NdA: Questa storia è
un regalo scritto appositamente per la dolcissima graciousghost,
per ringraziarla dello splendido racconto di cui lei mi ha fatto dono
per il mio compleanno, e che può essere letto qui.
I personaggi di questa vicenda fanno parte di un progetto
più ampio che li coinvolge, e che al momento è in
stand-by. La one-shot, però, è stata scritta come
una storia del tutto a sé stante e autoconclusiva, che spero
si regga in piedi con le sue gambe. Buona lettura.
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Legami di famiglia
Quel giorno il telefono
è stranamente muto. Il filo
arrotolato attorno al quadrante laccato di nero, i tasti tante
piccole
protuberanze lucide che sporgono come denti – sembra
un serpente
addormentato. O così pare a Dominick, che lo fissa dalla
poltrona girevole di
spalle alla vetrata cromata come se da un momento all'altro potesse
alzare la
testa e scattare per azzannarlo.
È strano vederlo così
zitto, quel telefono. Sta
sempre a trillare e ringhiare sulla sua scrivania,
nell'ufficio all'ultimo
piano dell'elegante palazzina sulla Fifth Avenue.
Una tarda mattina
invernale, inondata di quella luce
lattiginosa che a New York si ostinano a chiamare sole.
Ah-ah. Cielo
gonfio, strade impastate di caligine appiccicosa come melassa. Se la
sente
addosso, accartocciargli i vestiti sulla schiena come una muta
prematura.
Non ha dormito,
Dominick. Ha passato le ultime
ore a discutere di tassi di cambio e andamento della
Borsa – (le azioni
collegate alle sue attività a Las Vegas, quelle lecite e
anche quelle un po’
meno lecite, sono schizzate fino ai soffitti, graziaddio) –
ma lui non ha
dormito. Un centinaio di persone dipendono da lui – dalla sua
freddezza, dalla
calcolata ragionevolezza delle sue decisioni – (e da quel
cazzo di telefono,
non scordiamoci il telefono) – e lui non ha dormito.
Troppo facile chiedersi di
chi sia la colpa. O il
merito, a voler essere precisi.
Incurva le labbra in un
sorriso pigro, giusto
un'inclinazione infinitesimale della bocca, ed è
tutto. Tutto quello che
si concede di mostrare al mondo a questo riguardo. Il sorriso di un
gatto che
si crogiola nella sua piccola, privata soddisfazione, se i felini
potessero
ridere.
Afferra il serpente
accovacciato all'angolo della
scrivania – lo fa con un impeto tale che per poco
non lo manda a sbattere
sul pavimento e tante grazie – e compone il numero. Non un
numero.
Il numero.
Perché ce
n'è uno che ha proprio assunto i connotati
di un'accezione assoluta.
Che cosa curiosa.
Il display luminoso
incastonato nello smalto scuro del
telefono lampeggia una lettera. D.
Solo quello.
D.
Tutto e niente. Una lettera
dell'alfabeto – il nucleo
pulsante sepolto nella parte più profonda di sé.
Nucleo vitale. Sangue, e
respiro, e identità, e
mistero, e rivelazione. Cristo Santo, Dave – (gli
pare di sentirsi,
mentre glielo dice).
D. – Come
David – che come un buco nero succhia e aspira tutto
– ingurgita energia,
se ne nutre, perché non può farne a meno. Come
Dominick – che non vuole dargli
niente meno di questo.
Una cazzo di lettera
dell'alfabeto – Il tassello
centrale del rompicapo che è la vita di Dominick Clericuzio.
Togli quella
tessera e addio chiave di lettura – (e perché, a
proposito, deve sempre
ragionare per associazioni mentali e ordinative?)
Ma ora non c'è
tempo per rispondersi. Uno squillo, due
– segnale di libero. Poi, una voce rauca e fonda, come quei
pozzi neri che
succhiano e ingurgitano in agguato negli angoli bui dell'universo.
E lui vuole essere
succhiato. Vuole essere inghiottito.
"Ti aspetto qui sotto fra
un'ora
esatta. Pranziamo insieme, Die."
Lo ascolta respirare
– lo sente dire qualcosa, ma non
importa se non capirà cosa. Dave spesso parla a voce
talmente bassa che persino
per lui è impossibile decifrarlo.
Ma non è
necessario. Non lo fa neanche finire.
"Ti devo vedere"
– gli dice.
Perché
è vero. Deve. In una vita fatta di
imperativi
abbaiati agli altri, è la prima volta che un ordine ha il
sapore di una
supplica.
Poi riattacca. Si lascia
andare contro lo schienale
della poltrona, incrociando le braccia dietro la nuca, e chiude gli
occhi.
Si sente in pace con se
stesso ora, Dominick. In quel
piccolo, complicato microcosmo che è la sua vita, il flusso
normale delle cose
ha ripreso a scorrere.
Nonostante il buco nero che
gli succhia via il sonno e
le forze. Nonostante si consumino e si annullino e si assimilino come i
due
poli opposti di una batteria – fino a non lasciare
più nulla per niente.
E per nessuno.
Ma è in pace,
Dominick. Ora sì.
Di tutto il resto non
gliene frega un cazzo.
Lo aspetta seduto a uno dei
tavoli esterni della
caffetteria all’angolo tra la Fifth e la 49esima, il
cappuccino che si sta già
freddando. Per essere fine febbraio è una mattina
insolitamente mite e Dominick
si è tolto il soprabito, rimanendo solo con la giacca
comodamente sbottonata
sul gilet di seta.
Lo vede arrivare
già da lontano e sofferma lo sguardo
sui suoi pantaloni informi, sulla camicia hawaiana con le stampe a
fiori e le
orrende infradito gialle che spuntano dall’orlo troppo lungo
dei calzoni grigi,
e scuote la testa.
Quando David si siede al
tavolo e scrolla i lunghi
rasta che gli ricadono sulla schiena, non può fare a meno di
sorridere con un
guizzo rapido delle labbra.
“Quando la
smetterai di andartene in giro come uno
straccione?” lo saluta mentre tira fuori il pacchetto di
Marlboro dal taschino
della giacca e se ne accende una. “Un Clericuzio non dovrebbe
conciarsi come un
ciabattino da strada.”
David si stringe nelle
spalle e si mette più comodo
sulla sedia, richiamando con un gesto il cameriere affaccendato a
pulire uno
dei tavoli accanto.
“Sono vestito
come un normale essere umano, Dom,”
risponde. “Esseri umani,
comprendi la
parola? Una cosa per cui tu non potresti mai essere
scambiato.” Gli rivolge un
ghigno mentre osserva la tazza di cappuccino con la schiuma
completamente sciolta.
Se l’avvicina e ne beve un sorso, poi la fa ricadere sul
tavolo con un battito
sonoro. “Perché volevi vedermi?”
Dominick non risponde; alza
lo sguardo sul cameriere
che intanto si è avvicinato con il blocchetto per le comande.
“Un Martini on
the rocks,” ordina, poi indica David con un cenno
della testa. “E porta una
birra per mio fratello.”
Se il cameriere li ha
fissati un attimo di troppo non
l’ha dato a vedere, e del resto la curiosità della
gente non è più una novità
per loro; da quando David è tornato a casa ha dovuto
abituarsi agli sguardi
perplessi di chi li incrocia, e non solo perché sono due
gocce d’acqua. È il
contrasto che salta all’occhio, questo è in grado
di capirlo anche lui; al di
là dei tratti identici di viso e corporatura, non potrebbero
essere più
diversi. Là dove lui ama completi di alta sartoria e sfoggia
un taglio di
capelli impeccabile, David se ne va in giro come un figlio di nessuno e
con
quella matassa di rasta arruffati che starebbe meglio in testa a un
cantante reggae
che al figlio di uno degli uomini più potenti della costa
est.
Ma si è abituato
anche a questo e, del resto,
chiamarlo fratello – come
ha appena
fatto – gli regala sempre un brivido lungo la schiena che va
a compensare ogni
perplessità che la strana creatura che ora gli siede davanti
riesce a
instillargli.
“Devo avere un
motivo per incontrarti?” dice,
prendendo una boccata di fumo.
“No. Ma dopo il
giro di locali che ti ho fatto fare
stanotte, credevo fossi troppo stanco e impegnato con i tuoi affari per
avere
cazzi di vedermi.”
Dominick picchietta la
sigaretta sul posacenere e poi
la lascia lì, appesa tra le dita. “Devo ammettere
che stamani ho fatto una
certa fatica a concentrarmi in riunione, ma nulla di preoccupante. E
comunque…”
Si interrompe al ritorno del cameriere, e discosta il braccio per far
spazio al
bicchiere di Martini e al boccale schiumante di birra. Poi si
riappoggia al
tavolo con tutt’e due i gomiti.
“Comunque,”
riprende, dopo che il cameriere si è
allontanato, “sono anche i tuoi
affari,
se ti degnassi di venire in ufficio una volta ogni tanto, invece di
bighellonare per la città come un cane randagio.”
David ride, ed è
un suono rauco e basso, tipico di chi
non è abituato a farlo.
“Avanti,
Dominick,” risponde, prendendo un sorso di
birra. “Sei tu l’uomo in colletto bianco, e te la
cavi benissimo. Non hai
bisogno del mio aiuto, né di quello di nessun altro a
dirtela tutta. Al massimo
posso darti una mano a schivare qualche pallottola.”
“Non è
del tuo aiuto che parlo, Dave.” Il tono gli è
uscito più severo di quel che intendeva ma non se ne pente.
Almeno adesso ha la
sua attenzione. “Devi prendere il posto che ti spetta in
questa famiglia. Sono
passati otto mesi da quando siamo tornati da Las Vegas e ancora non ne
vuoi
sapere. Nostro padre è preoccupato, e onestamente
anch’io.” Si porta la
sigaretta alla bocca e aspira un’altra boccata.
“Sono anche piuttosto deluso.
Quando comincerai a comportarti come un Clericuzio?”
Lo fissa e ora
sì, lo sta osservando anche suo
fratello, con quello strano miscuglio di sorpresa e imbarazzo che gli
galleggia
sempre negli occhi, quando tira fuori il discorso della loro parentela.
La
verità è che David non si è ancora
abituato a questo, e forse non ci riuscirà
mai. Difficile convincersi di avere una famiglia quando hai passato
tutta
l’esistenza come un animale sciolto, costretto a ogni angolo
a guardarti le
spalle.
Del resto, riflette mentre
prende un sorso dal suo
Martini con ghiaccio, non è facile neanche per lui
– non dopo essersi sentito
per anni come una creatura tagliata a metà. Questa
sensazione di pienezza che
prova, guardando il gemello che gli sta seduto davanti come fosse la
cosa più
normale del mondo, lo coglie ogni volta impreparato e lo fa sentire
vulnerabile
– cosa strana per qualcuno che è sempre stato
l’individuo alfa all’interno di
un branco di lupi.
La verità
è che nessuno se l’aspettava, lui men che
meno. Sapeva di essere nato con un gemello, ma il bambino era stato
rapito in
fasce per ordine di una delle famiglie rivali di loro padre, in una
sorta di crudele
regolamento di conti.
Per anni avevano creduto
che Daniel – questo il nome
con cui era stato battezzato – fosse finito ucciso. Ma il
fato segue strani
tracciati – e il destino portava il nome del sicario che,
invece di
giustiziarlo, l’aveva allevato, insegnandogli il mestiere
senza rivelargli nulla
delle sue origini. Dopo la sua morte, David era rimasto da solo e aveva
seguito
le orme di quello che aveva creduto suo padre. Da solo, come il killer
prezzolato che era diventato.
E un giorno Dominick se
l’era trovato davanti a un
tavolo da gioco a Las Vegas, venuto a osservare il bersaglio da
abbattere che
la famiglia Santagata gli aveva assegnato – un bersaglio con
la sua stessa
faccia, la stessa voce. Gli stessi occhi per intuire la
verità ancor prima di
conoscerla.
Alla fine, gli unici a
morire erano stati i suoi
committenti, ed era stato strano trovarsi a ordire una serie di omicidi
insieme
a un fratello appena ritrovato. Ma, prima di questo, c’era
stato quel bizzarro
interludio nella sua camera d’albergo, quando si stavano
ancora studiando,
indecisi se quella somiglianza perfetta fosse solo un caso, o uno
scherzo del
destino. David non poteva sapere, ma lui sì, eppure non ci
aveva creduto fin
quando non gli aveva tolto la camicia, e la voglia purpurea alla base
dei lombi
– identica alla sua e a quella della loro madre –
era stata messa allo
scoperto. Prima c’erano stati dei baci a cui non è
prudente ripensare ora, e un
impulso ad annullare ogni distanza tra la loro pelle identica che si
era spezzato
solo quando Dominick aveva avuto certezza di dividere il sangue con
lui, e non
solo una fortuita somiglianza.
Da allora non
c’è stato più niente del genere
– solo
una lenta riscoperta degli anni passati lontani, per lui, e di una
famiglia che
mai avrebbe creduto di avere, per David. Ma quell’impulso lo
sente ancora
agitarsi da qualche parte dentro di sé, e non solo quando lo
guarda; lo sente
sul fondo delle tempie e nel retro degli occhi, quando ci pensa; lo
intuisce
nel fremito sulla punta delle dita, quando lo tocca sulle spalle per
richiamare
la sua attenzione. Lo percepisce in questa carne che condividono,
divisa per
troppi anni e che ora sembra reclamare la vicinanza negata con tutti
gli
interessi del caso.
Continua a fissarlo e sa
che lo sente anche David. Die, come
ha preso ad appellarlo sempre
più spesso.
Non sopporta di essere
chiamato Daniel, come si ostina
a fare loro padre – non è il suo nome e non lo
sarà mai.
Per lui è Dave,
ma gli piace il modo in cui la loro
iniziale scivola sulla lingua per battere piano sui denti. E ogni volta
che lo
fa, che lo chiama così, gli sembra quasi di vederlo
arrossire.
Ma ha imparato quanto suo
fratello sia vulnerabile
all’affetto.
Al suo, quantomeno. E gli
piace ricordarglielo. Ah,
sì. Gli piace da morire.
“Non sono certo
di sentirmi ancora un Clericuzio,
come dici tu,” risponde
David, e la voce gli incespica sulle parole, forse confuso dal lungo
silenzio.
“Preferirei continuare a incontrarti come ho fatto finora.
Berci qualcosa,
andare in giro. Cose così. Non mi chiedere altro.”
“Io invece vorrei
che venissi a stare a casa nostra, Die.”
Dominick picchietta la sigaretta
sul posacenere, fin quando la brace non si stacca dal cilindro di
carta.
“Invece di nasconderti in quella tana di sorci che continui a
chiamare appartamento. È
troppo chiedere di poter
vivere insieme a mio fratello, dopo averlo creduto morto per
anni?”
David abbassa la testa e i
rasta gli ricadono ai lati
del viso; non guarda mai nessuno negli occhi, abituato
com’è a osservare il
mondo solo attraverso un mirino di precisione. Solo una volta
l’ha fissato nei
suoi, ma al momento era troppo occupato a baciarlo per farci caso.
“Te
l’ho detto. Devi darmi un po’ di tempo per
abituarmi. È già tanto sopportare le occhiate di
tuo padre quando vengo a cena.
Ti immagini se dovesse avermi attorno ogni giorno?”
Dominick sospira, e si
passa una mano tra i capelli
tagliati nell’elegante carré con la riga in mezzo.
“Nostro
padre,” lo interrompe, “è solo
preoccupato per il fatto che, quando vieni a trovarlo,
ti comporti come un randagio che si è infiltrato dalla porta
di servizio. Vuole
quanto me che tu ti senta a casa tua. Ti è così
difficile da capire?”
Osserva suo fratello
prendere una lunga sorsata di
birra, fino a svuotare il bicchiere. Quando lo riappoggia al tavolo la
mano gli
trema, ed è strano constatarlo, tenuto conto di quanto siano
salde le sue dita
quando premono sopra un grilletto.
“Al momento
vorrei solo avere qualcosa da fare,” dice,
tamburellando le dita sul legno. “Non sono abituato a questa
inattività. A non
dovermi guadagnare da vivere.”
“Vieni in ufficio
con me, allora. Te lo trovo io il
modo di farti passare il tempo.”
David ride di nuovo, e
stavolta il suono che gli esce
dal petto sembra davvero divertito. “Che ne dici, invece, se
ti facessi da
guardia del corpo?” Lo indica dall’altra parte del
tavolo, come punterebbe il
dito verso una bestia strana. “Guardati. Te ne vai in giro
senza una
precauzione, come se tu fossi davvero solo uno di quei pezzi grossi di
Wall
Street. Mi preoccupi, Dom. Mi preoccupi davvero.”
Stavolta è
Dominick a ridere, e lo fa in modo educato,
senza dargli a vedere quanto lo colpisca e lusinghi la sua
preoccupazione.
“Un uomo
d’affari è esattamente quello che sono,”
risponde, dopo un altro sorso di Martini, “è
finito il tempo in cui i gangster
andavano in giro a spararsi addosso per le strade. Piantala di stare
così in ansia.
Non corro rischi alla luce del sole, ma ti ringrazio per il
pensiero.”
David si stringe nelle
spalle, senza convinzione; poi
getta un’occhiata all’orribile orologio di plastica
gialla che porta al polso.
“Sono le due,” osserva. “Non devi
rientrare?”
“Temo di
sì.” Dominick sospira, e si volta a frugare
nelle tasche del cappotto, tirando fuori il portafoglio. “Ma
non credere che il
discorso finisca qua. Ci torneremo sopra, Dave. Che ti piaccia o
no.” Estrae
una banconota da venti dollari e la infila sotto il bicchiere vuoto.
“Ora capisco
perché ti chiamano Saint,”
risponde David a tono, mentre si alza. “Basta dare un'occhiata alle mance che lasci.”
“Quello
è il soprannome con cui mi chiamano i miei
nemici.” Anche Dominick si rimette in piedi e indossa il
soprabito. “Ed è
ironico, se non l’hai capito.”
Si avviano nella stessa
direzione; ormai è una routine
consolidata tra loro: una bevuta insieme vicino all’ufficio,
pochi passi
affiancati, e un breve saluto davanti alle porte girevoli.
Ma oggi
c’è qualcosa di diverso; Dominick lo intuisce
nell’improvvisa tensione di David al suo fianco e nello
scalpiccio di passi improvviso
alle sue spalle. Si volta di scatto e fa appena in tempo a incrociare
lo sguardo
dell’uomo che gli viene incontro, a vedersi riflesso nei suoi
occhiali scuri
mentre quello estrae una pistola da dentro la giacca e gliela punta
contro.
“Stai
giù,
Dominick!” Il grido di suo fratello gli si conficca
nelle orecchie più forte
dello sparo mentre lo spinge via, e poi arriva il dolore, quando sbatte
contro
il muro del palazzo e per poco non finisce a terra. Quando abbassa la
testa,
però, sul marciapiede c’è solo David,
riverso sul fianco e una mano premuta sulla
spalla, mentre una chiazza di sangue gli si allarga sotto il corpo e va
a rifluire
nel tombino lì accanto.
Dominick sente il respiro
bloccarsi e apre bocca per
chiamarlo, ma gli esce solo un rantolo sfiatato. Si inginocchia al suo
fianco e
getta un’occhiata attorno, ma il sicario, chiunque fosse, si
è già dileguato
nella folla che grida e si disperde per le strade, in uno scalpiccio di
passi e
strombazzate di clacson. Qualcuno si è anche avvicinato, ma
Dominick non gli
presta attenzione. Le mani fredde come marmo, afferra suo fratello e lo
rivolta
faccia in su, sentendolo rigido e inerte come fosse fatto di stracci.
“Mio Dio,
Dave…” riesce a dire mentre gli prende la
testa tra le mani e cerca la pulsazione della carotide alla base del
collo. Fa
fatica a trovarla ma c’è, anche se è
veloce e attutita. Ha perso conoscenza; il
sangue che gli sgorga dalla bocca e da sotto la spalla gli ha
già inzuppato la
camicia, e ora ce l’ha addosso anche a lui – sulle
mani, sopra la giacca, nel
reticolo rosso che gli scoppia davanti agli occhi quando sente il
sibilo
dell’aria che scivola fuori dal polmone forato di suo
fratello.
“Chiamate
un’ambulanza!”
grida, così forte da sentire qualcosa che si strappa in
fondo alla gola. Prende
il cellulare per farlo lui stesso ma il telefono gli scivola via dalle
dita
viscide di sangue e non riesce più a individuarlo con la
vista appannata.
Stringe David contro di sé e rimane così, a
cullarlo come una Pietà dolorosa
con il Cristo tra le braccia, fin quando non sente
l’ambulanza che si avvicina
a sirene spiegate.
La camera privata nella
clinica di Long Island è
bianca e asettica, eccetto che per un paio di tendine azzurre alla
finestra che
a malapena schermano la luce.
Nel silenzio della stanza,
il sibilo basso del
respiratore gli arriva alle orecchie come il rantolo di un moribondo.
Sa che
non dovrebbe pensarla così, il medico gliel’ha
assicurato: la ferita è seria ma
David non è in pericolo di vita. È stato sedato e
posto in coma farmacologico
fin quando il suo corpo non si sarà ripreso abbastanza da
poter affrontare una
convalescenza cosciente. Gli hanno estratto la pallottola da una delle
costole;
poco più in alto e gli si sarebbe piantata dritta nel
cuore. Così, invece,
hanno solo dovuto rammendargli un polmone, e farlo dormire per un
po’.
Sempre troppo, per quanto
lo riguarda.
Si avvicina al letto dove
suo fratello è attaccato ai
tubi che, per i primi giorni, l’hanno tenuto in vita. Il
macchinario accanto al
cuscino rimanda i parametri regolari di battito e pressione, emettendo
una
serie di bip ovattati a intervalli regolari.
Dominick non li sente
nemmeno. Rimane in piedi a
osservare il braccio bianco di David allungato sul copriletto, e
l’ago della
flebo innestato nella carne, dove ha lasciato dei brutti segni violacei
tutto
attorno.
Fa correre gli occhi sui
tatuaggi incisi sul suo
avambraccio e non può fare a meno di domandarsi
perché non gli abbia chiesto
prima perché se li è fatti, quando – e
cosa rappresentano. Spera solo di avere
un’altra occasione per farlo – chiedergli dei segni
che ha addosso, e milioni
di altre cose.
Non ha fatto altro che
pensarci, da quando è stato
ferito, prendendosi la pallottola che era destinata a lui.
Dopo averlo ritrovato
è stato troppo occupato a
tentare di reinserirlo in famiglia volente o nolente, come la tessera
perduta
di un mosaico, per interessarsi davvero di lui e di quel che era stato
prima di
incontrarlo.
Ora si rende conto
dell’errore madornale che ha
compiuto.
Quando
comincerai a comportarti come un Clericuzio?
Perché, tanto
per cominciare, non ha provato a capire
chi era davvero, suo fratello, prima di scoprirsi tale?
Si china a osservare il suo
viso tanto simile al
proprio, i tatuaggi che ha anche sul collo, i capelli lunghi fino alle
spalle.
Glieli scosta dalla fronte col palmo della mano, e poi la lascia
lì – sulla sua
pelle tiepida, fin quando non la sente diventare bollente.
Anche quella notte in hotel
lo era, mentre lo toccava
con una foga che non si era mai conosciuto, e gli strappava di dosso
gli
stracci di cui era coperto. Ha pensato anche a questo da quando
è confinato in
questo letto, e tutt’ora non riesce a darsi una risposta.
Forse potrebbe dargliela
lui, se riuscisse a parlare –
ma probabilmente si limiterebbe a restare in silenzio,
perché David è come uno
di quegli animali guardinghi che osservano zitti e acquattati
nell’ombra, senza
esporsi mai alla luce del giorno.
E lui, che si credeva un
leone, si ritrova a tremare
come un agnello – ed è strano, per una volta,
sentirsi il fianco tanto
scoperto.
È nato ed
è stato cresciuto per comandare, e l’ha
sempre fatto, da che ricordi. Allevato come un principe designato a
sedere a
capo di un impero – perché la sua famiglia non
è altro che questo, come nell’antichità
potevano esserlo le caste di patrizi romani destinate a governare il
mondo. Gli
è sempre piaciuto studiare la Storia, rintracciare a ritroso
nel tempo le
radici del potere in cui è stato immerso fin dalla culla.
E il ruolo tagliato per lui
da suo padre, e dal padre
di suo padre, se l’è sempre sentito cucito addosso
come un guanto; gli è stato
facile farsi obbedire, e non soltanto dagli uomini che, dietro le
quinte, ha
dovuto mandare al massacro per consolidare questo dominio. Si definisce
un uomo
d’affari e non un gangster – anche se nel suo
ambiente continuano a chiamarlo Saint,
come in un film sulla mala – perché,
fin dall’inizio, ha cercato di traghettare le
attività di famiglia verso il
sole della legalità, anche se per farlo ha dovuto e
dovrà eliminare un bel po’
di ostacoli dalla sua strada.
Questo non l’ha
mai spaventato; si è abituato presto
ad aspettarsi degli attentati alla sua vita, solo che quella pallottola
avrebbe
dovuto prendersela lui, e non l’uomo che ora giace
incosciente davanti ai suoi
occhi.
Lo accarezza piano sulla
fronte, e avverte di nuovo
quella puntura di dolore morderlo nel petto, che lo rende
inspiegabilmente
debole come mai prima d’ora.
Si è sentito
mutilato di qualcosa per tutta la vita, nonostante
l’autorità, nonostante tutta la sua
determinazione. L’idea di poter di nuovo
provare quel vuoto lo annichilisce e gli taglia il respiro; gli fa
sentire il
morso del terrore per la prima volta nella sua esistenza.
“Non mi mollare
proprio ora che ti ho ritrovato,”
sussurra, premendo le dita nella carne cedevole del viso di suo
fratello. “Non
lo sopporterei, Die. Non farmi
questo.”
Il rumore della porta che
si apre gli fa ritirare la
mano di scatto. Si volta e, sulla soglia, c’è
Ralph Bonpensiero che lo fissa
con le mani nelle tasche dell’elegante gessato grigio.
Dominick gli rivolge un
saluto con un cenno della
testa mentre lui si avvicina. Si aspettava la sua visita, e gli fa
piacere
vederlo. Ralph è il suo padrino, oltre che il consigliere
della famiglia. Ma
più di tutto è una persona fidata e un amico
prezioso, il più caro tra quelli
di suo padre.
“Come
sta?”
Dominick si stringe nelle
spalle. “Sta. Il Dottor
Longman ha detto che, se reagirà bene alle cure,
potrà ragionevolmente riprendere
conoscenza tra un paio di giorni, forse tre.”
L’altro annuisce,
poi abbassa la testa a osservare
David che giace immobile nel letto, solo una forma composta sotto le
coperte. “Ho
incrociato tuo padre mentre salivo. Anche lui è
preoccupato.”
“Puoi
biasimarlo?” Dominick trattiene la voglia di
sfilare una sigaretta dal pacchetto dentro la giacca e accendersela.
“Ha appena
ritrovato suo figlio, e ora rischia di perderlo.”
“Avrebbe perso
te, se Daniel non si fosse messo in
mezzo.”
“Questo non
è un motivo valido per essere contenti.”
Si avvia verso la finestra
e scosta le tende. Nel
giardino della clinica, un’infermiera spinge la carrozzina di
un paziente, e un
paio di bambini con il cranio rasato giocano a palla, guardati a vista
da una
coppia di medici; sembra tutto normale, tutto continua a scorrere come
se
niente fosse successo, e questo pensiero per un attimo lo rassicura.
“Abbiamo preso il
sicario,” dice Ralph dopo una pausa.
“Era stato mandato dai Santagata. Da quel che ne rimane,
voglio dire.”
Dominick si volta, le dita
che si stringono attorno al
bordo del davanzale. “È ancora vivo?”
La nota crudele nel suo
tono non sfugge a Ralph, che
si affretta a scuotere la testa. “È stato ucciso
mentre cercava di fuggire.”
“Peccato. Avrei
voluto farlo fuori con le mie mani.”
Dominick affonda i denti nel labbro inferiore, fino a farsi male.
“Lentamente.”
“Sarebbe stata
un’imprudenza.”
“Sarebbe stata la
giusta vendetta per quello che è
stato fatto a mio fratello.”
Ralph non ribatte. Forse
non ha nulla da dire, o se ce
l’ha ritiene prudente non farlo.
Dominick si riavvicina al
letto e allunga una mano per
scostare appena le coperte dal petto di David; il suo torace si alza e
si
abbassa lento nella respirazione, e questo dovrebbe confortarlo; ma il
sibilo
del respiratore, invece, rischia di farlo impazzire.
“Non ti ho mai
visto così.”
Dominick alza gli occhi su
Ralph e deve combattere la
tentazione di fulminarlo con lo sguardo; in un altro momento non
avrebbe
permesso a nessuno di fargli notare il pessimo spettacolo che sta
offrendo di
se stesso. Ora, invece, riesce solo a sospirare e riabbassare la testa.
“Non voglio
perdere mio fratello,” dice, e si stupisce
di come la voce gli esca tanto ferma. “Non ora. Non
così.”
“Ne
uscirà, Dom.” Il tono di Ralph suona calmo e
rassicurante. “Il destino non l’ha rimesso sulla
vostra strada per togliervelo
subito dopo.”
Dominick non risponde;
copre di nuovo il busto di
David e passa il palmo sulle pieghe del lenzuolo, fin quando non gli
sembra
abbastanza teso.
Me
lo auguro,
pensa – e sente di nuovo la paura scavargli il
petto, come un artiglio. Me lo auguro
davvero.
Quando Dominick lo guida
dentro la camera,
sostenendolo per la vita, David si lascia sfuggire un fischio di
sorpresa.
“Mi hai detto che
c’era una stanza che mi aspettava a
casa, ma non credevo che ti riferissi al Gran Hotel.”
Fa scivolare via il braccio
che gli tiene attorno alle
spalle e muove un paio di passi malfermi fino a bloccarsi al centro
dell’ambiente.
“Se vuoi che dorma qui dentro, devi almeno farmi pagare
l’affitto.”
Dominick sorride,
portandosi una mano al nodo della
cravatta fino ad allentarlo un po’.
“È
sempre stata la tua camera, Die.
Solo che ora, al posto della culla, c’è un letto
vero.”
Osserva suo fratello
guardarsi attorno come un bambino
la prima volta in un Luna Park. Ha fatto risistemare la stanza,
è vero, ed è
anche vero che né lui né suo padre hanno badato a
spese. Più che una camera sembra
la Suite di un albergo extralusso, ma l’espressione che legge
sulla faccia di David
mentre fissa l’enorme letto King size, la cabina armadio
zeppa di vestiti che
si intravede dalla porta socchiusa, il televisore a sessanta pollici
nell’angolo,
è qualcosa di impagabile.
“Dovevi quasi
farti ammazzare per venire a vivere a
casa tua?” dice, ma il rimprovero suona fiacco, e non ci
crede nemmeno lui.
“Solo per la
convalescenza.” David si lascia cadere
sul letto, e il materasso si affossa sotto il suo peso con un fruscio.
“E
comunque credo che dormirò sul tappeto. Questo letto
è troppo morbido per me.
Mi darebbe gli incubi.”
“Non dire
sciocchezze,” lo schernisce Dominick.
“Verrò
a controllarti, e se ti trovo per terra ti riporto sul letto tirandoti
per quei
capelli schifosi che non ti decidi a tagliare.”
Si avvicina alla finestra e
scosta le pesanti tende di
velluto, facendo filtrare la luce. I vetri rinforzati tagliano via ogni
suono,
ma riesce comunque a vedere l’oceano che si infrange contro
il promontorio di
Nassau; se chiudesse gli occhi, potrebbe quasi sentire il rumore
ovattato delle
onde.
Si volta ed estrae una
sigaretta dal pacchetto; se la
porta alle labbra e l’accende, mentre osserva David ancora
seduto sul letto.
Fa correre gli occhi sul
suo volto pallido, provato dalla lunga degenza; li sofferma sulla sua orribile camicia
technicolor, da cui spunta la fasciatura che gli circonda il petto e si
incrocia sulle spalle; infine blocca lo sguardo nel suo, sentendo
ancora una
volta la familiare sensazione di meraviglia e commozione che sempre lo
coglie quando
lo osserva – ancora vivo, sotto il suo stesso tetto e dentro
la sua vita.
“Quella roba ti
ucciderà prima o poi,” lo rimprovera
David, indicando la sigaretta.
“Di qualcosa devo
pure morire.” Dominick sputa fuori
una nuvola di fumo. “Meglio un chiodo di bara che una
pallottola in testa.”
“A quelle ci
penso io, fratellino.”
L’ha detto in
tono scherzoso, ma deve leggergli
qualcosa nello sguardo, perché si blocca di colpo. Contrae
la fronte e lo fissa
in silenzio, come se si fosse fermato in bilico sull’orlo di
un precipizio.
E in un certo senso
è così. Lo sono stati fin dal loro
primo incontro, riflette Dominick, stringendo la sigaretta tra i denti
fin
quasi a farli combaciare. Basterebbe un passo per gettarsi insieme
oltre il
bordo, e lui lo sa.
Lo sanno entrambi.
“Non farlo mai
più.” E la voce gli trema, per la prima
volta nella sua vita. “Perché se la prossima volta
non ti ammazza la
pallottola, lo faccio io.”
David sospira, e per un
attimo sembra esausto; ma invece
di sdraiarsi si alza in piedi e lo raggiunge vicino alla finestra.
Quando gli
si mette accanto e lo sfiora con la spalla, Dominick rabbrividisce e
sente un identico
brivido correre lungo la schiena di David, come li avesse attraversati
entrambi.
Non si guardano, ma restano
vicini – tanto vicini che
le loro dita si sfiorano.
Poi David solleva una mano
e gliela poggia sulla nuca,
stringendolo piano, poi rilasciandolo e stringendolo ancora.
A Dominick manca il
respiro. Si volta e David lo sta
fissando; quando chiude gli occhi, come fosse accecato dal riverbero,
le sue
labbra sono identiche alle sue, e sono dischiuse.
Dominick inclina il volto e
annulla la distanza, una
volta e per tutte.
Combaciano. Ah,
sì.
E lo fanno alla perfezione.
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