di
nuovo bruciare al dito.
“Sai
che non
potrei mai lasciarti andare,” risponde in tono pratico.
“Mai, finché avrò
vita.”
“Patroklos?”
Ora va meglio. Il sorriso che gli rivolge è di nuovo il suo
– caldo e luminoso.
“Patroklos.”
Hephaistion si prende un istante per riaccomodare il cuore nel petto,
una volta
ancora. È così stupido a volte, il suo cuore:
sembra gonfiarsi e contrarsi nei
momenti meno opportuni, così che il torace gli diventa di
colpo stretto e la
gola gli duole. Ma passa dopo un attimo – passa sempre, resta
solo il calore.
Guarda di
nuovo il volto pallido e sudato di Aleksandros e lo racchiude ancora a
coppa
tra le mani, sospirando. “Dormi ora. Hai bisogno di
riposo.”
Fa per
alzarsi ma Aleksandros lo trattiene; l’energia nella sua
presa è sorprendente.
Fino a un attimo prima sembrava che non sarebbe riuscito neanche a
sollevare un
dito, mentre ora lo stringe come se non volesse mai lasciarlo andare.
“Resta
qua.”
È poco più di un sussurro, ma non
c’è bisogno che alzi la voce; Hephaistion lo
sentirebbe sempre e comunque.
Si
riaccomoda
sullo sgabello e gli prende di nuovo le mani nelle sue, ricambiando la
stretta.
“Sempre,”
risponde. “Sempre, Alekos.”
Se i
sacrifici sono qualcosa che deve essere fatto – pensa,
perdendosi di nuovo nei
suoi occhi opachi e insondabili – le promesse sono
ciò che rende dolce il
consacrarsi a questo dio di fuoco e calore, che illumina i suoi giorni.
Chiude
gli occhi
e si china a baciarlo, una volta di più.
Fine
Note:
1)
Come specificato nell’introduzione, questo racconto trae
ispirazione da un
evento realmente accaduto nella vita di Alessandro. Nel 326 a.c.
l’esercito di
Alessandro raggiunge il fiume Hyphasis – odierno Beas
– nel nord dell’India. Al
tempo era considerato il punto più estremo mai raggiunto da
un conquistatore
occidentale, e le truppe, fiaccate dalla lunga campagna e dalle
estenuanti
battaglie contro le popolazioni indigene, si rifiutano di proseguire
oltre,
nonostante il desiderio ardente di Alessandro di passare il confine e
raggiungere quello che al tempo si credeva il ‘grande mare
accerchiante’ che
racchiudeva il mondo.
La
frattura tra il Re e l’esercito sarà violenta, e
questo porterà Alessandro a
rinchiudersi nella sua tenda per giorni, incapace di accettare
l’ammutinamento
dei suoi uomini. La querelle si conclude con la risoluzione di tornare
indietro, verso la Persia, sebbene sia una scelta molto sofferta per
Alessandro, e che non mancherà di rimarcare al suo esercito.
Sulla
via del ritorno, durante la navigazione lungo gli affluenti
dell’Indo,
l’esercito si imbatte nella bellicosa tribù dei
malli, e il Re decide di
soffocare la rivolta violenta degli indigeni, così da
assicurarsi il territorio.
Come specificato nel racconto, Alessandro spedisce una parte
dell’esercito, al
comando di Efestione, verso sud, mentre la restante parte, agli ordini
di
Cratero, rimane indietro, al fine di intercettare i fuggitivi
dell’attacco
frontale che Alessando intende sferrare alla cittadella dei malli,
nella
località conosciuta con il nome di Multan.
L’assedio
si rivela lungo e faticoso, e Arriano narra di come le truppe fossero
restie a
gettarsi nella carica, com’era invece loro costume abituale,
rendendo la presa
della cittadella sempre più laboriosa.
Questo
è alla base del gesto sconsiderato di Alessandro: quando le
scale vengono
approntate sulle mura, e il Re si rende conto che i soldati non sono
pronti
come sempre a gettarsi a capofitto sull’obbiettivo, decide di
dare l’esempio, e
si arrampica da solo in cima a una delle scale, saltando dentro le mura
brulicanti di malli. Sempre Arriano racconta di come
l’esercito pare
riscuotersi di fronte a quell’atto di coraggio estremo e,
preoccupati per le
sorti del loro Re, si affastellano sulle scale per seguirlo
immediatamente. Il
peso fa crollare le rampe, con i soldati al seguito, e Alessandro si
trova
isolato sull’altro lato, ricevendo la freccia nel polmone,
che per poco non lo
uccide. È tratto in salvo da Perdicca, e dal resto dei
soldati, che in breve
tempo l’hanno raggiunto, ma giacerà in coma per
giorni, tra la vita e la morte.
L’aneddoto della lettera e della discesa del Re lungo il
fiume, dopo pochi
giorni, risponde a verità, come lo è il suo
fingersi per qualche istante morto,
per poi alzare il braccio, acclamato dai soldati.
2)
Cratero è uno dei generali più prominenti nel
gruppo di collaboratori di
Alessandro, e la sua acrimonia nei confronti di Efestione –
peraltro reciproca
– è ben documentata. Cratero era un uomo fidato e
un valido soldato, ma era un
macedone vecchio stampo, molto scettico nei confronti della fusione
attuata da
Alessandro tra persiani e macedoni, e che invece Efestione aveva
appoggiato fin
dall’inizio. Questo, oltre alle differenze caratteriali, ha
portato i due a
scontrarsi più volte, tanto che le fonti riportano di un
alterco
particolarmente acceso, che il Re in persona è dovuto
intervenire a sedare,
ricorrendo alle minacce. Dopo questo episodio non ci sono
più menzioni di litigi
tra i due uomini, ma in una situazione come quella descritta dal
racconto, ho
ipotizzato che, con Alessandro lontano, potesse essersi manifestata una
recrudescenza dell’astio esistente tra loro, come infatti ho
descritto.
Un
dettaglio interessante è il modo in cui Alessandro era
solito appellare
entrambi: se Efestione era philalexandros
(l’amico di Alessandro), Cratero era chiamato philobasileus
(l’amico del Re), a sottolineare la differenza
profonda nel tipo di rapporto. Alla luce di questo va colto il rimarco
che
Efestione rivolge a Cratero nel capitolo quattro.
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