Questa storia si ispira
ai prompt “child!Katniss/Mr. Everdeen – ‘tu ci sarai sempre, papà?’”
propostomi da Giraffetta e “Katniss/Peeta - Eppure,
per quanto
cercasse di convincersi del contrario, niente sarebbe più tornato come prima.”
proposto da Amortentia2610. La prima parte è ambientata durante
l’infanzia di Katniss, mentre la seconda è ambientata dopo la Rivolta, con
Peeta e Katniss che vivono già insieme.
Hay
Meadow
Il sole era ormai sul punto di tramontare, quando Katniss e
suo padre raggiunsero il Prato, mano nella mano. Qualche raggio di luce
ritardatario dorava ancora le chiome degli alberi in lontananza e il vento
giocherellava con i capelli della bambina, costringendola ad aggrottare le
sopracciglia di continuo.
Il signor Everdeen sorrise, quando se ne accorse.
“Al vento, ogni tanto, piace fare i dispetti” scherzò,
scostando con dolcezza un ciuffo nero dal volto della figlia.
Katniss abbozzò un sorriso.
“Ci sediamo qui?” chiese, quando raggiunsero un punto al
centro del Prato. L’aria era tiepida nonostante il tempo e la ragazzina non
aveva ancora voglia di tornare a casa. Le passeggiate con suo padre la
divertivano così tanto ed erano così poco frequenti, che se solo avesse potuto
le avrebbe fatte durare per sempre.
“Perché no?” acconsentì Caleb Everdeen, accovacciandosi
nell’erba. Katniss si strinse le ginocchia al petto e appoggiò la testa sulla
spalla dell’uomo.
Rimasero in silenzio per qualche istante, troppo occupati a
godersi la serenità di quel momento per parlare.
“Il Prato c’è sempre stato?” chiese infine Katniss,
inseguendo con lo sguardo un uccellino che zampettava poco distante.
Caleb si fece scorrere fra le dita un filo d’erba, mentre
rifletteva sulla domanda.
“Sì e no” rispose, prima di portarselo alle labbra e
soffiare: un suono tremulo e acuto si unì al rumore del vento, facendo
sorridere Katniss; suo padre riusciva a far cantare qualsiasi cosa, inclusi gli
oggetti.
“Un tempo era più grande e ci facevano il fieno: sai, prima
che diventassimo tutti minatori. Ma ti sto parlando di migliaia di anni fa; a
quei tempi, il Prato era spesso pieno di covoni di fieno e i bambini li usavano
per i loro giochi. Di volta in volta potevano diventare misteriosi nemici da
combattere o montagne da scalare.”
“Davvero?” chiese conferma Katniss, tornando ad aggrottare
le sopracciglia: le veniva difficile immaginare un tempo lontano in cui gli
abitanti del Giacimento non erano tutti dei minatori.
Il padre annuì.
“Sai,
c’era un’usanza tra quelle genti, ogni volta che veniva costruito un nuovo
covone di fieno. Quando una banda di bambini lo avvistava doveva corrergli
incontro e il primo che riusciva a toccarlo avrebbe avuto un’annata fortunata:
per un intero anno, si diceva, la sua famiglia avrebbe avuto il raccolto
migliore del villaggio.”
Katniss concentrò lo sguardo sulla striscia di Prato che
aveva di fronte; cercò di immaginarla ancora più estesa e rigogliosa e vi
disegnò dentro con la mente una fila di mucchi di fieno. Le venne facile, poi,
immaginare un gruppo mal assortito di ragazzetti con i calzoni corti e lo
sguardo entusiasta che scorrazzava fra i covoni. Bambini come quelli che
ciondolavano nel Prato tutti i giorni dopo la scuola e magari altrettanto
sporchi e scombinati, ma con i volti più pieni, più rosei. Più felici.
“Sarebbe bello avere ancora i mucchi di fieno, qui” osservò,
tornando ad appoggiarsi alla spalla del padre. La luce si stava assottigliando,
e le loro ombre incominciavano a stagliarsi di fronte a loro: così vicine, a
Katniss sembravano quasi parte di una persona sola. “A Prim piacerebbero.”
“Anche tu ti ci divertiresti” rispose Caleb, accarezzandole
i capelli. “Le potresti usare per allenarti al tiro con l’arco” scherzò poi,
indirizzandole un’occhiata d’intesa.
L’espressione di Katniss si fece tutto a un tratto più tesa.
“Non ce lo lascerebbero fare, papà” sussurrò, dandosi una
rapida occhiata intorno.
Lo sguardo generalmente sereno di Caleb si rabbuiò appena.
“Però immaginare non costa niente, Katniss. Giusto?”
Fece un’altra carezza sul capo della ragazzina, che annuì.
Incominciò a canticchiare fra sé un motivetto privo di parole, riprendendo a
giocare con il filo d’erba che aveva in mano. Tutto a un tratto smise di
mugolare e tornò a sorridere.
“Voglio insegnarti una canzone” mormorò, appoggiando i
gomiti alle ginocchia e indicando un salice solitario a diversi metri da loro.
“È una ninnananna, mia madre me la cantava spesso quando ero piccolo. Si sedeva
proprio là, in quel punto: sotto il salice. E anch’io, qualche volta, l’ho
cantata a te. ”
L’ombra d’irrequietezza che aveva velato per qualche istante
lo sguardo di Katniss sfumò. Dopo le passeggiate con il padre, la seconda cosa
che preferiva al mondo era sentirlo cantare: nessuno riusciva a farlo bene come
lui.
Annuì e si sdraiò nell’erba, per potersi godere al meglio la
canzone. Caleb sistemò al suo fianco e, rimanendo appoggiato sui gomiti,
incominciò a cantare: il suo sguardo si era fatto distante, quasi stesse
recuperando le parole della ninnananna da qualche posto lontano.
“Là in fondo al Prato, all’ombra
del pino
C’è un letto d’erba, un soffice
cuscino
Il capo tuo posa e chiudi gli
occhi stanchi
Quando li riaprirai, il sole
avrai davanti.”
Katniss socchiuse gli occhi, cullata
dalla voce dolce e profonda del padre. Era certa di aver già sentito quella
melodia – probabilmente Caleb doveva averla cantata anche a Prim – ma quella
era la prima volta in cui sentiva di caprine davvero il significato.
Accoccolata nel Prato, di fianco al suo
papà, accarezzata dalla sua voce e dal soffiare giocoso del vento, si sentì
tutto a un tratto davvero felice e senza paura. Si sentiva al riparo, nascosta
dai momenti difficili e dalle cose brutte che succedevano tutti il giorno al
Distretto 12. Si sentiva libera di dormicchiare senza temere gli incubi, di
giocare senza dover pensare ai pochi soldi che avevano o al papà che lavorava
in un posto pericoloso come la miniera.
“Qui sei al sicuro, qui sei al
calduccio
Qui le margherite ti proteggon da
ogni cruccio,
qui sogna dolci sogni che il
domani farà avverare
Questo è il luogo in cui ti voglio amare.”
Quando
Caleb smise di cantare, il vento prese a soffiare più forte, quasi si fosse
trattenuto fino a quel momento per non coprire la sua voce.
Katniss
riaprì gli occhi e cercò lo sguardo del padre, sorridendo quando le dita
dell’uomo le sfiorarono con dolcezza la fronte.
“Tu
ci sarai per sempre, papà?” si sorprese a domandare all’improvviso, una punta
di insicurezza negli occhi.
Caleb
non rispose subito. Continuò ad accarezzare i capelli della bambina, mugolando
la melodia della ninnananna.
“Sempre” confermò infine, infilando le
mani nelle tasche del suo giaccone da caccia. “Fino a quando il Prato crescerà
e ti ricorderai di me, io sarò al tuo fianco. Ti ricordi, come dice la
ninnananna?” chiese poi, tirandosi a sedere. “Qui sei al sicuro, qui sei al calduccio
Qui le margherite ti proteggon da
ogni cruccio…”
“Qui
sogna dolci sogni che il domani farà avverare…” proseguì Katniss, abbozzando un sorriso:
riusciva sempre a memorizzare in fretta le canzoni che le cantava il padre. “…
Quello è il luogo in cui ti voglio amare.”
Caleb
annuì.
“Esatto”
confermò. “E quel luogo è il Prato.”
Il
sorriso di Katniss si allargò.
“E
adesso chiudi gli occhi, bambina mia…” le sussurrò a quel punto Caleb in un
orecchio, solleticandole il collo con il fiato. La ragazzina ridacchiò. “… Che
cosa vedi?”
Katniss non era brava a immaginare cose che non c’erano:
riusciva a farlo solo quando gliele avevano raccontate, specialmente se era
stato suo padre a parlargliene, ma non quando era lei a dover inventare.
Eppure,
quella sera, non dovette fare alcuno sforzo per fantasticare.
“Ho
appena visto un nuovo covone di fieno nel Prato…” rispose, strizzando più forte
gli occhi. “Sto correndo e gli altri bambini del Giacimento mi stanno dietro.
Io però sono più veloce: ci arrivo per prima e…”
Sorrise,
prima di infilare una mano dentro quella del padre: Caleb gliela strinse.
“… E dietro al fieno, ci sei tu.”
***
Il sole era ormai sul punto di tramontare, quando
raggiunsero il Prato, mano nella mano. Qualche raggio di luce ritardatario dorava
ancora le chiome degli alberi in lontananza e il vento giocherellava con i
capelli della donna, costringendola ad aggrottare le sopracciglia di continuo.
Non erano cambiati poi molto rispetto a quando era bambina:
né il Prato, né lei.
C’era stato un tempo in cui il tappeto d’erba che la
circondava in quel momento era andato perduto: i bombardamenti l’avevano
distrutto, e al suo interno era stata scavata una fossa.
Tutti i morti giacevano lì sotto, adesso, eppure quel posto
sembrava tutto fuorché un cimitero: i fiori e l’erba continuavano a crescere,
più rigogliosi che mai.
Katniss sfiorò un bocciolo di primula ancora chiuso con il
dorso della mano: le piacevano i fiori non ancora aperti. Avevano l’aria
fragile, delicata… Andavano protetti, custoditi.
Specie le primule… Sì, soprattutto le primule.
Una vecchia ninnananna le accarezzò la mente e, nonostante
la melodia fosse dolce, quel ricordo le fece male. Non cantava più da tempo,
ormai: anni, forse. Il suo era stato una sorta di voto suggellato inconsciamente.
Cantare le ricordava tutte le persone che aveva perso; come suo padre, come sua
sorella. Come se stessa.
Cercava di pensare che le cose stessero gradualmente
tornando alla normalità, per questo andava spesso al Prato. Perché da quando
gli abitanti del Distretto si erano messi d’impegno per prendersene cura aveva
incominciato a diventare ogni giorno più simile al luogo descritto dalla
ninnananna di suo padre.
Era tutto come nella canzone, tutto come sempre, eppure… Eppure,
per quanto
cercasse di convincersi del contrario, niente sarebbe più tornato come prima.
Perché, anche se il Distretto 12 era stato ricostruito, la
maggior parte delle persone che ci vivevano per Katniss erano delle
sconosciute. Perché, nonostante vivesse ancora nel Villaggio dei Vincitori con
Peeta e Ranuncolo, ogni stanza della sua casa era stata svuotata delle voci di
sua madre e di Prim. Ogni camera era stata ripulita della loro presenza e il
peso di quell’assenza feriva più dei segni fisici che ancora portava addosso e
che non sarebbero mai scomparsi.
E tuttavia, a cambiare le cose più di tutto, era un
cambiamento minimo, appena percettibile. Era un’incurvatura morbida sulla
pancia di Katniss.
Era la presenza di qualcuno all’interno del suo ventre, che
impediva la fluidità dei suoi movimenti.
Era qualcosa che le provocava terrore – un terrore antico
quanto la vita stessa.
Lei si era fatta strada fra i suoi dubbi da
poco più di quattro mesi. Katniss era sempre stata decisa a non avere figli,
eppure, adesso che lei c’era e che non era più una semplice idea o una
vaga possibilità, ma una presenza concreta, sapeva che non avrebbe mai permesso
a nulla di ferirla. Che era compito suo custodirla con cura, non solo dal
mondo, ma anche da se stessa.
Lei c’era, e Katniss stava imparando ad
accettarla come qualcosa di inevitabile, a cui non ci si può opporre, perché è
giusto così, va bene così.
Un po’ come era accaduto con Peeta, che in quel momento era
seduto assieme a lei sotto il salice e le teneva la mano; ogni tanto rinsaldava
la presa sulle sue dita, come a volerle ricordare la sua presenza. Come per
sottolineare che erano in due a condividere quel fardello così grande, – ma
così importante, così bello – quel pancione che tanto spaventava Katniss.
Voleva ricordarle che erano assieme ancora una volta , a fare squadra per
proteggersi – per proteggerla– proprio come quella prima volta
nell’Arena, con addosso nient’altro che la paura e un esasperato istinto di
sopravvivenza.
E non era facile neanche per lui, Katniss lo sapeva. Però
per Peeta era diverso. La desiderava tanto, ne aveva sempre voluti. Sarebbe
stato un bravo padre, ce l’avrebbe messa tutta. Avrebbe posto sua figlia sopra
ogni cosa, a costo di tenersi a distanza da lei pur di proteggerla.
E
lei, lei sarebbe riuscita a fare lo stesso?
“Anche io.”
Peeta le strinse più forte la mano e sorrise, lo sguardo a
seguire i contorni delle loro ombre sull’erba.
“Anch’io ho paura, Katniss.”
Era la prima volta che lo diceva apertamente.
Katniss annuì, continuando a fissare i margini del Prato, là
dove il tappeto d’erba lasciava il posto ai boschi.
“Diventare padre è una cosa che ho sempre desiderato e lo
sai bene… Ma non sono più quella persona.”
Peeta appoggiò la mano libera sul proprio ginocchio e poi
scese appena, a fasciare il punto in cui un tempo c’era stata la sua gamba.
Un’ombra di tristezza velò il suo sguardo per un istante.
“Per quanto cerchi di convincermi del contrario, per quanto
ogni tanto mi sembra di essere tornato il vecchio me stesso, non avrò mai la
certezza di essere riuscito a fare quel passo indietro. La certezza di sapervi
al sicuro al mio fianco. Eppure vale la pena provarci.” aggiunse, cercando di
incontrare lo sguardo di Katniss: i suoi occhi, ora, rilucevano di
determinazione. “Dobbiamo provarci.”
Katniss guardò altrove; una ghiandaia attraversò il Prato
volando basso e la sua mente, ancora una volta, si riempì della voce del padre.
“Non ho mai voluto dei figli” replicò infine in un sussurro,
appoggiandosi una mano sulla pancia: toccare la vita che aveva dentro le provocava
una sensazione insolita, spaventosa, eppure bellissima. Era come passeggiare
nel Prato assieme a suo padre, come ascoltarlo cantare: avvertiva lo stesso
legame saldo e naturale che in passato l’aveva unita a lui, e in seguito a
Prim.
Che fosse quello a spaventarla così tanto?
“Nemmeno tu sei la persona che eri una volta” rispose in
tono pacato Peeta, addolcendo la sua espressione. Katniss appoggiò il volto
alla sua spalla, proprio come da bambina faceva spesso con il padre. Peeta le
sfiorò i capelli con le labbra e poi la strinse a sé, cingendole la vita con un
braccio.
“E se non riuscissi a volerle bene?”
Il sussurro di Katniss si era fatto più flebile e il vento
cercò di coprirla, soffiando con insistenza sui loro volti. “E se perdessi la
testa come mia madre? Se la lasciassi sola?”
Peeta scosse la testa.
“Non hai mai abbandonato le persone che avevano bisogno di
te” replicò poi con fermezza, appoggiando la fronte ai suoi capelli. “Non l’hai
fatto con tua madre o con Prim e nemmeno con Rue. E poi le vuoi già bene”
aggiunse, sfiorando con tenerezza il ventre della donna.
Katniss aggrottò appena le sopracciglia.
“Che cosa te lo fa pensare?” replicò, affatto convinta.
“Sei
tu a dirmelo” rivelò lui con un sorriso, prima di chinarsi in avanti per baciarla.
“Ogni volta che ti guardi la pancia.”
Le sue parole non riuscirono a tranquillizzarla del tutto;
tuttavia, Katniss non oppose resistenza quando Peeta le prese la mano per
posargliela sul pancione, sotto la camicia.
Un po’ in impaccio, la donna fece scorrere la dita lungo la
pelle tesa: quella era forse la prima vera carezza che rivolgeva alla bambina,
nonostante avesse già provato più volte a recepire i suoi movimenti cercandola
con il palmo.
Chiuse gli occhi per un istante: si concentrò su quella sensazione,
sul vento leggero che le stuzzicava il volto e i capelli, sugli ultimi raggi di
sole a malapena percepibili attraverso le palpebre serrate.
Fu in quel momento che le venne in mente il Prato – il primo
Prato, quello di cui le aveva parlato una sera il padre. Evocò la serenità
della volta in cui si erano accoccolati l’uno all’altra per guardare il
tramonto e ascoltare il vento, mentre Caleb raccontava di un passato più sereno
e luminoso. Un passato che – Katniss aveva incominciato ad intuirlo solo una
volta cresciuta – forse non era nemmeno mai esistito.
Ad esistere, però, erano la sensazione di pace e felicità
che le avevano trasmesso i racconti del padre e la sua presenza. Così come la
melodia dolce e rassicurante che le aveva insegnato quella sera e che Katniss
aveva cantato per anni a sua sorella, per rassicurarla quando era spaventata.
“Là in fondo al Prato, all’ombra del pino…”
Le parole della canzone le scivolarono dai ricordi alla gola
e poi oltre le labbra, a cavallo dei soffi di vento. La sua voce si disperse
nell’aria, nitida e pulita.
“C’è un letto d’erba, un soffice
cuscino
Il capo tuo posa e chiudi gli
occhi stanchi
Quando li riaprirai, il sole
avrai davanti.”
Avvertì al tempo stesso la presa docile
di Peeta, che si era appena fatta più salda, e quella rassicurante di suo
padre, che ancora la custodiva attraverso il ricordo della sua voce. Solo in
quel momento, permettendo a una melodia di toccare le sue labbra per la prima
volta da anni, si rese conto di quanto il canto glielo facesse sentire vicino.
Il Prato glielo stava riportando per
qualche minuto, eppure non era lì che l’avrebbe sempre trovato, ma nella
musica.
“Qui sei al sicuro, qui sei al
calduccio
Qui le margherite ti proteggon da
ogni cruccio,
qui sogna dolci sogni che il domani
farà avverare
Questo è il luogo in cui ti
voglio amare”
Riaprì gli occhi e ricambiò lo sguardo
dell’ultimo raggio di sole, che si stava mettendo d’impegno per fornire ancora
un po’ di luce a lei e Peeta.
Per un attimo, a palpebre serrate, era
riuscita a immaginare un Prato decorato da diversi covoni di fieno. Un gruppo
di ragazzini ci correva intorno, facendo lo slalom fra i mucchi dorati, e una
bambina, in testa a tutti, si affannava per raggiungerne uno: l’ultimo, quello
più lontano.
Rideva, quella bambina. E per un istante,
solo per un istante, Katniss fu certa di essere riuscita a guardarla negli
occhi: erano grandi, gentili e azzurri, come quelli di Prim.
Come quelli di Peeta.
“Haley” mormorò d’istinto, voltandosi verso il fidanzato.
Peeta le rivolse un’occhiata interrogativa.
“È un nome” specificò Katniss, fissandosi la pancia. “Mi è
sempre piaciuto molto. Deriva da Hay Meadow: significa Prato di
Fieno. Quando ero piccola mio padre mi raccontava che qui nel Prato ci
facevano i covoni di fieno: diceva che c’erano delle fattorie. So che non è
possibile: il Distretto 12 non ha mai avuto un terreno adatto a questo genere
di attività, però…”
“Haley…” ripeté Peeta, interrompendola. Sembrò assaporarlo
per qualche istante, prima di annuire. “… Mi piace” ammise infine, sorridendo
convinto.
Katniss si sorprese a ricambiare; sfiorò ancora una volta il
suo ventre e improvvisamente la lei che aveva dentro assunse un
significato, un’identità, un legame con il suo passato.
La sua pancia arrotondata divenne ai suoi occhi un covone di
fieno, come quelli che nel suo immaginario avrebbero sempre riempito il Prato.
Un buon auspicio per lei e Peeta che erano stati i primi a sfiorarla, a
rincorrerla. Ad amarla.
“Andrà tutto bene” dichiarò infine Katniss, cercando conferma
nello sguardo del fidanzato. Le loro mani si cercarono ancora una volta. “Vero
o falso?”
Peeta annuì, prima di tornare ad attirarla a sé per la
vita.
“Vero.”
Mentre si abbracciavano, traendo conforto l’uno dal coraggio
dell’altro, non si accorsero dell’ennesimo bocciolo pronto a fiorire, che si
stava dando da fare per crescere proprio a pochi metri di distanza dal salice.
Era un dente di leone.
“Quello
di cui ho bisogno è il dente di leone che fiorisce a primavera. Il giallo
brillante che significa rinascita anziché distruzione. La promessa di una vita
che continua, per quanto gravi siano le perdite che abbiamo subito. Di una vita
che può essere ancora bella.”
Il
Canto della Rivolta. Suzanne Collins
Note Finali.
Mi vergogno come una
ladra a pubblicare questa cosa, soprattutto per la seconda parte che è
terribile. Però mi dà fastidio quando lascio le cose in sospeso e mi scocciava
il fatto di aver dato dei nomi ai bimbi Mellark che non si legassero in alcun
modo alle storie dei loro genitori (anche se il nome Haley in realtà era già
stato parzialmente spiegato in The Miner Saw a
Comet. Comunque… Il nome Haley ai tempi lo scelsi perché ci tenevo
che Joel Jr (il figlio di Gale) storpiasse giocosamente il nome della sua
migliore amica (da Haley a Halley come la cometa) così come ai tempi Gale
faceva con Catnip. Però siccome Haley ha anche un significato che si lega
tantissimo con the Meadow (il Prato) ho cercato di ricamarci sopra anche
un significato che si adattasse alla saga Dubito che in passato nel Distretto
12 potessero esserci davvero delle fattorie (mi pare che fosse una zona
montagnosa) e infatti la stessa Katniss crescendo si rende conto che la storia
di babbo Everdeen fosse in realtà una sorta di favola. Però mi piaceva molto
l’idea del Prato di fieno, soprattutto per via del significato che il Prato
gioca nell’epilogo di Mockingjay (e nella presentazione di bimba Mellark,
dunque).
L’ho già detto tante
volte, ma lo ribadisco: non amo molto il pairing Everlark, quindi ho tanta
paura di aver combinato un mezzo pasticcio nello scrivere la seconda parte
della storia, ma era necessaria ai fini del racconto. È un po’ melensa, quindi
spero di non aver reso Katniss OOC. Possiamo attribuire la colpa di tutto agli
ormoni? *sorrisino innocente*
Babbo Everdeen si chiama
Caleb perché è il nome che gli ho già dato nelle altre storie in cui è
comparso e anche la caratterizzazione è la stessa. Più che altro qui mi sono
allacciata un po’ a “Il Ribelle”
dove Caleb canticchia The Hanging Tree al piccolissimo Gale (<3).
Grazie mille a chiunque abbia avuto il
coraggio di leggere!
Un abbraccio!
Laura