la
E’
Lavinia, la segretaria del dottor Womack, a raccontarle la storia
dell’appuntamento delle tre.
Lei
potrebbe opporsi all’inopportunità intrinseca della domanda: “Conosci la
storia, Moll?”, riconoscendola come tale. Potrebbe.
Non
lo fa e seppure prova uno sgradevole amalgama di disagio e senso di colpa nell’ascoltare
una storia che non è suo diritto conoscere e che non le appartiene, Molly è rapida
a nasconderlo, mostrando agli occhi acuti dell’altra donna un’espressione
neutramente bianca.
“Ebbene,”
comincia Lavinia, dopo aver controllato con un’occhiata di perlustrazione che
sì, le uniche orecchie indiscrete in giro siano le loro. “Ebbene,” ripete,
facendo ricorso al suo intercalare preferito ed è presto detto. In due minuti
Molly è al corrente di vita, morte e miracoli dell’appuntamento delle tre e
dell’intera spiacevole faccenda che l’abbia portata a diventare l’appuntamento
delle tre.
Quando
la ragazza esce dallo studio, allo scadere della sua ora di seduta con il dottor
Womack, è arrivata la madre. All’inizio, ricorda Molly, ad attenderla nella
sala d’aspetto era il padre, un tipo smilzo e nervoso dalle orecchie
sproporzionate. (Molly è perfettamente
consapevole degli sguardi ardenti che deve aver lanciato in più di un’occasione
alle due figure, padre e figlia, vedendoli andare via, scivolare come ombre
languide nel tramestio irrequieto della city. Sa che è stato il dottor Womack a
richiedere, no, a pretendere che fosse la madre a presentarsi, ulteriore
(s)gradito pettegolezzo di corridoio e se una parte di lei era stata così
egocentrica da pensare che lui avesse potuto farlo per una sorta di riguardo
nei suoi confronti, ora quella fantasia mostra la sua natura inconsistente a fronte
di ciò che è vero e reale.)
Quando
la ragazza, Nigella, esce, la madre non le trotta incontro con la solita
obnubilante chiacchiera facile e neppure la guarda con l’allarmismo di cui ha
dato prova nei primi tempi. Attende che sia la figlia ad avvicinarsi a lei e sa
che è sbagliato, che è una scena privata e intima nonostante l’ambiente che ne
fa da fondale, ma Molly non può impedirsi di cogliere il modo in cui la donna
stia praticamente stritolando i braccioli della poltroncina o come si morda il
labbro inferiore con gli incisivi o come i suoi occhi sembrino fagocitare la
figlia nella sua interezza, iperprotettivi.
Nigella
si accosta alla madre, mormora un saluto e Molly le segue con lo sguardo mentre
si allontanano.
L’appuntamento
delle tre si è concluso e così la sua storia, almeno per l’arco di quella giornata.
Ora inizia l’appuntamento delle quattro.
Molly
si alza quando Lavinia la chiama, dicendole che è il suo turno ed entra nello
studio del dottor Womack.
La ragazza che profumava di morte
(e che era vita)
Nigella
Monday è troppo magra, perfino per gli standard antisalutistici promulgati dalle riviste
di moda. In questo non c’è nulla per cui stupirsi. Lo studio del dottor Womack
è specializzato in casi del genere, casi di persone che rifiutano il cibo alla
maniera in cui rigettano una vita che sta loro stretta. Perciò sì, Nigella è
troppo magra, ma lo è anche Molly e lo è
l’appuntamento delle cinque e quello delle sei e via dicendo: una sfilata di
spaventapasseri e uomini di latta e leoni codardi che sperano di diventare
qualcuno di diverso perché non hanno avuto la fortuna di incontrare la loro
Dorothy. Così ci pensa il dottor Womack ad aggiustarli, a fare il Mago di Oz, a
convincerli che dentro di loro sono dotati di qualcosa di prezioso e unico, che
sono preziosi e unici proprio
nell’individualità che tanto li spaventa.
Quella
è la versione fanfarona e semplicistica. La verità, nel caso suo, nel caso di Nigella,
ha tutte le complessità su cui spesso la carta e l’inchiostro tendono a
soprassedere, tranne che nei romanzi delle sorelle Bronte o nelle opere di
Dickens o nei sonetti di Shakespeare: il retroscena dei sentimenti.
La
storia di Nigella è fatta per creare scalpore. Prima del disturbo (che è un
modo un po’ più gentile per definire la loro malattia, quasi un sotterfugio, ma
tant’è), Nigella soffriva del problema opposto. Era grassa. Non grassa come la
donna cannone, ma abbastanza perché questo diventasse il cruccio di sua madre
che, animata dall’infaticabile volontà delle madri di vedere la propria figlia
“al meglio”, non si esimeva dal propinarle visite dai migliori dietologi o
regali a doppio taglio per ricordarle la sua figura sgraziata: tute da
ginnastica e iscrizioni nella palestra del quartiere e come ultima spiaggia
visite da un terapeuta affinché l’aiutasse ad acquisire una migliore percezione
del proprio corpo.
Il terapeuta era riuscito effettivamente lì dove ogni
precedente tentativo materno era fallito e quando il grasso consolidato sulle
braccia e sui fianchi della figlia aveva cominciato a sciogliersi come burro al
sole, la madre aveva gridato al miracolo e fatto in modo che le visite
proseguissero e diventassero a cadenza settimanale.
Nigella, però, aveva
cominciato a mostrare dei sintomi collaterali. Appariva distratta e nervosa e
quando la madre, mettendola sotto torchio, aveva cercato di risalire alle
motivazioni di quel comportamento stravagante, le confessioni della figlia
l’avevano fatta pentire della sua insistenza. Perché Nigella aveva ammesso di
cominciare a sentirsi a disagio in presenza del terapeuta, diventato, a suo
dire, troppo tattile.
La
madre aveva liquidato le paure delle figlia, definendole frutto di paranoia e
ingratitudine nei confronti di una persona che le era stata di così grande
supporto.
Nigella
avrebbe potuto fare altrettanto, decidere di soprassedere sulle sensazioni
sgradevoli che quei contatti sempre più frequenti e meno casuali le
provocavano; semplicemente dimenticare. Non l’aveva fatto e anzi aveva
proseguito in solitaria nella sua battaglia, agendo nell’unico modo che riteneva potesse
risolvere il problema: aveva ingaggiato un consulente investigativo privato.
E
quando un anno più tardi, grazie alle prove schiaccianti di confessioni di ex
pazienti e l’inclusione di un filmato in cui Nigella stessa era stata costretta
a denudarsi mentre si sentiva il terapeuta, dietro la scrivania, ansimare e
gemere volgarità, lo psicoterapeuta era stato dichiarato colpevole da una
commissione d’inchiesta del Ministero della Salute per abusi sessuali perpetrati
sui pazienti nel corso di oltre tre decenni di (dis)onorata carriera.
Il
consulente privato aveva raggiunto una certa notorietà e Nigella, vittima
innocente di troppi desideri che non erano i suoi, era finita dal dottor Womack:
un disturbo alimentare da affrontare e una madre che, forse, cominciava a
intravedere l’errore di valutazione del suo giudizio.
*
Alla
fine della seduta, Molly non prova sollievo né uno stordente senso di
alleggerimento. Si sente sempre opprimere, a gravare su di lei il lutto e un rimorso
che le scava un buco nero nel petto.
Quando
esce, è pronta a salutare Lavinia e a tornarsene a casa, nel suo appartamento
in Old Montague Street. Qualcosa, o meglio qualcuno, glielo impedisce. Il
qualcuno in questione è alto, longilineo e tremendamente pallido. Ha ricci capelli
corvini e occhi d’acquamarina dal bagliore ferino, zigomi pronunciati e un
profilo aristocratico. Indossa un lungo cappotto di lana che deve costare
quanto una retta universitaria e qualche affitto e sicuramente è troppo pesante
per il caldo snaturato di quell’estate di San Martino piombata tra capo e collo
in pieno ottobre. Non appena registra la sua presenza, il ragazzo si alza con
uno scatto agile e repentino, rivolge un cenno impercettibile di saluto in
direzione di Lavinia con un sorriso obliquo che è da solo una perla d’insolenza
e, sorpassandola, si infila nello studio del dottor Womack prima che la porta
abbia finito di richiudersi alle sue spalle.
Molly
non sa cosa pensarne. Lavinia indica alle sue spalle e sillaba in un mormorio eccitato
e udibilissimo, nonostante il tono confidenziale: “E’ lui. L’investigatore di Nigella è lui.”
Consulente
investigativo, la corregge tra sé Molly. Si sveglia dallo stato di torpore e si
decide a uscire. Dopo l’ora di assoluto silenzio della seduta, il caos del
traffico di Londra è un balsamo per le orecchie. La distrae dalla quiete del
suo appartamento vuoto, le fa dimenticare, per un intero inestimabile istante,
che è sola al mondo.
*
Dalla
seduta successiva, il dottor Womack cambia registro e riempie l’assenza delle
parole che Molly continua a ingoiare, rifiutandosi di pronunciarle, con il
superfluo delle sue.
Non
le parla della bellezza del mondo, anche se potrebbe, come testimonia la ricca
collezione di fotografie dei viaggi in giro per il mondo che occupano le
superfici piane di ogni pezzo d’arredamento.
Non
le parla di sé o della sua famiglia. Le parla degli altri pazienti che ha in
cura, di come lo sfiniscano, a volte, di come gli capiti di arrabbiarsi con
loro per la loro incapacità di capire, per la loro catatonia. Si sfoga, i ruoli
improvvisamente invertiti e se anche il rimprovero e il biasimo le sono
marchiati a fuoco in viso per quella mancanza di professionalità, le labbra di
Molly rimangono sigillate e ostinatamente piegate all’ingiù.
Finché
non nomina Nigella. Senza volerlo, Molly si agita sulla sedia e il dottor
Womack smette di parlare all’istante. Il suo è un sorriso spiegazzato e
consapevole, che dichiara in modo esplicito che è perfettamente al corrente di
quanto succede nei confini della sua sala d’aspetto. “Immagino che Lavinia ti
abbia raccontato la sua storia.”
Molly
non si spreca a negare, si limita a fissarlo stolidamente, incapace di intuire la
direzione che intende far prendere alla conversazione.
“Sono
pronto a scommettere che lo reputi un comportamento moralmente scorretto da
parte mia, permettere che vengano divulgate le esperienze personali dei miei
pazienti.”
Il
silenzio di Molly per una volta è più che eloquente. Non è assenza di parole,
ma della loro necessarietà.
“Lavinia
non lo fa per cattiveria, al contrario agisce su mia direttiva. Oh, intravedo
dell’interesse.” Il dottor Wolack si china in avanti, gli occhi scuri come onice
nera e dal taglio allungato sono socchiusi e la scrutano con una scintilla
inedita di divertimento sotto una cortina di capelli irsuti e una barba da
nano. “Ho catturato la tua attenzione? Perché credi che lo faccia? Per piacere
personale? No? Quale altra ragione potrei avere, Molly?”
Molly
non ne ha idea, ma nel momento in cui arriva a quella conclusione, sa di non
essere del tutto sincera. Si rende conto, da quando ha saputo la storia di Nigella,
di aver pensato a lei con maggiore frequenza di quanto le piaccia ammettere, di
essere meno soprappensiero, più concentrata sulle presenze che la circondano.
Si è accorta di aspettare con trepidazione le sedute per la semplice,
sbalorditiva curiosità di registrare i progressi dell’altra. Senza volerlo, in
una maniera strana e imprevista e perciò tanto più sconvolgente, si è
affezionata a una perfetta estranea.
“Nel
dolore siamo compagni, Molly. Nel dolore siamo tutti fratelli.”
Il
giovane dottore le passa la scatola dei fazzoletti kleenex senza traccia di
compatimento o disprezzo.
E’
in questo modo che Molly scopre di star piangendo. E’ la prima volta che
succede da quando è morto suo padre.
Continua
a parlarle, senza dare peso alle sue lacrime, non perché non siano importanti,
lo sono, lo sono moltissimo, ma perché sono lacrime che è giusto che versi, che
non vanno frenate.
*
All’incontro
successivo Molly si arrischia a chiedergli del ragazzo, il consulente investigativo.
Per
un attimo la sorpresa del dottor Womack è pura costernazione, appare quasi
frastornato.
Molly
ne è a propria volta disorientata e prova una genuina confusione per la
reazione di lui. Poi il viso del dottor Womack si spalanca, rischiarato da un
sorriso talmente luminoso che Molly teme di fare la fine di Semele, folgorata dallo
splendore di Zeus nella sua versione divina.
“Ti
riferisci a Sherlock Holmes?”
Sherlock
Holmes. Perciò è quello il suo nome.
“Da
non credersi, la faccia tosta di quell’uomo. Cosa pensi che sia
venuto a fare, qui?” Il dottor Wolack si sfrega il mento,
ruotando la sedia girevole, le gambe
accavallate e poggiate sullo spigolo della scrivania ingombra. Si
è tagliato la
barba. Ora la porta cortissima, un accenno di lanugine su guance
affilate e
mandibola. Lo svecchia, facendolo apparire il giovane trentenne che nei
fatti
rimane. “Si è trattenuto per un buon quarto d’ora,
senza aprire bocca, senza
presentarsi, senza uno straccio di spiegazione. Si è limitato a
stare lì, proprio
dove sei tu e a fissarmi. Alla fine si è alzato, mi ha allungato
il suo
biglietto da visita e mi ha detto che solo perché non aveva
trovato nulla in
quel momento non era detto che non trovasse nulla in futuro. Sembrava
deluso?
No, deluso non è il termine adatto. Disorientato, ecco.
Qualunque cosa abbia
visto in me, devo aver superato il test. A quanto racconta Nigella,
pare che
abbia una spiccata capacità analitica.”
Soltanto
quando è già in strada, assorbita com’è dal pensiero di Nigella, Sherlock
Holmes e tutto ciò che c’è a riempire il mezzo, Molly afferra il significato
del sorriso del dottor Womack.
E’
stata la prima volta che ha parlato durante una seduta.
*
“E’
possibile che lo incontri spesso in futuro.”
“Chi?”
“Sherlock
Holmes, il consulente investigativo.”
Oh. Molly aggrotta la
fronte. “Perché?”
“Ha
intrapreso una collaborazione con gli organi investigativi della polizia ed è altamente
plausibile che venga interpellato per eventuali accertamenti al Barts. Non è
dove stai facendo tirocinio?”
La
risposta non è in alcun modo soddisfacente o esaustiva. “In quale veste? Non
sta a lui accertare la causa di un decesso né tantomeno formulare una diagnosi.”
E’
un giorno come un altro, una seduta come un’altra (contraddistinta dalla piega
informale che hanno assunto i loro incontri da oltre un anno). Sono scalzi, a
gambe incrociate sul tappeto, di fronte a loro i cartoni untosi della pizza d’asporto,
che giocano alla play-station.
Si
tratta della svista di un attimo. Lui la bacia e Molly è troppo allibita per
decifrare l’espressione triste con cui la sta guardando o riconoscerla. L’ha
già vista altrove, addosso a qualcun altro, soltanto che le sfugge il chi e il quando.
“Non posso più essere il tuo analista.”
La
mano abbronzata di Ben rimane sulla sua guancia, il pollice di lui le sfiora l’angolo
della bocca.
“E’
perché mi hai baciata?”
“No,
non è perché sono innamorato di te, Molly, ma perché sei guarita.”
Molly
si guarda attorno: fotografie di luoghi in cui non ha mai messo piede e in cui,
concretamente parlando, non avrà possibilità di mettere piede prima di un
decennio perlomeno, mutuo e debiti universitari da saldare permettendo; parquet
lucido, pareti azzurro polvere, librerie a non finire, comode poltroncine in
pelle e luce dappertutto; ma soprattutto lui.
“Non
so come farò senza di te.”
Non
come ‘fare’, ma come ‘farò’, quasi abbia già accettato per buona la decisione
di Ben di non averla più come paziente.
Quando
si abbracciano, entrambi indugiano più del dovuto, ma nessuno dei due lo fa
notare all’altro.
*
Alla
fine tutto segue un suo corso, indipendentemente dalla volontà di chi vorrebbe
poter spendere una parola in proposito. Segue il suo corso e prende direzioni
imprevedibili.
Chi
l’avrebbe mai detto, ad esempio, che il dottor Benjamin Womack avrebbe sposato
Meena, una delle sue migliori amiche, o che lei stessa avrebbe finito per
coinvolgersi nel vicolo cieco di un amore unilaterale con scarse, se non assai poco
concrete, probabilità di essere corrisposta.
Sono
sul “terrazzo” dell’appartamento di Meena, lei sulla
scala antincendio, Ben a
cavalcioni sul davanzale della finestra. Lattine di birra, un
pomeriggio luminoso
in cui le rifrazioni dei raggi solari sono schegge di vetro iridescenti
e
chiacchiere facili: è tutto talmente familiare che dopo mesi di
apnea e incubi le
sembra per la prima volta di riemergere dalle profondità di un
pozzo buio per ritornare
a respirare senza costrizioni. “Sarei stato un partito
migliore,” afferma Ben in tono sicuro e pregno d'ironia, prendendo
un sorso della birra ormai calda e fissando l’interno
dell’appartamento. “E’ una cosa seria?”
Il
capo inclinato su un lato e poggiato sulla mano aperta, Molly segue la
direzione del suo sguardo e valuta Tom con un criticismo che dieci anni prima non le
sarebbe appartenuto, che deve averle trasmesso una persona a caso per osmosi.
“No. Sì.” Esita. “Non lo so. Potrebbe. Può diventarlo, se solo –”
Ben
annuisce, il sorriso nella curva della bocca dura è un segreto che anni di
amicizia le hanno insegnato a riconoscere da minuscole avvisaglie. “Se solo
fossi certa che lui non tornerà.”
Prima
che si affretti a negare o a chiedergli spiegazioni, lui la interrompe
decisamente: “Andiamo, Molly. Ti conosco. Ti ho visto piangere per tuo padre e
le lacrime che hai pianto per Sherlock Holmes non erano quelle di qualcuno in
lutto, ma di una persona con il cuore spezzato. So riconoscere i sintomi.”
“Perché
non dovrei avere il cuore spezzato? L’uomo che amavo è morto. Si è buttato dal
tetto dell’ospedale in cui lavoro.” Molly fa una smorfia, non può impedirselo e
Ben scuote la testa.
“Sei
una pessima bugiarda.”
“Non
per il resto del mondo.”
“Il
resto del mondo non ti ha avuta come paziente per due anni.”
Molly
sospira, arresa e serra involontariamente la presa attorno alla lattina. “Da
cosa lo hai capito?”
La
risposta di Ben non si fa attendere e la sua espressione diventa
remota, persa nella miriade di ricordi ed esperienze significative che
condivodono. “Ti
sforzi di fingere che vada tutto bene. Ricordi com’eri,
com’era allora? Quando
tuo padre è morto, eri prostrata dal dolore e ne avevi ogni
diritto, avevi
perso tutto ciò che rimaneva della tua famiglia, perciò
non ti importava che
gli altri vedessero quanto fossi ferita, non ti interessava. Il dolore
ti aveva
reso cieca e insensibile a tutto il resto, talmente eri concentrata a
tenere
uniti i pezzi di te stessa. Ora invece ti impegni così tanto per
dare l’impressione
di essere forte, che puoi farcela. Eccola la differenza: è come
se dovessi dimostrare quanto stai soffrendo. Sherlock
Holmes era il tuo mondo. Hai lasciato che lo diventasse come un tempo lo è
stato tuo padre e adesso che se ne è andato il mondo ti è di nuovo crollato addosso.”
“Sono
cambiata, sono cresciuta nel frattempo” dice Molly, arrabbiata e senza un
motivo preciso per cui sentirsi così. “E’ vero, Sherlock era il centro del mio
mondo, ma la mia vita non è iniziata con lui, nel momento in cui l’ho
conosciuto. Non esistevo solo in funzione delle sue necessità, non smettevo di
vivere solo per ricominciare a farlo quando compariva nel mio obitorio o veniva
in laboratorio a requisire la mia assistenza per un caso che stava risolvendo.
Perciò è questo?” domanda criticamente, storcendo il naso. “Non ti sembro
abbastanza addolorata?”
“Te
l’ho già detto, mi pare. Ti ho visto piangere per la disperazione e per la
morte. Questa volta è diverso: piangi per l’angoscia di chi speri che sia
ancora vivo.”
Sono
così vicini che Molly non deve neppure allungarsi per cercare la mano di Ben. “Non
puoi dirlo a Meena. Non deve saperlo nessuno.”
Ben
gliela stringe di rimando e le strizza un occhio. “Sono vincolato dal segreto
professionale.”
“Non
mi risulta che questo abbia mai posto un freno alla tua indiscrezione.”
“Non
nel tuo caso, Molly,” replica lui improvvisamente serio, gli occhi solenni e
contemplativi. “Mai nel tuo caso.”
Il
silenzio che segue non risulta pesante o difficile da gestire. E’ una pausa
gradita. “Molly… ricordi Nigella?”
“Certo,
ma cosa c’entra questo con-”
“Lo
feci per te.”
“Non
capisco cosa-”
“Quando
mi imposi perché fosse la madre ad accompagnarla, fu per il bene di Nigella che
lo feci, naturalmente sì, ma non sarebbe del tutto onesto. Fu per te. Io amo
Meena, amo la mia quasi moglie, ma c’è stato un tempo in cui non sapevo che l’avrei
amata e a quel tempo il mio amore è appartenuto a qualcun altro.”
“Prima
di amare il mio consulente investigativo, anch’io ho amato qualcun altro.”
“E’
come funziona la vita. Ti innamori di una persona sbagliata dopo l’altra finché
non trovi quella giusta.”
Molly
sorride. “O la più sbagliata di tutte.”
“Non
è sempre tutto rose e fiori, Molls.”
“Con
me non lo è mai.”
“Non
ne sembri dispiaciuta.”
“Le
cose semplici non fanno per me.”
*
La camera ricorda meno
un ospedale e un po’ più casa, merito degli sforzi congiunti di Molly e
dell’infermiera su piano, Patricia.
Ogni pomeriggio, dopo le
lezioni all’università, Molly trova ad accoglierla gli occhi sorridenti del
padre e fiori freschi nella brocca sul comodino. Si trascina fino alla
poltroncina di fianco al letto e stringe la mano di suo padre, senza che lui
gliela stringa di rimando. La funzionalità dei muscoli sta cedendo, gli organi
e ogni parte di lui si stanno lentamente decomponendo.
Sono le
controindicazioni dell’essere uno studente di medicina. Riconosce i sintomi
ancor prima che questi si manifestino nei valori riportati sulla cartella
clinica. Li desume dalle occhiaie incipienti, dalla progressiva perdita di peso,
dall’inappetenza. Li legge nell’improvvisa trazione delle spalle di suo padre,
dal modo in cui le ingobbisce, da uno spasmo della mano sinistra per una fitta
più forte delle precedenti, dal sorriso tirato che, nello svegliarsi da un
sonno leggero, le rivolge quando si accorge che, tenendogli il polso, lei stava
contando le sue pulsazioni.
Arriverà il momento in
cui di suo padre, l’uomo che l’ha cresciuta e amata per vent’anni, non rimarrà
che uno scheletro ed occhi che non sono più in grado di vederla o riconoscerla.
Suo padre non arriverà a
quel giorno. Glielo ha fatto giurare molto tempo prima, ai primi stadi della
malattia. Dovrà sembrare un incidente: un’overdose di morfina. Molly ha
accettato e promesso perché è una stupida sentimentale e non esiste nulla al mondo che non
farebbe per chi le è caro, anche uccidere, laddove necessario, e così facendo
dannarsi l’anima.
Ci sono giorni in cui lo
trova in compagnia del bambino la cui sorella è ricoverata nel reparto
pediatrico perché soffre di leucemia. Si chiama Bobby e ha sette anni. Ascolta
la risata rauca di suo padre mentre spolvera gli stessi indovinelli che usava
proporre a lei o mentre gioca a cowboy e indiani.
Ce ne sono altri in cui
fanno i cruciverba e lei legge per lui brani dai suoi libri preferiti; ci sono
giorni in cui ascoltano musica dal giradischi e quelli in cui le parla di sua
madre.
Ci sono giorni in cui
entrambi sono troppo stanchi per fare altro che non sia bearsi della reciproca
presenza, come gatti ad oziare al calore del sole, in cui si godono
semplicemente il silenzio ricco che l’altro ha da offrire. Ed è un silenzio
tanto più significativo del chiasso superfluo e dello spreco di parole che è la
tendenza universale.
E c’è un giorno in
particolare, uno che Molly non dimenticherà mai, quello in cui scopre com’è suo
padre senza di lei, com’è quando non c’è la sua presenza a costringerlo a fingere.
La verità, impara Molly,
non è sempre gentile tantomeno misericordiosa. Quel giorno, spiando la smorfia
addolorata con cui suo padre fissa la poltroncina che lei è solita occupare, la
tristezza che divampa nel suo volto sfigurato dalla malattia e glielo scava,
incupendolo, le si spezza il cuore. E’ anche il giorno in cui impara che un
sorriso è la maschera per eccellenza e la risata il suo simulacro. Perciò,
quando entra nella stanza, poco più tardi, il suo sorriso è gaio, la sua risata
è trillante e cosa importa che siano forzati oppure no? Che sia tutta una
bugia?
Non c’è peggior sordo di
chi non vuol sentire. Lei è stata cieca, cieca, cieca.
“Immagino che tu non
intenda aiutarmi,” dice Molly con un tono che per la verità è tutto fuorché infastidito.
Il sorriso da Stregatto che
riceve da suo padre è una risposta sufficiente e lui non accenna a distogliere
lo sguardo dai fogli sparsi a ventaglio sulle lenzuola del letto.
“Lo prendo come un no,” sospira e cerca di districarsi dalla costrizione della corda con cui Bobby
l’ha legata alla sedia, peraltro senza grandi risultati. E’ diventato
incredibilmente difficile, infatti, liberarsi da quando suo padre gli ha
insegnato i nodi da marinaio.
Suo padre sta leggendo
la sua tesi (c’è da chiedersi come riesca a concentrarsi considerato il baccano
che sta facendo Bobby. Le gira attorno, saltellando in un balletto di sua
invenzione che mescola la danza della pioggia a un inno propiziatorio alla
guerra, battendo la mano sulla bocca mentre fa il verso degli indiani), gli
occhiali inforcati sulla radice del naso come una strana mascherina, gli occhi
azzurri vividissimi nella bautta di cera in cui si è trasformata la sua faccia.
La forma prominente del naso è l’unica cosa rimasta intatta del suo volto:
guance incavate dove prima c’era la floridezza sana della sua prestanza,
mandibola cascante al posto della curva inflessibile che era il simbolo della
sua tenacia, fronte calva invece dell’attaccatura dei suoi capelli color
sabbia, orecchie schiacciate ai lati e linea astratta della bocca. Tutto
risucchiato via, defraudato da un incubo che Molly vede concretizzarsi giorno
dopo giorno, la cui conclusione si approssima, insieme agli obblighi che le
competono.
“Papà, sul serio… non
potresti darmi una mano?”
“Tesoro e dove sarebbe
il divertimento? Bobby J. si è così impegnato che sarebbe come defraudarlo
dell’impegno profuso se fosse qualcuno che non sia tu a liberarti.”
Le strizza un occhio e
Molly ride e lo sente ridere con lei, condividere quell’attimo riposante di
allegria senza lo spettro della paura che le ruba il sonno sempre più spesso o le attanglia costantemente il petto. E
poi succede.
La risata si trasforma
in un verso soffocato, un tossire via via più facinoroso, che depriva il poco
colore dalle guance di suo padre.
Bobby ha interrotto la
sua danza e guarda la scena con le pupille dilatate dal terrore, incatenato al
pavimento.
“Bobby, sciogli la
corda,” dice Molly con urgenza mentre suo padre continua a tossire e il suo
respiro si trasforma in un suono raspante e agonizzante che le ghiaccia il
sangue nelle vene. “Bobby,” lo chiama a voce bassa, perché è importante non spaventarlo
più di quanto sia già, ma pressante, incalzandolo. “Bobby, sciogli la corda.
Sciogli la corda, Bobby. Bobby. Bobby.”
Finalmente lui ritorna
in sé. Mentre disfa i nodi con dita impacciate, tremando percettibilmente,
Molly lo istruisce su cosa fare: “Devi correre da Patricia. Puoi farlo, Bobby?
Corri più veloce che puoi.”
Quando la corda è slegata
e Bobby è già filato via a cercare Patricia come gli ha chiesto, Molly si
precipita al capezzale di suo padre. Sta ancora tossendo e lei gli massaggia
con efficacia il petto e la schiena, per poi girarlo su un fianco. Nella pena
lacerante che deve star provando, intanto che inspira ed espira a singhiozzi, suo
padre trova la sua mano. Non riesce a propriamente a stringerla e Molly tenta
di ricordarsi quando ha smesso di farlo. Quando ha smesso di stringerla nelle
sua, incapace di infondere un briciolo di vigore ed energia nella sua presa
troppo debilitata e fiacca? Ormai anche lei evita di farlo. Il contatto fisico
per lui è diventato l’estensione del dolore, suo prolungamento. E’ quasi
ustionante, perciò Molly si limita a poggiare la mano di fianco alla sua,
lasciandola accostata a quella di lui in una parvenza di carezza, ma senza
sfiorarla.
La mano di suo padre è
ossuta e gracile. Tutto in lui è avamposto di fragilità. Le sembra di
annaspare, di camminare su cocci di vetri rotti, ingoiare della sabbia.
“E’ il momento, Molly.”
No, no, non può dire sul
serio. Non può stare accadendo davvero. Non lo accetta. Non è giusto. Non –
“Molly,” suo padre esala
un respiro di pura agonia, il tormento nel suo sguardo le spezza il cuore.
“Molly,” supplica, “te ne prego.”
La sua vita è dolore.
Non c’è più amore o calore o tenerezza o gioia. Solo un abisso di sofferenza e
supplizi indicibili.
Molly gli prende i polsi
scarni, soppesandoli. Del gigante biondo che da bambina la sollevava in aria,
chiamandola il suo piccolo colibrì perché era troppo mingherlina e non stava un
attimo ferma, di quell’uomo sono rimaste concavità e sporgenze appuntite,
avallamenti e depressioni.
“D’accordo,”
acconsente con una voce atona che stenta
a riconoscere come propria. “Stasera.”
*
L’indirizzo
è esatto, perciò è stupido sperare di essersi sbagliato, anche se il sorriso da
squalo balena della signora alla reception gli risulta già più sgradito di
quello condiscendente di Mycroft, il che è un record opinabile, ma giustifica
il suo stato di irritazione.
Sherlock
prende posto senza battere ciglio, occupando una delle poltroncine petrolio più
prossime alla porta dello studio e si prepara a un’atroce attesa.
Sente
gli occhi grigi della signora perforargli il cranio, come puntaspilli, ma non
si sforza di mostrarsene toccato. E’ indifferente all’interesse che solitamente
desta negli estranei, agli sguardi che attira nella folla, alla curiosità. Per
lui sono del tutto irrilevanti, privi di significato.
“Dovrebbe
liberarsi presto, caro,” tuba con voce zuccherina la signora. Sulla sessantina. Due figli in età adulta.
Un marito disoccupato e una madre malata di cui prendersi cura. In evidente sovrappeso
per lo stress dovuto alla situazione familiare problematica. “L’appuntamento
delle quattro dovrebbe finire a momenti.”
L’appuntamento
delle quattro esce di lì a poco. Si tratta di una ragazza di ventidue anni,
anno più anno meno, dal fisico esageratamente filiforme e vestita dei colori
dei datteri e dei kaki. Rimane impalata, notandolo, mentre in fondo agli occhi
scuri le si accende la scintilla di un’emozione senza nome. Appare interdetta.
Poi, com’è comparsa, quella breve scintilla si spegne e il suo viso ritorna
inespressivo e immobile.
Lui
si alza agilmente e la oltrepassa, senza degnarla di un secondo sguardo. Sa già
più di quanto gli serva sapere.
Passandole
accanto, ne aggiunge un’altra: profuma di formaldeide e limone. Si porta cucita
addosso, sulla pelle, oltre che nell’abisso dei suoi occhi straordinariamente
tristi, la morte. E ciononostante, è un pensiero che è il contrario di freddezza
e distacco e oggettività e del tipo d’uomo che ha scelto di essere, che perciò
va bandito, estirpato, cancellato, ciononostante, nella storia che racconta, incarna
nel modo più veritiero e autentico concepibile tutto ciò che è vita.
N/A:
Sinceramente non so da dove o come mi
sia nata l’idea per questa storia. So soltanto che stavo scrivendo tutt’altro,
che mi ero ripromessa concentrazione e completa abdicazione all’altra storia e
in risposta a questa mia risolutezza, perché Coerenza è il mio secondo nome, ho
iniziato a buttar giù questa, riversando su .word quello che in breve è finito
col diventare un fiume di parole in piena regola.
Non so se abbia un senso, spero che per
voi ne abbia, ovviamente per me ne ha, ma io non faccio testo xD
Temo
che, malgrado maldestri e ripetuti tentativi falliti da parte mia di
renderlo quanto più simile possibile all'idea originale, il
risultato non si avvicini neppure lontanamente a quello che avrei
desiderato. Sono però due settimane a oltranza che macera sul
desktop, aspettando che una folgorazione o un'improvvisa ispirazione mi
consentano di limarlo quanto vorrei. Perciò, visto che sono un
essere pigro per natura, mi sono convinta a lasciarlo in questo stato
grezzo, sperando che, benchè "non buono" sia almeno
"sufficientemente buono" o perfino "abbastanza buono", anche se ai miei
occhi resta più una bozza che una storia vera e propria. Di
questo mi scuso profusamente.
Fanno
ritorno una miriade di idee di
vecchia data che ricorrono con grande frequenza nelle altre mie storie,
tra queste quella che il padre di Molly sia morto di cancro durante
gli anni in cui lei frequentava l’università (non farina
del mio sacco, è
qualcosa che spopola nel fandom d’oltremanica) e una, puro angst,
(mia headcanon) secondo cui
Molly abbia provocato un’overdose di morfina al padre,
provocandone così la
morte per evitargli ulteriore dolore nel protrarsi della malattia; e
ovviamente
quella sul disturbo alimentare di Molly, non un vero e proprio disturbo
alimentare, ma un’inappetenza generata dallo stress e dalla
situazione
traumatica della morte del padre.
Contrariamente al solito, non si tratta
di una Sherlolly, perché una volta tanto non è nata con quell’intenzione. E’
nata unicamente per Molly, perché a mio avviso all’interno della serie meriterebbe
maggiore spazio e possibilità di manovra per rendere visibile quanto poco
ordinaria sia a conti fatti e quanto efficacemente la sua natura gentile,
alternativamente quieta e vivace, rispecchi l’ossimoro che ogni persona può
essere nella sua specificità.
Ringrazio tutte voi per l’attenzione
e per la premura e la bellezza che riversate su di me attraverso le vostre
recensioni. A molte non ho ancora avuto modo e tempo di rispondere ed è una
mancanza a cui spero di sopperire quanto prima. Come al solito, spero davvero
che, per quanto bislacca e stravagante, la storia vi sia piaciuta o vi abbia trasmesso qualcosa.
Un bacione!
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