Le
lacrime di un drago
La
piana era immersa in un silenzio spettrale. Nemmeno una cornacchia
echeggiava sulla sua testa. Tutt’intorno a lui, corpi e
membra
umane erano riversi a terra, bocconi e privi di vita. Erano i corpi
dei suoi uomini, dei suoi compagni. Erano coloro che avrebbe dovuto
proteggere e che, invece, erano morti per colpa sua. A causa della
sua sciocca presunzione. Solo uno sciocco poteva credere di
sconfiggere Hideyoshi e lui era il re degli sciocchi. “Kojuro
aveva
ragione...”, pensò, chiudendo gli occhi. Il volto
del suo braccio
destro fece capolino nella sua mente, duro e severo come era sempre
stato, e le sue ultime parole riecheggiarono nella sua mente.
“Eccellenza Masamune, non siamo ancora in grado di
sconfiggere
Hideyoshi. Vi prego di riconsiderare la vostra decisione”,
aveva
detto mentre cavalcavano in direzione di Odawara, ma lui non
l’aveva
ascoltato. Era sicuro di se stesso e delle sue capacità. Era
certo
che niente avrebbe potuto sconfiggere il drago con un occhio solo di
Oshu.
Aprì
l’occhio scuro, alzandolo al cielo ancora coperto di nubi.
Una
forte vento, freddo come il ghiaccio, gli scompigliava i capelli
castani accompagnando i battiti del suo cuore in una pericolosa
danza. Con uno sforzo enorme, riuscì a mettersi in piedi;
sotto la
sua pelle, i suoi muscoli tendevano e tiravano fin quasi a
strapparsi, mentre i vasi sanguigni si erano rigonfiati per lo
sforzo. Una volta in piedi si prese diversi minuti per recuperare le
energie sprecate, mentre il suo occhio vagava senza sosta su quella
distesa di morti e caduti. Non riusciva ad esprimere niente,
né
disperazione, né rabbia; la sua mente continuava a
respingere l’idea
di essere stato sconfitto da un singolo uomo. Come poteva, il drago
con un occhio solo, essere stato sconfitto da una misera pedina?
Eppure era così, in quel momento lui non era altro che un
drago
ferito e scaraventato nel fango, ormai incapace di volare.
Avanzò
in mezzo ai cadaveri in cerca di un respiro appena accennato o di un
leggero battito. Qualcuno dei suoi soldati poteva ancora essere vivo.
Doveva essere vivo. Per il suo bene; per il bene delle sue terre.
«Signore...»
sentì, ad un certo punto. Un flebile sospiro ed un richiamo
appena
percettibile lo costrinsero a fermarsi e a cercare, in mezzo ai
morti, la fonte di quella voce.
«Bunshichi!
Sei vivo...» mormorò Masamune, alla vista
dell’uomo. Il soldato
si era tirato su con la schiena, con molta fatica; da una ferita al
capo scorreva un rivolo di sangue rosso fuoco, mentre parte
dell’armatura era andata a pezzi.
«Capo,
voi state bene?» chiese, alzando lo sguardo verso Masamune.
L’altro
non rispose e si limitò solo a fare un cenno con la testa,
poi,
dandogli le spalle, ordinò:
«Quando
sei in grado di alzarti, cerca gli altri sopravvissuti e medica
quelli più gravi. Partiremo per l’Oshu il prima
possibile.»
«Sarà
fatto!» esclamò l’altro. Poi si
alzò, fece qualche passo e,
voltandosi verso il suo signore, mormorò:
«Capo,
sua eccellenza Katakura sta bene, vero?»
Masamune
non rispose. Non poteva farlo; non lo sapeva nemmeno lui. Cosa gli
avrebbe potuto dire? Bunshichi intuì i pensieri che
attraversavano
la mente del drago e abbassò lo sguardo in terra, sul sangue
e i
corpi senza vita dei compagni. “Speriamo che sia ancora
vivo...”
pensò. Con una manica del kimono si asciugò le
lacrime che avevano
già iniziato a scorrere sul suo volto, sporco e incrostato
di sangue
rappreso, e si allontanò velocemente, alla ricerca dei
sopravvissuti.
Masamune
rimase solo. Il suo sguardo continuava a vagare senza sosta, vuoto
come quelli dei morti; le sue mani tremavano leggermente, a mano a
mano che avanzava. Sentiva l’eco dei suoi pensieri e dei suoi
ricordi, il clangore delle armi che si scontravano, i corni da guerra
che risuonavano minacciosi, le grida da battaglia dei suoi uomini...
Poi rivide il corpo di Kojuro accasciarsi al suolo, di fronte a lui.
Era stato colpito, alle spalle, mentre cercava di proteggere la sua
vita. Mentre cercava di mantenere la promessa che aveva fatto. Mentre
cercava di mettere al sicuro l’uomo a cui aveva giurato
fedeltà.
Mentre cercava di proteggere lui.
Strinse
un pugno, finché gocce di sangue scarlatto non caddero dalle
sue
dita callose. La rabbia e il senso di impotenza voleva si stava
facendo strada nel suo corpo, come un veleno mortale. Era debole,
sciocco... Credeva che avrebbe potuto vincere qualsiasi ostacolo, ma
in realtà era solo un presuntuoso che aveva portato alla
morte
migliaia di soldati. I suoi uomini, il suo esercito... Li aveva
portati alla morte, li aveva condotti in un massacro. Li aveva
traditi, aveva tradito la loro fiducia. E li aveva uccisi.
«Kojuro...»
mormorò. In quel momento voleva solo rivedere il suo braccio
destro,
voleva solo accertarsi che fosse ancora vivo, che nonostante tutto
fosse riuscito a sopravvivere. Più di ogni altra cosa voleva
sentire
di nuovo i suoi rimproveri e le sue lamentele su quanto fosse
avventato e immaturo.
Ad
un tratto, il suo occhio vuoto incontrò il profilo di una
figura
familiare, a qualche metro di distanza da lui. Era stesa in terra,
raggomitolata come un feto, ed era circondata da altri corpi. Si
avvicinò, lentamente e con il fiato sospeso.
L’aveva riconosciuto
e il pensiero che potesse essere morto, che potesse averlo
abbandonato per sempre, non voleva saperne di lasciarlo; le gambe
facevano fatica a sorreggerlo e la sua vista si stava facendo sempre
più appannata. Una volta che lo ebbe raggiunto, si
inginocchiò al
suo fianco e gli appoggiò una mano sulla spalla, per
girarlo; la
luna crescente che campeggiava sulla sua schiena era sporca di fango
e sangue rappreso, mentre un enorme squarcio, molto più
simile ad
un’enorme voragine nera, la attraversava da parte a parte.
«Kojuro...»
mormorò di nuovo, scuotendolo per una spalla.
«Alzati, è un
ordine!» L’uomo steso in terra non si mosse e non
rispose.
Masamune gli sfiorò la cicatrice sulla guancia destra,
ridendo tra
sé e sé. Era una risata vuota, come lo era il suo
occhio sinistro,
che non aveva nulla di allegro. Era disperata, angosciosa, molto
più
simile ad un pianto o ad un grido strozzato. Un rivolo caldo
iniziò
a scendere lungo la sua guancia sinistra, fino al mento sporco di
terra e poi giù, sulle sue mani tremanti.
«Wake
up!
Non mi sembrava di
averti ordinato di morire!» esclamò, stringendo
una mano intorno
agli abiti del soldato e agitandolo con forza. Sapeva che era morto,
ne era consapevole, ma non voleva accettare la realtà.
L’occhio
destro del drago non doveva morire. Non poteva.
Kojuro non rispose; il
suo volto
era reclinato su un lato, senza vita.
«Ti
prego, apri gli occhi!» urlò, avvicinando il volto
pallido
dell’uomo al suo. «Ti scongiuro,
svegliati...»
L’uomo
non si mosse, né aprì gli occhi; rimase fermo,
privo di vita e con
un enorme squarcio nel petto. Masamune lo appoggiò
delicatamente in
terra; il suo unico occhio spalancato dalla disperazione e il volto
rigato da sporche lacrime. Era incapace di parlare o di gridare; era
incapace di fare altro oltre a guardare il corpo senza vita del suo
braccio destro e piangere in silenzio.
«Sorry...
Perdonami, Kojuro... È colpa mia, sei morto per colpa
mia...»
mormorò, con la voce rotta dal pianto. Alcuni soldati si
avvicinarono all’uomo, in attesa di ulteriori ordini. Avevano
capito ciò che era successo a Kojuro e nessuno di loro se la
sentiva
di dire qualcosa. Rimasero tutti in silenzio, in piedi alle spalle
del loro generale, mentre lo osservavano piangere e disperarsi sulla
morte dell’unico uomo in grado di proteggere la schiena del
drago.
|