L’ATTESA
dedicato
a Beab
Ormai ce l’ aveva fatta.
Aveva fregato tutti per rapidità.
E ora non rimaneva che attendere.
La luce rossa si era accesa, e quando si accende quella…beh,
c’è poco da fare. Il più è
già stato fatto. Intanto abbassava docilmente il capo e,
fischiettando note da banda di sagra estiva, ammirava stupito la punta
delle proprie scarpe. Belle, lucenti, ci si poteva specchiare, e
– forse ironicamente – faceva
l’occhiolino a se stesso, riflettendosi su di esse. Ma ecco
spuntare fuori il primo nemico da dietro l’angolo: era
arrivato probabilmente strisciando, o in punta di piedi, fatto sta che
non era stato possibile sentirlo giungere. Era squamoso, flemmatico nel
parlare e si presume anche nel pensare. I tratti somatici non
evidenziavano spiccate attitudini intellettuali, più che
altro disegnavano un autentico poltrone, uno che non ha mai fatto e non
ha mai saputo fare niente nella vita. Ma…si sa,
l’apparenza inganna. Certamente anche il Nostro si stava
confondendo: il viscido era sicuramente uno di quelli che passa i suoi
anni migliori su un divano, magari sdraiato e con i pantaloni tirati
più giù che su, in attesa del riscatto, o meglio,
in attesa di rendere esistenzialmente utile
quell’apparentemente vacua attesa tramite
un’improvvisa rizzata in piedi, un improvviso riemergere dal
torpore in cui affondava. Ed ora tutto questo si sarebbe realizzato. Il
serpente avrebbe morso improvvisamente la propria preda, in maniera
letale. Tutto il veleno che aveva serbato sino ad ora, per tutto questo
tempo, adesso, in meno di un batter di ciglia, sarebbe stato confluito
– con immane violenza – tutto contro e dentro il
Nostro.
Nell’attesa, il Nostro si finse indifferente.
Lo squamoso rettile, viscido all’inverosimile, con una bocca
che faceva repulsa anche solo a non pensarla, azzardò un
improbabile sorriso (subdolo, vi dico! Subdolo!…), nel quale
i denti (pochi e malmessi) nascondevano con maestria la lingua
biforcuta e incontrovertibilmente pregna di un revanchismo sul tempo
senza precedenti. Almeno dentro quel condominio, dico.
Voi – lo so per certo – non avreste mai voluto
stare lì a vedere l’orrendo misfatto, per nulla al
mondo. Ma, scusatemi se ve lo chiedo, ma almeno per un attimo, per
aiutarmi nell’infausta narrazione, provate ad immaginare la
drammatica scena: il Nostro, a denti stretti, con le lacrime ad
appannargli la vista, costretto con le spalle al muro
dall’infelice destino, e lì vicino, a meno di due
metri, la viscida ripugnante creatura pronta a salire finalmente sul
palco, dopo un’attesa interminabile da spettatrice.
I più avranno già mollato la lettura da tempo, ma
per i più impavidi, cercherò di continuare la
narrazione nella maniera più indolore possibile e
– credetemi – non sarà cosa semplice.
Allora… l’ombra della bestia lentamente ma con una
certa costanza si stava insinuando sui pantaloni bianchi del Nostro,
che, in una situazione del genere, stava sicuramente pensando ad un
mucchio di cose (non da ultimo ai tempi felici di un’intera
vita che gli scorreva morta nella testa sofferente) ma non di certo a
quegli splendidi pantaloni bianchi di lino, freschi ora più
che mai.
La bocca del mostro cominciò piano piano ad aprirsi, e la
lingua fece capolinea fra le mille carie che decoravano in maniera
più o meno fittizia quell’orrido antro.
Non vi era più scampo alcuno.
Ma è qui che viene fuori tutto il coraggio che costella e
dà sostanza ad una vita intera fatta di soddisfazioni e di
epiche vittorie contro il tempo. È qui che la struttura
(scheletrica che sia) rivendica il suo ruolo imprescindibile dalla
semplice materia buona per tutte le stagioni, tranne che per questa.
La belva non ci impiegò molto altro tempo alla certosina
preparazione, ed inflisse il suo colpo mortale con una maestria senza
precedenti, almeno dentro quel condominio, dico.
“Buongiorno ingegnere”.
Tutto un sorriso.
Il Nostro fece un cenno d’intesa, o meglio di saluto con la
mano destra e tutto finì lì.
Che maestria, che numero funambolico: si era raggiunti il sublime,
l’essenza di un’intera esistenza.
E poi, c’è chi ancora sostiene che
l’esperienza non porta tutti i frutti sperati. Ma quando
innanzi ad un tale capolavoro di sintesi ed ingegno non si rimane a
bocca aperta, con lacrime che sottolineano l’ammirazione ed
anche una certa invidia non trascurabile in toto, allora non si
è umani, ma si è bestie peggiori del viscido.
Avreste dovuto vedere quel fulmine che squarciava
l’immensità: la destrezza del polso, la
ribaltabilità della mano, la velocità che non a
caso poco prima aveva spinto la luce rossa dell’ascensore ad
accendersi. Tutto in così poco tempo, in una tale pochezza.
Cose che a parole non si possono spiegare…
La viscida belva se ne andò affranta, di nuovo
nell’ombra, nell’estenuante attesa.
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