Foglio bianco. Di quei tempi, era la
cosa che aveva sotto
gli occhi più di frequente. Beh, forse era l’unica
cosa che aveva sotto gli
occhi, dalla mattina presto alla sera tardi. La notte, prima di
dormire, nel
dormiveglia e persino nei sogni, le idee gli fluivano nella mente,
quasi come
se il sonno azionasse un congegno nascosto nei meandri della mente,
accessibile
solo a chi avesse passato il confine col mondo. Ma al risveglio, di
quei
brillanti pensieri, rimaneva solo lo spettro, uno sbiadito ricordo che,
riesaminato da tutte le prospettive, si rivelava banale. O era forse
lui che si
faceva troppi problemi? Doveva semplicemente scrivere quello che gli
passava
per la mente, per banale che fosse? In fondo nessuno si aspettava
niente da
lui, nessuno era ansioso di sgomitare fuori dalla libreria per farsi
strada tra
la folla agitata, per raggiungere lo scaffale su cui giaceva, come in
attesa,
un libro contenente chissà quali brillanti aneddoti. Eppure
proprio lui, che
leggeva tanti testi, voleva scrivere qualcosa che magari, se fosse
stato
scritto da altri, avrebbe letto. Insomma, non avrebbe mai riletto
qualcosa
scritto di proprio pugno, bello o brutto che fosse. Chissà
se gli scrittori a
lui contemporanei avevano una considerazione delle proprie opere.
Chissà se i
grandi maestri del passato, vergando sulla carta parole che sarebbero
diventate
celebri e prese a modello, avevano pensato che forse stavano scrivendo
un
mucchio di letame, che era tutto da rifare. Eppure alla fine avevano
pubblicato
lo scritto. E se lo avevano fatto, si disse, dovevano pur averne una
buona
opinione. Oppure era lui che si atteneva troppo ai rigidi schemi della
propria
mente? E poi, perché scriveva? Diamine, non ci aveva mai
pensato. Se il suo
scopo, o almeno così
si diceva , non era
di farsi pubblicare, di diventare famoso, e non faceva nemmeno leggere
i
prodotti della sua mente perversa ad altri, e non sentiva
l’impulso di buttar giù
qualche riga, perché trascorreva ore davanti al monitor,
passando al setaccio
la tastiera in cerca di qualcosa che gli desse un indizio? Si sarebbe
messo a
parlare col tasto Canc, prima o poi. Questi
avrebbe imprecato ogni qual volta fosse
stato soffocato da una di quelle dita enormi che si ritrovava. Di
sicuro il
povero quadratino nero, che si chiedeva cosa avesse fatto di male per
nascere
Canc, era già arrivato alle bestemmie, dato che i caratteri
cancellati in
quelle ore, in quei giorni, in quelle settimane, rivaleggiavano di
certo in
numero con uno di quei tomi in stile Enciclopedia.
Ok ok, forse stava diventando pazzo,
ma poco male! Genio e
sregolatezza! Ecco si, erano proprio i primi sintomi della pazzia.
Prese un bel
respiro, poi digitò i primi caratteri, incerto. Il contatore
segnava le parole:
100 parole, 200 parole.
Canc Canc Canc. 50 parole.
Quelle parola sarebbero state il
punto di partenza. Ehi, un
errore!
Canc Canc. 25 parole.
Poche ma buone!
Ma
quella parola esiste?!
Canc Canc. Foglio Bianco. Di nuovo. E
ovviamente gli insulti
del Canc.
Oddio, ma … ma
… stavo pensando in terza persona?! Ora,
insieme agli sproloqui del Canc, che ovviamente provenivano dalla mia
geniale
scatola cranica, i miei si trasformavano e, da un sussurro a bassa
voce,
diventavano un crescendo di maledizioni contro gli scrittori
più illustri, fino
al gridare in faccia ai maggiori esponenti di tutti i generi letterari
a me
noti. Beh, non che li avessi davanti, ma ero sicuro che mi avessero
sentito. Da
tipi del genere, pensai, ci si poteva aspettare anche questo. Insomma,
forse
erano più anziani, temprati dai rifiuti che anche loro, agli
esordi, dovevano
avere avuto. Ma che stavo dicendo? Non possono avere avuto dei rifiuti,
sono …
Il meglio, il top del loro genere, la creme de la creme …
Trovavo impossibile
tutto ciò e, più non riuscivo a scrivere,
più mi convincevo che di persone come
loro ne nascessero ogni cent’anni. Insomma, non proprio cento
… magari
cinquanta. Insomma, forse avevo scelto male la data di nascita, ma
fatto sta
che a quattordici anni mi trovavo in competizione, se di competizione
si poteva
parlare, con dei tali che avevano scritto montagne, no, che dico,
intere catene
montuose di best seller che sarebbero durati in eterno, tizi che
avevano
milioni di pagine alle spalle e milioni di pagine davanti, nelle loro
enormi teste,
pronte per essere riportate su carta ed
essere trasformate in soldi. E forse era proprio quella la differenza
tra me e
loro: io scrivevo per me, loro per i soldi. Ma quei soldi non servivano
forse a
mantenere il fortunato scrittore in salute e a permettergli di vivere
una vita
agiata? Riesaminato da questo punto di
vista, il motivo delle loro azioni e delle mie
coincidevano: insomma,
non scrivevano forse per loro?
Mi consolai però pensando
che, se da un lato alcuni autori
avevano iniziato a scrivere e a mandare le loro opere alle case
editrici in età
adulta, io, da ragazzo di quattordici anni appena, mi ero
già cimentato in più
generi, spedendo i romanzi a più case editrici. Queste,
forse per la mia
giovane età, o perché proprio non so scrivere,
avevano gentilmente rifiutato di
pubblicare i miei racconti, dandomi però suggerimenti che si
sarebbero poi
rivelati preziosi. E nella mia mente agitata e mai quieta, questi
consigli
incontravano le nozioni di scrittura che già conoscevo. A
quel punto, mi
dicevo, avendo già un mio personale stile (o almeno
così credevo, ma tutt’ora
non ne sono certo), l’unica cosa che mi rimaneva da fare era
ampliare il mio
lessico, fino a che non avessi avuto abbastanza parole da farmele
bastare per
un libro intero. Non pensavo di certo a uno di quegli enormi libroni
che
raccolgono trilogie o cicli famosi, ma a un volumetto, magari di due
centinaia
di pagine, o qualcosa del genere. Avrebbe avuto un titolo altisonante,
di
quelli che, pur non dandoti un quadro completo del libro, ti spingono a
spendere i tuoi soldi per leggerlo.
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