Mycroft 1969 Sherlock 1976
Crew&Ship: Mycroft
Holmes, Sherlock Holmes | Holmes!Brotherhood Warning: nessuno in particolare Note: uno dei miei kink supremi, in fatto di serie
tv, libri e quant'altro, è quello della fratellanza. Datemi
un rapporto tra fratelli e sarò eternamente vostra. E quello
tra Mycroft e Sherlock penso sia uno dei più belli e
articolati e ambigui in cui abbia mai avuto la fortuna di
incappare. Questo rapidissimo excursus si è praticamente
scritto da solo, nell'arco di qualche giorno. Va da quando
Sherlock ha un anno fino alla prima puntata della prima
serie. Per pura comodità personale, ho considerato il 1976
come anno di nascita di Sherlock (che poi è anche l'anno di
Cumberbatch *wink*) e il 1969 come quello di Mycroft,
rifacendomi alla canonica differenza di sette anni. Non mi resta che augurarvi una buona lettura!
___
Tarda primavera 1977, campagna del Devonshire (Uno e otto anni)
Per essere una creatura così piccola, pensa, è
sorprendentemente irritante.
"Affo!"
Irritante e stupida.
"È
Mycroft," gli fa notare, poggiando Il buio oltre la siepe
sulle ginocchia. Il piccolo Sherlock ha i riccioli
spettinati e sudati, incollati alla fronte, sbaffati di
quello che ha tutta l'aria - e l'odore - di essere fango.
Mycroft scuote piano la testa e storce il naso in una
smorfia disgustata.
"Affo!"
ripete e cerca di arrampicarsi sulle sue ginocchia,
stampando piccole impronte fangose sui pantaloni di velluto.
Mycroft si alza, si allontana; ne ha abbastanza di farsi
rovinare i vestiti da quel gattino rognoso.
Sherlock, però, non apprezza la sua ribellione. È in quella
fase della vita in cui è convinto che tutto debba obbedire
al suo volere; i disertori non avranno che urla furiose e
lacrime arrabbiate.
"Affo!"
lo ripete con più determinazione, è un grido di battaglia
mentre si regge al divanetto di vimini e fa affidamento
sulle gambe piccole e tozze e fragili, ancora inadatte a
sorreggere il peso di una camminata. Ma, come tutti i
bambini, Sherlock è spericolato; osa, rischia, chissà come
riesce a infilare nelle scarpe un paio di passi, ma poi si
piega troppo in avanti e la gravità lo reclama, lo
scaraventa contro il pavimento e solo le braccia svelte di
Mycroft frenano la caduta. Le manine di Sherlock artigliano
lembi della sua camicia, la sporcano e la sgualciscono. È
irritato, è già la terza camicia da gettare in lavatrice, ma
le sue braccia sono ferme e le dita ben solide intorno al
vitino sottile del bambino. Non sa ancora che è la prima di
una lunghissima serie di salvataggi. Non sa ancora che,
molti anni dopo, avrà abbastanza potere da controllare dalle
ombre quel suo fratellino che continuerà a rischiare e
inciampare - non sa che a volte, però, le sue braccia non
saranno lì a sorreggerlo.
Mycroft non sa nulla di quello che sarà il suo futuro da lì
a quarant'anni mentre solleva Sherlock di peso - un peso
misero, che si tiene bene nella curva di un gomito - e lo
lascia sulla poltroncina di vimini.
"Affo,"
lo chiama e aggiunge qualcosa in quella lingua sputacchiante
e gorgheggiante dei marmocchi della sua età. Poi, senza
alcun motivo apparente, si afferra un lembo della maglietta,
indica la papera che vi è stampata sopra e ride, ride, ride
come se fosse la cosa più bella di sempre, mentre guarda
Mycroft, come per condividere quell'improvviso scoppio di
ilarità.
"Sei proprio stupido," attesta Mycroft, recuperando il libro
che ha dovuto gettare per terra. Batte qualche pacca sulla
copertina, piccoli granelli di terra rossa ruzzolano sul
pavimento del patio. Fa per andarsene, ma poi pensa che
lasciarlo lì significa condannarlo a morte - tenterebbe
sicuramente di scendere e poi chi la sentirebbe la mamma?
Grida già abbastanza, da quando Sherlock è venuto al mondo.
Rischiando, stringe bene il libro e prende il fratellino tra
le braccia, portandolo al sicuro, dentro casa. Perché
Sherlock è piccolo e irritante, ma il sangue gli impone di
averne sempre cura.
Aprile 1980, Mayfair (Quattro e undici anni)
"Sherlock, dove hai nascosto il mio libro?"
Ma
Sherlock fa un sorrisetto storto e ciondola un po' sulla
punta delle scarpe, come un uccellino pronto a spiccare il
volo se il gatto dal pelo arruffato dovesse avvicinarsi
troppo. È il suo ultimo gioco preferito: prendere
oggetti cari a Mycroft e nasconderli in giro per la grande
magione. Un modo come un altro per ottenere l'attenzione di
un fratello maggiore che cresce e cambia interessi troppo
in fretta per i suoi gusti. Adesso che riesce finalmente a
correre e parlare, ha disperatamente bisogno di qualcuno con
cui riempire il proprio tempo. Poco importa se suo fratello
non è dello stesso avviso; inizia a non essere più un
problema, perché, ha scoperto, con la giusta dose di
insistenza può ottenere tutto. E poi, nascondere le cose
funziona di gran lunga meglio degli strilli e dei capricci.
"Se
non me lo dici, sarò costretto a chiamare il vento
dell'est."
Sherlock drizza la testa aggrotta la piccola fronte; non ha
mai sentito parlare di quel vento, né ha mai saputo che
Mycroft fosse capace di chiamarlo. Quella nuova abilità di
suo fratello lo fa sprofondare in una sorta di timore
reverenziale che lo spinge a fare inconsciamente un passo
indietro mentre pende dalle sue labbra per farsi raccontare
una storia che chiaramente desidera ascoltare.
"È
una forza spaventosa, Sherlock," sussurra, la voce che quasi
sibila come uno spiffero, mentre il vetro della finestra
alle sue spalle trema, come a conferma delle sue parole.
"Distrugge ogni cosa che incontra sul suo cammino e strappa
via coloro che non sono degni di vivere sulla Terra. Gli
assassini, i ladri, i disonesti... i fratellini che
nascondono le cose," aggiunge e la sua espressione è così
costernata che Sherlock sussulta e si agita sul posto. Non
vuole che Mycroft chiami il vento dell'est, non vuole essere
portato via.
"Tu
non vuoi che il vento ti porti via, vero, Sherlock?" chiede,
echeggiando i suoi pensieri. E Sherlock nega, scuote forte
la testa, con i riccioli che gli rimbalzano sulla fronte.
Certo che non vuole essere portato via!
"Allora ridammi il libro e giura che mai più mi nasconderai
qualcosa," lo invita, "altrimenti..." e va alla finestra,
poggiando una mano sulla maniglia. Gli occhi verdi di
Sherlock sono grandi come piattini mentre si incollano alle
sue dita che fanno leva per aprire la finestra. Trattiene il
fiato, la serratura sta quasi per scattare...
"Giuro!" grida. "Giuro! Giuro!"
Mycroft aspetta un momento, poi la maniglia torna al suo
posto. Il vento dell'est, furioso per la vittima negata, si
addensa contro il vetro, scuotendolo forte. Sherlock corre
via, perché se non lo vede non lo potrà prendere.
Mycroft guarda la porta e, con tutta l'esasperazione che
permettono i suoi undici anni, solleva gli occhi al cielo,
aspettando che Sherlock torni con il suo libro.
Natale
1983, Mayfair (Sette e quattordici anni)
"È
uno scherzo?"
Violet Holmes gli scocca un'occhiata storta e seccata mentre
annoda il fiocco azzurro.
"Non è affatto una buona idea."
"Piantala, Myc," lo rimprovera e solleva il cucciolo di
cocker dal pelo color cioccolato davanti al viso, piegando
un po' la testa di lato come per osservarlo meglio.
"Mycroft,"
la corregge automaticamente e occhieggia con aria critica il
cane. Conosce Sherlock, conosce la maniera assoluta e
drastica in cui affronta ogni cosa, inclusi i rapporti
affettivi; quel cane potrebbe subire decine di fati diversi
che portano tutti all'inevitabile separazione e non è
decisamente ciò di cui ha bisogno suo fratello. Il cuore di
Sherlock è ancora intatto; non conosce il dolore del
distacco. Mycroft vorrebbe che non lo sperimentasse mai.
La
verità è che vorrebbe proteggerlo anche e perfino da
se stesso, perché Sherlock è testardo e irritante, è vero,
ma è anche piccolo e buono. Si sente un po' a disagio con
quel pensiero, come una camicia che cade larga sulle spalle,
come quel ragazzo che gli ha detto ciao e lui ha
risposto con un secondo di ritardo. Come fa con tutte
le cose che lo imbarazzano, o che non riesce del tutto a
scrollarsi di dosso, lo mette da parte, in una camera buia,
dove non possono guardarsi in faccia.
Quattro ore dopo, Sherlock sfila il coperchio di una scatola
tonda e un musetto gli lecca le dita che sanno ancora di
zucchero e miele.
Mycroft manda a memoria l'espressione del suo viso, perché
la sente importante, perché la sente un po' sua, perché ne è
geloso e non vuole che il tempo gliela scippi. E Sherlock
ride, ride, solleva il cucciolo e cadono insieme sul
tappeto, lui di schiena, il cane sul suo petto, che morde,
graffia e lecca.
Violet e Siger ridono. "Come vuoi chiamarlo, tesoro?"
Ah,
è una domanda importante, quella. Mycroft lo capisce dal
modo in cui lentamente si rimette a sedere, dal modo in cui
le dita si chiudono sotto le zampe del cane e lo sollevano
davanti al viso, dal modo in cui lo gira e rigira, come fa
con uno dei suoi insetti che si diverte a studiare e
catalogare. Dal modo in cui, alla fine, se lo stringe al
petto, gli accarezza un orecchio dal pelo arricciato e
guardando Mycroft dice: "Redbeard."
Redbeard, come il pirata di cui qualche volta gli ha
raccontato, quando nessuna carezza e nessun gioco consolava
il suo pianto disperato. Redbeard, come l'imperatore che ha
studiato in prima media, come le pagine di quel libro di
storia che ha letto a Sherlock, seduto ai suoi piedi, a
gambe incrociate e la schiena un po' protesa in avanti come
per sentire meglio.
Redbeard.
Oh, Sherlock.
Maggio 1987, Mayfair (Undici e diciotto anni)
"Fa' scendere quella bestia dal mio letto, subito."
"Quella
bestia ha un nome, lo sai?" ma ciononostante, Sherlock
si china e prende Redbeard tra le braccia. Sussurra qualcosa
al suo orecchio, gli schiocca un piccolo bacio sulla sommità
della testa e lo adagia sul pavimento, dove il cane è libero
di masticare uno dei vecchi fumetti di Mycroft.
"Perché sei qui?"
"Ti
aspettavo," ribatte un po' sulla difensiva, sedendo a gambe
larghe sul pavimento e Redbeard ne approfitta
immediatamente, poggiandogli le zampe anteriori in grembo e
protendendo il collo per potergli leccare le orecchie.
Sherlock ride e poi lo tiene così, con le braccia intorno al
collo, perché quella è la posizione che il cane preferisce,
l'unica che riesce a calmarlo.
"E
dunque? Ho un test molto importante, domani, sii rapido."
"Domani c'è il campionato di scacchi."
Ovvietà, ovvietà: non c'è altro che suo fratello sappia
dire. Ha già undici anni ma non una parte della sagacia che
lui aveva alla sua età. C'è del materiale su cui si
potrebbe lavorare, ovviamente, ma Sherlock gli sembra così
lento e lui ha sempre così poco tempo e poca pazienza che la
sola idea di aiutarlo in una cosa qualsiasi gli strappa un
gemito di impazienza.
"Quale parte di sii rapido non hai capito? Non
calcare sulla tua stupidità, Sherlock, perché ti assicuro
che quella che appare non è poca."
Il
ragazzino scatta in piedi, sorprendentemente alto per i suoi
undici anni; stringe i pugni e si morde le labbra mentre le
sfumatura delle guance vira verso un rosa acceso, che fa
sembrare i suoi occhi più verdi, più vividi, più liquidi.
"Io
non sono stupido!" esplode, ma la nota di incertezza che
s'infila tra le ultime sillabe è la sua condanna.
"Era una domanda? Suonava come una domanda."
Sherlock ha un sussulto piccolissimo e l'aria di chi è
appena stato preso a schiaffi senza alcun motivo. Mycroft ha
un sussulto piccolissimo e l'aria di chi si sta frugando nel
cervello per sanare il rimorso che dilaga in petto, come
acqua nera che sgorga da una fenditura che non riesce ad
individuare.
Senza dire una parola, senza voltarsi, Sherlock raccoglie
Redbeard e va via a passo lento, come se Mycroft non
l'avesse mai ferito. E Mycroft, che guarda sempre con
estrema compiacenza alla propria intelligenza e alla propria
intuitività, adesso vorrebbe solo essere sagace abbastanza
da trovare il modo di tornare dietro la linea che ha
inavvertitamente oltrepassato.
Continua a cercarlo anche il giorno dopo, mentre varca la soglia della sala
e prende posto in prima fila, gli occhi puntati sulla
figuretta un po' curva di suo fratello, i cui occhi indagano
placidamente la scacchiera, alla ricerca della mossa
vincente. Mycroft studia la posizione dei pezzi e sente il
cuore sprofondargli un po'; l'avversario lo ha incastrato.
Qualunque pezzo muoverà, avrà una contromossa da manuale.
Di
punto in bianco, pensa che Sherlock è solo un ragazzino a
cui piace gironzolare nel bosco dietro casa e raccogliere
insetti per il gusto scientifico di poterli studiare, che
una volta ha rischiato seriamente la vita, scivolando da un
albero particolarmente alto, e solo la sua mano ha evitato
l'impatto. Ricorda il brivido di paura che gli ha inarcato
la schiena mentre le braccia tentavano di tirarlo su senza
sbilanciarsi troppo, perché le sue gambe iniziavano a
perdere la presa e i muscoli a vibrare di stanchezza. Ma
ricorda anche il sollievo che gli ha riempito la pancia
quando, con un ultimo strattone, se l'è tirato addosso,
stringendolo come un cucciolo.
Non
ha idea del perché ci stia ripensando adesso - è accaduto
diversi anni fa - ma poi ci arriva. È la sua espressione,
l'espressione disperata e terrorizzata di chi sta per
cadere.
Mycroft stringe le dita sul cappello che tiene in grembo, le
affonda nel tessuto morbido per imporsi di restare calmo,
concentrato, vigile.
E
poi succede qualcosa di meraviglioso. Sherlock sospira,
sorride e si rilassa, perché ha notato quello che è sfuggito
a tutti, anche al suo avversario, anche a lui. Muovendo il
cavallo, semplicemente muovendo quel pezzo, l'alfiere che
sta a guardia del re è fuori dai giochi, il sovrano esposto
e vulnerabile. Nessuna mossa sarà capace di salvarlo.
Il
re cade al suono di uno scampanellio che indica la fine
dell'incontro. L'avversario è ancora sgomento, non capisce
come abbia potuto incappare in un errore così grossolano;
Sherlock ha gli occhi di chi è stato tirato su e salvato. E
Mycoft... be', Mycroft è ancora positivamente sconvolto.
Suo fratello non è stupido - non lo è mai stato - ma
incredibilmente sagace. Quanto lui, probabilmente, ma in
maniera diversa. Complementare, magari.
Lentamente, i suoi occhi verdi frugano la folla, fissandosi
poi su di lui. C'è una domanda, che poi è una provocazione,
una sfida.
Sono stupido?
Mycroft, per la prima volta dopo tanto tempo, si lascia
andare ad un sorriso spontaneo.
Estate 1990, Mayfair (Quattordici e ventuno anni)
Il
cuore di Sherlock si spezza alle dieci e mezzo del mattino.
L'ago penetra sotto una coltre di pelo rosso e riccio. La
coda dà un'ultima pacca al tavolo. Redbeard muore dormendo.
L'hanno chiamata misericordia, l'hanno chiamato cancro.
L'hanno anche chiamato amore.
L'ultima carezza alla testa che è cresciuta vivendo nella
curva della sua mano, che è cresciuta insieme a lei, l'ultimo
bacio all'orecchio che rigira per l'ultima volta - quelle
orecchie non stavano mai al loro posto; Sherlock ha passato
la vita a sistemarle, facendole poi scorrere lentamente tra
le dita. L'ultimo
fronte contro fronte - il pelo non è già più così caldo.
Mycroft ha scavato la fossa. Nessuno gliel'ha chiesto, ma
nessuno gliel'ha impedito. Semplicemente, lo hanno lasciato
fare, perché devono aver capito che ha vissuto gli ultimi
quattordici anni in funzione di quel singolo momento.
Avvolto nella felpa preferita di Sherlock, Redbeard viene
adagiato sul fondo della tomba. Adesso sarà veramente per
sempre.
"Affezionarsi non è un vantaggio," sussurra Mycroft
a nessuno in particolare e la sua
mano sfiora una ciocca di pelo sfuggita al cotone, l'ultima
carezza ad un cane che ha deliberatamente chiuso fuori per
non restare lui stesso intrappolato dentro. Adesso vorrebbe
che Sherlock avesse fatto lo stesso, perché non sopporta la
maniera in cui le sue spalle cascano in avanti, inermi e
vulnerabili e abbandonate.
"No," conferma Sherlock, ma la sua voce è acuta e i suoi
occhi liquidi. "No, non lo è."
Per
la prima e ultima volta, appoggia la testa alla sua spalla e
restano così, inginocchiati sull'orlo di una tomba che non
riescono a chiudere.
Febbraio 1993, Covent Garden (Diciassette e ventiquattro anni)
Il
primo istinto che gli riempie la mano è quello di colpirlo
forte sulla guancia. Il secondo, chiuderla sul bavero del
suo giubbotto e tirarlo in piedi. Fortunatamente per
entrambi, prevale il buon senso e Mycroft costringe Sherlock
a raddrizzarsi. La panchina gli ha anchilosato i muscoli, il
cappuccio scivola via e rivela ricci scuri, sporchi e
arruffati. Gli occhi sono piatti, opachi e
arrossati.
"Ascoltami bene, Sherlock, perché non te lo dirò una seconda
volta. Se vuoi che questo resti tra noi, giura che in
qualsiasi posto sarai, qualsiasi cosa avrai preso, giura che
mi chiamerai."
Sherlock non dà alcun segno d'aver capito, o anche solo
ascoltato. Il ceffone che segue è quasi automatico, e allora
lo vede sbattere gli occhi, rimettere a fuoco la vita sotto
cui si era addormentato e sembra quasi sorpreso di
trovarselo lì, davanti, in piena notte a Covent Garden.
Farfuglia il suo nome, ma viene fuori così distorto che non
può che garantirgli un secondo schiaffo.
"Giura, Sherlock."
E
Sherlock lo fa. Giura che lo chiamerà - o qualcosa che ci si
avvicina molto. Mycroft deve farsi bastare la parola di un
drogato, che ai suoi occhi ha meno valore della promessa di
un cleptomane di non rubare più. Non è granché, ma è pur
sempre qualcosa; inoltre, inizia a disporre di una quantità
di potere e favori tali da poterlo, forse, tenere in vita
ancora per qualche decennio - si augura.
Poi
la rabbia fluisce via come l'alta marea e resta solo
l'infinita pena per un fratello che, da quando è cresciuto,
vive nell'ossessione della rivalità fraterna,
nell'ossessione di dover tenere il punteggio e dimostrargli
di essere migliore. Anche a costo di assuefarsi a solo Dio
sa cosa. Non ha mai voluto questo; gli anni della loro
infanzia, le loro scaramucce, i loro bisticci, le loro
cattive parole... Non ha mai voluto che, oggi, sfociassero
in questo mare di risentimento e rivalità.
Non
ha mai voluto altro che il suo bene, ma ha finito solo per
ottenere l'esatto contrario.
"Torniamo a casa, fratellino."
Ma
mentre lo carica di peso su un taxi e fornisce l'indirizzo,
Mycroft capisce che non c'è più niente a cui far ritorno;
vivono in due universi paralleli e destinati a non
incontrarsi mai (più).
Novembre 2010 (Trentaquattro e quarantuno anni)
Per
Mycroft Holmes una giornata non è realmente finita fin
quando il nodo alla cravatta non viene disfatto. E quella,
pensa stancamente, è stata una giornata molto, molto lunga;
gli ha consegnato un bagaglio molto pesante di cose a cui
dovrà pensare, cose di cui si dovrà occupare, perché nessuno
può entrare nella vita di suo fratello e restarci senza il
suo consenso.
John Watson, d'altra parte, non sembra un uomo di cui dover
dubitare. È uno di quei pochi, affascinanti esseri umani
capaci di vivere in superficie, alla luce del sole, lontani
dagli abissi entro cui celarsi. Non è ancora pienamente
convinto delle motivazioni che lo legano a Sherlock, di
quella lealtà così repentina, ma il colpo che ha salvato la
vita del suo sciocco, sventurato, spericolato fratello è
partito dalla sua arma, e qualcosa dovrà pur dire.
Di
punto in bianco, però, ricorda che Sherlock è sensibile a
chi vive in superficie.
Chi
vive in superficie ha un modo tutto suo di entrargli nel
cuore e lì radicare.
Il
ricordo abbagliante di un cucciolo dal pelo color cioccolato
scava una ruga profonda nella sua fronte. Un cuore che è già
stato spezzato non può subire ulteriore danno; ma, al
contrario, può essere riparato e distrutto una seconda
volta.
E
Mycroft torna a saggiare sulla pelle l'antica preoccupazione
per Sherlock.
Compone un numero, dice Sono io, dice Tenga
d'occhio quel Watson, voglio rapporti settimanali regolari.
Lo consideri un ordine, dice Buonanotte, ispettore.
Ma
è un commiato a senso unico.
Il
nodo alla cravatta deve aspettare.
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Note finali: 1. Mayfair è dove ho scelto di far vivere la famiglia
Holmes; sono una famiglia indubbiamente benestante e trovo
che uno dei quartieri più ricchi e prestigiosi di Londra
possa andar sufficientemente bene. 2. Violet e Siger sono i nomi che il fandom anglofono
attribuisce ai genitori di Sherlock e mi piacciono
abbastanza da usarli a mia volta. 3. La storia del vento dell'est viene citata da Sherlock
nelle ultime scene della 3x03, His Last Vow.
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