Ranma fissava con sguardo vacuo le braci del fuoco morente,
picchiettando una matita sul taccuino con ritmo ipnotico, indeciso.
Dopo qualche istante, sospirò profondamente e
aprì il quaderno alla prima pagina, bianca come il resto dei
fogli del taccuino vuoto. La matita restò sospesa ancora un
po' sulla pagina, prima che Ranma cominciasse a scribacchiare esitante con
tratti brevi e indecisi. Dopo aver scritto una sola frase, fece una
pausa e guardò le parole sulla carta. ‘Che
stupidaggine,’ c’era scritto.
Si beffò immediatamente del tentativo.
“Non avrei potuto dirlo meglio,”
borbottò sotto voce, prima di gettare il quaderno nella
borsa con rabbia. “Che perdita di tempo,”
ringhiò.
Distrattamente, raccolse la ciotola in cui aveva mangiato lo
stufato e si chinò sulla pentola che conteneva gli avanzi.
Sussultò immediatamente, notando che ne era rimasto
più di metà. “Ne ho fatto
troppo,” osservò, esitando a riconoscere il motivo
del suo errore. Senza pensarci, per la forza dell’abitudine,
aveva preparato la cena per due invece che per uno. “Che
spreco di cibo.”
Si servì lesto un’altra porzione.
“Ittadakimasu¹,” sussurrò
passivamente, tenendo sollevato il cucchiaio sulla ciotola per lunghi,
interminabili momenti, in cui osservò la zuppa con sguardo
assente. Poi, piuttosto bruscamente, la sua espressione
cambiò e scagliò via la ciotola attraverso la
radura, che sbatacchiò con forza e schizzò
dappertutto il suo contenuto andando a finire contro un albero, per poi
crollare a terra e rotolare via tra i cespugli. Ranma non
prestò alcuna attenzione al disastro e affondò
pesantemente la testa fra le braccia, a loro volta appoggiate sulle
ginocchia.
Per qualche istante nessun suono si udì
nella radura, a parte il crepitio della legna sul fuoco. Alla fine
sollevò lo sguardo, fissò la causa della sua
frustrazione con gli occhi stretti e si alzò in piedi
barcollando. Sollevò stoicamente la pentola e la
trasportò deliberatamente in un punto apparentemente a caso
della piccola radura. “Buon appetito,” disse a
nessuno in particolare, mettendo giù la pentola con lo
stufato e ritornando al suo posto davanti al fuoco, di spalle alla
pentola.
Ranma sospirò di nuovo. Non riusciva a ricordare
l’ultima volta in cui non avesse desiderato fare il bis.
“La mia cucina deve fare proprio schifo,”
razionalizzò. Per un po’ si mise ad attizzare il
fuoco con un bastone. “Forse dovrei andare a letto.”
Alzò gli occhi al cielo, dove una leggera nebbia
arancione illuminava ancora quel poco di orizzonte che riusciva a
distinguere attraverso gli alberi. “Non può essere
più tardi delle sette e mezza. È troppo presto
per andare a letto, adesso. Forse potrei allenarmi un
po’,” rifletté ad alta voce. Ma il
suggerimento rimase sospeso nell’aria e lui non
accennò ad alzarsi. Attizzò il fuoco ancora un
po’ e si alzò a raccogliere altra legna, sempre
dando le spalle al punto in cui aveva poggiato la pentola con lo
stufato.
Gettò dei ramoscelli secchi sulle ceneri e ci
impilò sopra la legna con perizia, alimentando la fiamma e
lavorando finché il fuoco non scoppiettò vivace
ancora una volta. Poi si sedette ad ammirare il risultato, ricordando
come il padre gli avesse insegnato ad accendere il fuoco quando aveva
solo sei anni. Sotto la guida di suo padre, si era bruciato
più volte di quante ne riuscisse a contare.
“Stupido vecchio,” borbottò,
massaggiando compulsivamente un punto particolare
dell’avambraccio, dove la pelle sembrava più
chiara ed era increspata per via di una vecchia ustione.
“Sempre incosciente, sempre a farmi fare le cose nel modo
più difficile possibile.”
Nonostante la noncuranza delle sue parole, Ranma non
poté fare a meno di ricordarsi com’era stata
eccitante la prima volta che aveva acceso il fuoco tutto da solo.
Sorrise, pensando a quanto il padre fosse stato orgoglioso di lui.
Ranma aveva imparato la tecnica in men che non si dica e alla fine era
diventato così bravo che riusciva ad accendere il fuoco
molto più velocemente del padre.
I pensieri svanirono e lui sollevò di nuovo un
bastone per attizzare il fuoco. Ma il gesto era inutile e non
riuscì a mantenere la sua attenzione, quindi mise
rapidamente da parte il bastone e si limitò a fissare la
luce del fuoco, che gli faceva bruciare e lacrimare gli occhi per il
troppo fumo e calore, mentre si stringeva le ginocchia fra le braccia e
vi appoggiava il mento. Annoiato, il suo sguardo si posò
sullo zaino e dopo qualche secondo passato a vagliare le opzioni su
come passare il tempo, prese ancora una volta il taccuino, anche se con
riluttanza.
‘Che stupidaggine,’ lesse, prima di
cominciare ad aggiungere qualcosa alla singola frase.
‘…Ma Akane dice che potrebbe servirmi…
non lo so, ad affrontare i miei sentimenti o roba del genere. Qualunque
cosa voglia dire.’ Fece una pausa per riflettere su quella
parola. Sentimenti… Mentre ci pensava, non gli veniva niente
in mente. Perlomeno, niente che potesse esprimere a parole. Anche se
avesse potuto mettere per iscritto i suoi sentimenti, non credeva di
volerlo fare. Quindi pensò bene di spostare
l’attenzione su qualcos’altro.
‘Ho preso questo stupido coso solo per farla stare
zitta. Quella stupida di Akane. Riesce a essere così
testarda, a volte. Ma questo non spiega perché adesso sto
perdendo tempo con questa roba. Immagino che sia perché non
ho niente di meglio da fare. Ascolterei un po’ di musica o
cose così, ma quello stupido del mio vecchio mi ha rotto il
lettore cd e io…’ Si fermò di nuovo e
cancellò agitato l’ultima riga. Fissò
di nuovo la frase, e dopo aver deciso che non bastava limitarsi a
depennarla, strappò l’intera pagina dal quaderno e
la gettò nel fuoco.
Ignorò il foglio che anneriva e si contorceva,
cambiando forma prima di dissolversi nelle fiamme. Invece, rivolse la
sua attenzione ad una nuova pagina bianca come la neve e
cominciò a scrivere di nuovo, questa volta senza esitazioni.
‘Sono venuto qui per allenarmi, ma dopo non lo so cosa
farò. Suppongo che dovrei cominciare a cercarmi un lavoro,
per guadagnare un po’ di soldi o cose così e poter
badare a me stesso. O partire per un lungo viaggio di
allenamento.’ Sospirò, non trovando traccia
dell’eccitazione e dell’euforia che era abituato a
sentire ogni volta che pianificava un viaggio del genere.
All’improvviso, gli sembrava che la sua vita non era stata
altro che una serie infinita di viaggi di allenamento, che alla fine
non lo avevano portato da nessuna parte e non gli avevano lasciato
niente. Il breve periodo passato con i Tendo era stato
l’unico momento di tregua e l’unico assaggio di
vita normale.
Ranma scosse la testa con violenza per schiarirsi le idee e si
accigliò, rendendosi conto della direzione che minacciavano
di prendere i suoi pensieri. “Basta,”
borbottò, prima di tornare a scrivere. ‘Se non
ricomincio a viaggiare, non sono sicuro di cosa fare. Trovare un
lavoro, credo, ma io conosco solo le arti marziali. Immagino che potrei
aprire un dojo o qualcosa del genere…’
“Naa,” sussurrò, scartando il
pensiero quasi nello stesso momento in cui aveva finito di scriverlo.
“Un dojo di Arti Marziali Indiscriminate basta e
avanza.” Nel suo cuore, sapeva che aprire un dojo tutto suo
sarebbe stata un’offesa verso i Tendo. Specialmente verso
Akane. Il dojo era suo e occuparsene era sempre stato il suo sogno. Non
l’aveva mai detto ad alta voce, ma non ce n’era
bisogno. Lui lo sapeva e basta. Era evidente in ogni sua azione. Ogni
volta che si allenava sotto il suo tetto, ogni volta che ne difendeva
la proprietà, ogni volta che proclamava testarda,
“Anch’io sono un’artista marziale,
sai!”
Il dojo era importante per lei. Lui non avrebbe mai potuto
portarglielo via e, all’improvviso, gli venne in mente che
avrebbe dovuto vergognarsi anche solo per aver messo nero su bianco
l’idea di aprirne uno suo. Si sentì
improvvisamente disgustato e resistette a malapena
all’urgenza di gettare nel fuoco anche questo foglio di
carta, dopo quello di prima. Invece, ignorò il dolore
straziante alla bocca dello stomaco, che liquidò
risolutamente come un po’ di indigestione, e
continuò a scrivere.
‘Non so da dove mi sia uscita, quest’idea.
Immagino che mi sia semplicemente abituato all’idea di
gestire un dojo. Con Akane.’ Senza pensare,
cancellò l’ultima frase, anche se sapeva
perfettamente che era quella la parte importante della sua presa di
coscienza. ‘Figuriamoci se non lo capivo quando era troppo
tardi.’ Fece una pausa e fissò la pagina, poi
scrisse lentamente e con una grafia così lieve che a stento
riusciva a distinguere le parole che aveva scritto. ‘Forse mi
lasceranno tornare?’
Mordicchiò la matita, reprimendo un’altra
ondata di “indigestione”, con lo stomaco che si
stringeva dolorosamente. ‘Non è che mi hanno
chiesto di andarmene o cosa,’ ragionò speranzoso.
‘Ma non sembra più il posto per me.’
Un’altra pausa. ‘Immagino che non lo sia mai
stato.’
Gli era stato permesso di restare dai Tendo per due lunghi
anni. Era stata la sua casa. La sua prima vera casa. Ma c’era
un prezzo attaccato al suo permesso di soggiorno. Poteva restare
lì finché fosse stato il fidanzato di Akane e
avesse avuto intenzione di sposarla, un giorno. All’inizio
gli dava fastidio, ma alla fine si era scordato di
quell’unica condizione, la sua vita lì gli era
sembrata naturale e quella condizione, che rimaneva sospesa in un
angolo della sua coscienza, aveva smesso di portare con sé
un senso di catastrofe imminente.
Ma l’accordo non era mai dipeso da lui. Era stato
imposto a lui e ad Akane dai rispettivi genitori. E adesso, quei giorni
in cui i due padri impiccioni cercavano di spingerli l’uno
nelle braccia dell’altra erano finiti. Erano stati liberati
dalla promessa che i due vecchi amici si erano fatti tanti anni prima.
Eppure il dojo Tendo era la sua casa e i Tendo erano la sua
famiglia. Il signor Tendo era come uno zio eccentrico e un
po’ folle, ma benintenzionato. Kasumi era come una dolce
sorella maggiore, che si prendeva cura di lui e di tutti gli altri.
Nabiki era come una cugina birichina e combinaguai che lui guardava
sempre con diffidenza, ma allo stesso tempo non poteva fare a meno di
trovarla simpatica e di ridere delle sue stranezze. E naturalmente,
Akane… Be’…
Akane era…
La sua fidanzata. E casa, per lui, era dovunque ci fosse anche
lei. E giusto o sbagliato che fosse, lui desiderava tanto tornare a
casa.
La sua presa sulla matita si strinse all’improvviso,
quando la mano ebbe uno “spasmo” e si
serrò involontariamente mentre ricominciava a scrivere.
‘Che cos’è una casa,
comunque?’ Solo porsi questa domanda lo faceva sentire vuoto,
perché sapeva perfettamente che per la maggior parte delle
persone la risposta era semplice. “Ma non per me,”
borbottò agitato. Aveva trascorso
un’infinità di anni alla ricerca di una casa,
senza neanche rendersi conto che stava cercando proprio quello. Era la
cosa che mancava nella sua vita. E quando aveva pensato di averla
trovata, si era sentito così stranamente in pace con il
mondo. Ma la pace non era fatta per lui e neanche il dojo Tendo,
perché non appena aveva cominciato a sistemarsi e a sentirsi
sicuro, le mura di cristallo delle sue illusioni gli erano crollate
addosso ed una voce cupa lo aveva preso in giro, dicendo,
“Scusa tanto, ma non era per te. Vai avanti, il tuo viaggio
non è ancora finito.”
“Andare avanti dove?” chiese alla voce
impietosa nella sua mente. “Io non voglio andare da
nessun’altra parte!” Gli occhi di Ranma si
strinsero e lui si arrabbiò con i suoi stessi pensieri.
Erano i pensieri di un uomo debole e lui di certo non aveva intenzione
di scrivere una cosa stupida come quella. Oltretutto, non è
che non avesse altre opzioni. Aveva una valanga di opzioni. Sorrise e
scrisse questo invece, continuando a ricordare a se stesso di non avere
bisogno dei Tendo.
‘Mi serve sempre un piano, però. Qualcosa
da fare. Forse potrei ancora insegnare al dojo Tendo,’
scrisse speranzoso, senza rendersi conto della rapidità con
cui i suoi pensieri e i suoi piani erano tornati ai Tendo.
‘Non so proprio cos’altro potrei fare, a parte
forse viaggiare per tutto il Giappone e sfidare altri dojo.
Sì, e distruggere l’eredità di altre
scuole di Arti Marziali? Ne ho avuto abbastanza, per ora.’
Tutt’a un tratto, non ci vide più bene e
si asciugò gli occhi con la manica per liberare il campo
visivo, per poi riprendere in fretta a scrivere per nessun altro motivo
se non quello di distrarsi. ‘Giusto. Me ne ero quasi
dimenticato. La Scuola di Arti Marziali Indiscriminate Saotome ha
subito un colpo mortale oggi, grazie a me. La Scuola Tendo non
vorrà avere più niente a che fare con me. Sono
una maledizione…’
‘Ma che m’importa, se non mi vogliono? Sto
meglio senza di loro e il loro stupido dojo. Sto benissimo qui dove
sono. Anche se non posso restare accampato per sempre in questa radura.
Dovrò andare da qualche altra parte, prima o poi. Ma quando
lo farò, avrò sempre la mia tenda, almeno. E,
ehi, ho passato più notti a dormire sotto questa tenda che
sotto il tetto dei Tendo, comunque. Semmai è questa tenda la
mia casa. Dopo tutto ho trascorso sedici anni di vita con questa tenda,
viaggiando con papà per tutto il paese nel nostro dannato
viaggio di addestramento.’
Si accigliò, immaginando ancora una volta il suo
futuro, ed ignorò la strana stretta allo stomaco che gli
faceva venire voglia di piegarsi in due dal dolore. Non voleva
ammetterlo nemmeno con se stesso, ma vivere di nuovo in quel modo
sembrava così squallido e senza senso. Non serviva
più ad uno scopo. Era solo una strada da percorrere, senza
fine. Una strada da percorrere da solo.
Ranma non voleva stare solo. ‘Mi chiedo dove
starà mamma, adesso. Potrei sistemarmi con lei, ma sto
arrivando ad una fase della vita in cui dovrei essere io a prendermi
cura di lei, non il contrario. Devo trovare un modo per mantenere tutti
e due, adesso.’
Cominciò a valutare le sue cosiddette
“opzioni”, principalmente per necessità
e non certo perché le apprezzasse sul serio. ‘Mi
chiedo se le piacerebbe andare in Cina. Vivere con le amazzoni?
Probabilmente no. Shampoo non le è mai stata troppo
simpatica, comunque. E sono certo che non le piacerebbe molto vedere il
suo figliolo ‘virile’ trattato come un cittadino di
seconda classe. Ukyo? Sarebbe meglio. Almeno potrei contribuire dando
una mano con il ristorante, in qualche modo, ma… io non la
amo. Neanche Shampoo, se è per questo. Però devo
fare qualcosa e… Oh, ma quanto sono patetico? Voglio
dipendere da una donna per mantenermi? Pare che alla fine io sia
veramente un parassita, proprio come quello stupido buono a nulla del
mio vecchio…’
Ancora una volta, strappò la pagina dal quaderno e
la gettò nel fuoco, rifiutandosi di guardarla e limitandosi
a ricominciare a scrivere.
‘Ma non so cosa fare, adesso. E non so dove
andare… voglio tornare là, ma non so se posso
e…’ La matita si spezzò
all’improvviso fra le dita e lui la gettò nel
fuoco, frustrato. Sentiva che stava andando a fondo. Gli stava
sfuggendo tutto di mano, una cosa dopo l’altra, senza che lui
potesse fare niente. Si sentiva inutile. Impotente. Debole. Era questo
lo scopo di questo stupido diario? Se era così, non ne aveva
bisogno.
“Al diavolo!” imprecò.
“Non mi sta aiutando affatto! Stupida Akane e le sue stupide
idee,” urlò. “Pensa di sapere tutto. Ma
i ragazzi non scrivono diari. I ragazzi non stanno lì a
pensare ai propri sentimenti. I ragazzi non
piangono…”
Guardò in cagnesco la pagina che aveva di fronte,
non avrebbe saputo dire per quanto tempo, finché delle gocce
cominciarono a caderci sopra e lui chiuse il quaderno di scatto,
sollevando lo sguardo verso il cielo senza nuvole. “Sembra
che piova,” osservò, portandosi le sue cose nella
tenda prima che le condizioni meteorologiche potessero contraddirlo. Si
stese nel sacco a pelo e fissò il soffitto di tela.
“E già. Questa è la vita. Io e
te, vecchia tenda. Ne abbiamo passate tante insieme e supereremo anche
questa senza problemi, che ne dici?” Aspettò, ma
non ci fu nessuna risposta e lui si accigliò al suono del
silenzio. Non che si aspettasse di sentire alcunché, ma
mancava qualcosa. Era tutto troppo silenzioso.
Sospirò e si girò su un fianco,
chiudendo gli occhi e cercando di dormire. Provò a meditare
e a schiarirsi le idee, ma il vuoto e il silenzio erano assordanti e
c’era sempre quel qualcosa che mancava e che lui non voleva
riconoscere, ma che continuava a rodergli l’anima come una
fastidiosa puntura di zanzara che non si può fare a meno di
grattare. O forse, più precisamente, una vecchia ustione
guarita più di dieci anni prima.
“Inspira, espira, inspira,
espira…” Continuò il mantra,
concentrando inutilmente tutta la sua attenzione sull’atto e
il pensiero del respirare, mentre i minuti passavano senza che se ne
accorgesse. Ma non servì comunque a niente. Non riusciva a
dormire. Mancava qualcosa.
Prima che fosse costretto ad ammettere cosa fosse quel
qualcosa, le sue orecchie allenate furono messe in allarme dal rumore
di un ramoscello che si spezzava sotto il piede di qualcuno, seguito da
un’imprecazione sussurrata a bassa voce. Tirò un
sospiro di sollievo per la distrazione in arrivo e, senza che potesse
controllarlo, un lieve sorriso si fece strada sul suo volto. Heh. Lo sapevo! Lo sapevo che
sarebbe venuta a ficcare il naso, prima o poi… Non poteva
certo lasciarmi in pace. Provava sentimenti contrastanti
sul fatto che lei fosse qui, ma almeno le era grato perché
il suo tempismo non avrebbe potuto essere migliore.
Ascoltò con attenzione i passi leggeri ed esitanti
che si fermavano, poi ci fu un fruscio tra i cespugli, che indicava il
recupero della ciotola dal posto in cui l’aveva gettata
prima. Riusciva quasi a vederla davanti ai suoi occhi, mentre dava uno
sguardo all’accampamento con occhio critico e preoccupato.
Sapeva perfettamente cosa stava pensando di lui.
Il pensiero lo fece vergognare. Eppure in quel momento non gli
importava. Una parte di lui era semplicemente troppo felice che lei
fosse qui, anche se non poteva ammetterlo con se stesso o con lei.
Perché
è qui? si chiese. Akane. Era sempre
stata un mistero insondabile per lui. Un minuto lo odiava e lo riduceva
quasi in fin di vita a forza di picchiarlo, e lui non voleva avere
niente a che fare con lei. Ma poi, un attimo dopo cominciava a ridere o
sorrideva e… il suo cuore si fermava.
E lei si preoccupava per lui. Piangeva per lui quando stava
male. Lo aiutava quando ne aveva bisogno. Questo lo terrorizzava, pur
sapendo che non era questa la sua intenzione. Non era abituato a
dipendere da qualcuno, a contare sul fatto che qualcuno lo aiutasse.
Era abituato a badare a se stesso. Non voleva avere così
tanto bisogno di lei. Lo rendeva debole e allo stesso tempo lo rendeva
forte. Sentiva di valere di più quando era insieme a lei, ma
sapeva che nel momento in cui avesse cominciato a fidarsi e a dipendere
da lei, sarebbe stata la fine. Avrebbe perso. E quando lei lo avrebbe
lasciato, lui non sarebbe stato più in grado di andare
avanti da solo.
Ed era per questo che lei era qui dopotutto, no? Per dirgli
addio? Per confermare i suoi sospetti sul fatto che non ci sarebbe
più stato un futuro per loro. “Molto bene, allora.
Se è così, le farò vedere che sto bene
da solo. Non ho bisogno di lei, né di nessun
altro… va tutto bene. Sì. Gliela farò
vedere…”
Ascoltò ancora i suoi piedi che riprendevano a
muoversi, incedendo leggeri sul terreno e fermandosi proprio davanti
alla tenda.
“Ranma?” chiamò infine lei,
esitante.
“Sì, Akane, che
c’è?” ripose lui con voce calma e
controllata.
Il fuoco dietro di lei proiettava la sua sagoma sulle pareti
della tenda e lui guardò la sua immagine agitarsi
goffamente, prima di rispondere. “Ti ho cercato tutto il
giorno. Che ci fai proprio qui, tra tutti i posti che potevi
scegliere?” chiese.
“Dormo,” rispose lui, come se fosse la
cosa più ovvia del mondo.
“…” Lei esitò.
“Sono solo le otto e mezza,” gli fece notare alla
fine.
“Ah,” rispose semplicemente lui. Poi, dopo
un’altra pausa, fece un respiro profondo, indossò
la sua solita maschera di sicurezza e aprì la cerniera della
tenda per uscire. Le sorrise, in piedi di fronte a lei.
“Allora suppongo che non ci sia motivo di dormire,
giusto?”
“Suppongo di no,” osservò lei
incerta. Lui notò che i suoi occhi gli stavano esaminando il
volto con piglio indagatore e, deciso a non mostrarle niente che
potesse farla preoccupare, le voltò le spalle e
indicò l’accampamento con un gesto teatrale.
“Benvenuta nella mia umile dimora,”
scherzò amabilmente. “Non è molto, lo
so, ma posso dormire quando voglio e mangiare tutto quello che mi va e
finché mi va,” disse, prendendole la ciotola di
mano e sorridendo riconoscente. “Oh, e soprattutto non
c’è nessuno che mi distrae dagli
allenamenti,” sorrise di nuovo, cercando di dimostrarle che
stava benissimo da solo, anche se sospettava che i suoi sforzi fossero
inutili, perché lei a stento poteva vederlo al buio.
Tuttavia, sperava che almeno riuscisse a sentirlo nella sua voce. Non
riusciva proprio a sopportare il pensiero di farla preoccupare
inutilmente, specialmente considerando il fatto che andava tutto bene.
Akane si limitò ad osservarlo con
un’espressione perplessa, prima di rispondere.
“È, uhm… È
carino.” Deglutì e si agitò irrequieta
ancora una volta, guardandosi intorno imbarazzata. “Ma-Ma
Ranma,” balbettò a disagio, e c’era una
nota comprensiva nel tono della voce che lui trovò
estremamente irritante e non desiderava altro che farla scomparire.
Giurò immediatamente che questa sarebbe stata la sua
missione personale. “Voglio dire, perché qui?
È così… così…
tetro…”.
“Solo di notte,” disse lui con una
scrollata di spalle, ignorando il vero significato delle sue parole.
Lei lo guardò dritto negli occhi, mettendo bene in chiaro
con un semplice sguardo che non aveva nessuna intenzione di lasciar
perdere.
“Lo sai che non è questo che intendo.
Voglio dire… non è qui che… che
lui… ehm…”
Il finto sorriso di Ranma vacillò brevemente, ma
riprese rapidamente il controllo di se stesso e continuò con
la recita. “Ah sì?” chiese con finto
sbalordimento, esagerando nel dare l’impressione di guardarsi
intorno. “Ah. Immagino che tu abbia ragione. Non ci avevo
nemmeno pensato. Ci siamo allenati in così tanti posti e
qui, in particolare, non ricordo più quante volte. Suppongo
di essere venuto qui per la forza dell’abitudine, senza
pensarci.” Parlava a vanvera, ma nonostante il tentativo, si
vedeva che non gliela dava a bere e lo irritò ancora di
più vedere il suo sguardo fisso sulla pentola, con
un’espressione di angoscia a stento contenuta.
Lei sapeva. Questa era una cosa che odiava di lei. Era troppo
intelligente. Aveva scoperto che non c’erano più
molte cose che riuscisse a nasconderle. Lei vedeva tutto. Anche lui
vedeva tutto di lei. Non gli sfuggiva molto, di certo non il modo in
cui le tremava leggermente il labbro o il fatto che tenesse la mascella
serrata per trattenere le lacrime non versate, incapace di distogliere
lo sguardo da quella maledetta pentola. Stava cercando di essere forte
per lui, lo sapeva.
Frustrato e agitato dai suoi crucci inutili, si
affrettò a rientrare nella tenda per prendere una seconda
ciotola dallo zaino. Potevano anche non essere capaci di ingannarsi
l’un l’altro, ma lui non aveva intenzione di
smettere di provarci.
“Hai fame?” le chiese, cercando
disperatamente di continuare la conversazione e dimostrarle che non
c’era niente che non andasse; a questo scopo,
soffocò le sue ansie e si trascinò a forza verso
la pentola, versandole una porzione nella ciotola senza aspettare la
sua risposta. “Ne è rimasto un bel po’ e
non è niente male, modestia a parte. Era da un po’
che non mi preparavo da mangiare. Avevo paura che venisse fuori una
schifezza. Invece non è niente male!” Rise
nervosamente. “Scusa, devo averlo già detto, eh?
Be’, comunque, ecco qui,” terminò e
tornò a mettersi di fronte a lei, con la ciotola in mano e
un’aria d’attesa, sperando che lei la accettasse.
Sentiva che non gli sarebbe dispiaciuto tanto che lei rimanesse
lì, se solo avesse smesso di… preoccuparsi.
“Grazie,” sussurrò lei,
prendendo la ciotola e fissandola per un attimo, proprio come aveva
fatto lui prima. Alzò gli occhi per incontrare i suoi e con
suo grande sollievo fece anche lei un sorriso forzato, decidendo di
assecondare la sua distorsione della realtà, e
indicò il fuoco. “Ti dispiace se mi
siedo?” gli chiese.
“Accomodati pure,” disse lui, scrollando
le spalle indifferente, ma sorridendo contento fra sé,
mentre entrambi si avviavano a sedersi intorno al fuoco. La
osservò piegare le gambe sotto il corpo e sfilarsi uno zaino
dalle spalle, poggiandolo a terra con cura prima di rivolgere di nuovo
la sua attenzione allo stufato. L’attenzione di Ranma,
invece, rimase sullo zaino, ansioso di sapere a che servisse ma troppo
timoroso per chiederglielo. Lo zaino, un oggetto apparentemente
semplice, era qualcosa di nuovo su cui fissarsi e portava con
sé una lista infinita di domande, per lui. Perché
si era portata uno zaino? A che serviva? Cosa c’era dentro?
Le cose di Akane? Quanto tempo pensava di rimanere? Oppure era pieno
della roba di Ranma?
Lui aveva lasciato casa sua in tutta fretta
e non aveva avuto il tempo di raccogliere tutti i suoi averi. Quindi
era plausibile che lei fosse venuta lì soltanto per
portargli il resto della sua roba, pensando che sarebbe stato troppo
imbarazzante per tutte le persone coinvolte se lui fosse mai tornato a
riprendersi le sue cose. Questo, naturalmente, avrebbe confermato i
suoi sospetti di non essere più il benvenuto in casa Tendo.
Le spalle gli si incurvarono, al pensiero, mentre la sua mente cinica
lo convinse senza troppo sforzo che fosse questo il motivo
più logico per farla venire qui. Pff. Tanti saluti alla mia idea
di insegnare là. Non vogliono neanche che li vada a trovare!
Eppure Ranma rimase aggrappato ad un barlume di speranza.
Forse i Tendo non volevano più vederlo, ma Akane almeno era
venuta qui apposta per lui. Forse per l’ultima volta. O forse
l’aveva perdonato per quello che era successo e non le
importava di ciò che era stato detto. Forse lo zaino
conteneva le sue
cose. Forse anche lei aveva lasciato il dojo. Forse era lì
perché…
“Ranma? Mi stai ascoltando?”
“Eh?” Gli occhi tornarono di scatto al
viso preoccupato e perplesso di Akane.
“Ho detto che è molto buono.”
“Oh, uhm, grazie. Sono contento che ti
piaccia.”
“Mi piace davvero,” sorrise.
“Immagino che sia positivo che uno di noi due sappia
cucinare.”
Lui drizzò le antenne a questa affermazione,
studiandola da vicino mentre rispondeva. “Non che abbia
importanza, adesso…” suggerì.
Lei sollevò curiosa un sopracciglio, continuando a
mangiare. “Che vuoi dire? C’è una
ragione per cui adesso dovrebbe avere meno importanza di
prima?”
“Suppongo di no,” disse lui, chiedendosi
se non stesse vedendo troppe implicazioni dove non ce
n’erano. Dopotutto, lei sembrava non essersi proprio accorta
dei suoi pensieri, perché scrollò le spalle e si
concentrò di nuovo sul pasto. Lui continuò a
guardarla, non volendo ammettere di sentirsi stranamente in pace per la
prima volta in tutta la giornata.
Era sorpreso da quanto fosse felice di vederla. Lei lo stava
davvero infastidendo a non finire con le sue domande, le sue allusioni
e il diario che gli aveva dato… Bleah! Era
impicciona e invadente e lui le aveva ripetuto fino alla nausea che
voleva solo essere lasciato in pace. Eppure eccola lì,
seduta accanto a lui a mangiare il suo cibo, davanti al suo fuoco, nel
suo accampamento…
E io non voglio
che se ne vada… Il pensiero gli
crollò addosso come un muro di mattoni. Deglutì a
disagio, incapace di rimandarlo indietro una volta espresso nella sua
mente. La verità era che si sentiva frastornato e speranzoso
e di nuovo vivo solo ad averla accanto a lui ancora una volta, ed era
sbalordito da come era stata capace di alleviare senza sforzo il suo
malessere nel momento stesso in cui era arrivata. Gli aveva dato un
motivo per crederci e una speranza che forse le cose sarebbero davvero
tornate a posto, dopo tutto. Non per finta. Davvero,
sinceramente… a posto…
Forse mi stavo
solo preoccupando per niente, rifletté
brevemente. Heh.
Probabilmente è qui perché vuole supplicarmi di
tornare o qualcosa del genere… pensò
con desiderio e gli occhi tornarono a poggiarsi sullo zaino.
Questa volta lei si accorse del suo sguardo. “Ah
sì,” disse, mettendo giù la ciotola e
frugando nello zaino. “Ti ho portato un po’ della
tua roba,” disse e le speranze di Ranma si frantumarono
all’improvviso, quasi con la stessa rapidità con
cui si erano formate. “Il tuo cappotto invernale,”
continuò lei tirandolo fuori. “Oh, e anche qualche
altra cosa. Temevo che potessi avere freddo qui.”
“Uh uh,” rispose lui con aria assente,
allungando il collo per guardare meglio dentro lo zaino. Non
poté fare a meno di notare che non gli aveva portato tutto,
sebbene lo zaino fosse piuttosto pieno, anche dopo che aveva finito di
passargli roba. Ok,
pensò, trovando di nuovo una ragione per sperare. Non c’è
motivo di saltare alle conclusioni. Forse non intendeva dire niente di
particolare. Forse davvero voleva solo portarmi dei vestiti
più caldi…
Prese un respiro profondo e aprì la bocca per
testare la sua teoria. “Già… Mi
dispiace aver lasciato tutta quella roba. Io, uhm, passerò a
prendere il resto dopo il, ehm…” Lei
sussultò e lui si fermò, tossendo per cambiare
argomento.
Lei rimase con lo sguardo basso per un attimo e quando infine
lo sollevò, il suo sorriso era goffo e forzato.
“Non c’è bisogno. Non ci dà
fastidio. La tua… La tua roba può restare
lì per tutto il tempo che vuoi.”
Lui tirò un leggero sospiro di sollievo. Ok, quindi posso tornare, almeno
a fare visita, ma… Si accigliò,
cercando di capire il significato della sua affermazione. Aspetta un attimo, la mia roba
può restare lì e io no? Cazzo!
imprecò dentro di sé. Perché deve essere
così vaga? si lamentò, non avendo
ancora ricevuto la risposta definitiva che stava cercando. Posso tornare?
voleva chiederle.
Però non glielo chiese e lei non rispose e, mentre
lei tornava a frugare nello zaino, lui riprese a chiedersi
perché poi gli importasse così tanto. Non ho bisogno dei Tendo. Non ho
bisogno del dojo. Ho la mia tenda, ho le arti marziali, questo
è tutto quello di cui ha bisogno un ragazzo come me. Non ho
bisogno né di Akane né di nessun altro.
“Ah, ecco, ti ho comprato questo per il tuo
compleanno, ma ho pensato che forse era meglio dartelo
adesso,” disse lei, passandogli un nuovo lettore cd.
“Oh, uhm, grazie,” disse lui, prendendo il
lettore e fissandolo, e i suoi pensieri si concentrarono più
sui motivi per cui gliel’aveva dato in anticipo che sul
regalo in sé e per sé. Me lo sta dando adesso
perché pensa che ne ho più bisogno adesso, oppure
perché pensa che non ci vedremo quando sarà
davvero il mio compleanno? Decise che pensare a tutti
questi “se” e “ma” lo avrebbe
di certo fatto impazzire, quindi mise da parte le domande e le sorrise.
“È praticamente perfetto, in questo
momento,” disse amichevolmente. È un bel regalo.
Servirà a coprire la mancanza di rumore…
Lei sorrise, contenta di aver fatto una cosa giusta.
“Già be’, quello vecchio sembrava
proprio sul punto di morire, quindi…”
Si portò immediatamente una mano alla bocca e per
un attimo sembrò inorridita. Lontano dall’essere
sconvolto o arrabbiato, però, lui le era grato per il suo
piccolo errore e in qualche modo l’espressione che aveva sul
viso gli sembrò divertente. Improvvisamente,
scoppiò in una risata fragorosa e all’inizio lei
saltò su sorpresa, poi strinse gli occhi e le labbra e lo
guardò torva. “Cavoli, Akane,”
scherzò lui. “Sei proprio un’imbranata,
anche con le parole!”
“Be’, scusa tanto!”
sbuffò lei, incrociando le braccia sul petto e incenerendolo
con lo sguardo.
“No, no, non ti preoccupare. Ma smettila di essere
così gentile, ok? Mi fai venire i brividi. Non
c’è motivo di essere preoccupata per me. Io sto
bene.”
“Davvero?” chiese lei scettica.
“Sì,” annuì lui con
sicurezza; fiero della sua abilità di dirlo così
facilmente ad alta voce. “Sono solo rimasto un po’
scioccato, questo è tutto. Il momento non era proprio quello
adatto.” Continuando a parlare, lanciò uno sguardo
al punto a caso nella radura dove prima aveva messo la pentola.
“All’inizio ho pensato che stesse meditando e poi
ho pensato che si fosse addormentato mentre meditava,” disse
roteando gli occhi. Ma poi tutt’a un tratto, la sua facciata
gioviale crollò e gli occhi si chiusero per nascondere
tutto, come se davvero il pensiero l’avesse colpito per la
prima volta. “Avrei dovuto controllarlo prima,”
continuò. “Forse…”
In un attimo, lei gli si era avvicinata e la sua piccola mano
aveva coperto quella di Ranma. Lui sollevò lo sguardo per
incontrare i suoi occhi. Sapeva già quello che avrebbe
detto, ma aveva comunque bisogno di sentire quelle parole, anche se
alla fine non avrebbero significato nulla per lui.
“Ranma, non avresti potuto sapere in alcun modo che
sarebbe successa una cosa del genere. E poi il dottore ha detto che se
ne è andato molto in fretta e…” la voce
le si strozzò leggermente e lei dovette fare una pausa prima
di continuare. All’improvviso, tutta l’attenzione
di Ranma era concentrata sul suo viso piuttosto che sulle sue parole e
si accorse di essere incantato dal modo in cui le lacrime non versate
che le riempivano gli occhi ne cambiavano la tonalità,
dall’intenso color cioccolata che gli era così
familiare ad un ipnotico e luminoso color ambra che non aveva mai visto
prima. Poi le ciglia si abbassarono per un istante e le lacrime furono
libere di scivolare via, scorrendo lungo le guance come piccoli fiumi.
Lei lo guardò di nuovo, con un’angoscia
così pura che per un attimo fu lui a voler consolare lei,
dimenticandosi che era così triste per causa sua. Come se
possedesse una mente autonoma, la sua mano si posò sul viso
di Akane, asciugandole le lacrime con il pollice e coprendole la
guancia con il palmo con fare rassicurante. Lei sorrise tremante e
sollevò una mano per poggiarla sopra la sua e lui avrebbe
voluto concentrarsi solo sul suo sorriso e sulla sensazione che gli
dava sentire la sua mano sulla propria. Ma sfortunatamente, la sua voce
lo risvegliò dall’incantesimo in cui era caduto.
“Non è stata colpa tua, Ranma,”
sussurrò, supplicandolo di capire. Le parole furono come una
scarica elettrica che lo riportò bruscamente alla
realtà. Si irrigidì e a lei sembrò
quasi di riuscire a vedere le barriere che tornavano al loro posto.
“Non… Non avresti potuto fare niente,”
insistette disperata, ma lui si stava già allontanando.
“Sì, lo so,” disse in modo
molto poco convincente, scrollandosela di dosso e girandosi ad
esaminare il suo nuovo lettore cd. “Ehi, che figata, prende
anche la radio? Ingegnoso.”
Akane si accigliò. “Non diceva sul serio,
sai?”
“Eh?” chiese distrattamente Ranma.
“Mio padre. Non diceva sul serio. Era solo sconvolto
e scioccato e… Non pensa davvero che sia colpa
tua.”
“Oh, cavoli. Lo so,” rispose lui, ancora
una volta in modo molto poco convincente. “Non è
mica preoccupato per questo, vero?”
Continuava ad armeggiare con il lettore e lei continuava a
guardarlo preoccupata, rifiutando di farsi scoraggiare dalle sue
domande. “Voleva che ti dicessi che gli dispiace.”
Ranma si fermò, mentre gli interrogativi sul
perché lei fosse lì tornavano ad essere in prima
fila nella sua mente. “È per questo che sei
venuta?” chiese a bassa voce.
La domanda, in qualche modo, riuscì a confonderla.
“No! Cioè, sì.
Cioè… Be’, questo è uno dei
motivi, però ero anche preoccupata e…”
“Te l’ho già detto, Akane, non
voglio la tua pietà. Sto bene,” ringhiò
lui, un po’ più bruscamente di quanto avrebbe
voluto. Fortunatamente, lei era immune ai suoi scatti di rabbia e
continuò imperturbata.
“Ranma. Tu non stai bene. Come puoi stare bene? Tuo
padre è appena… Lui
è…”
“È morto!” urlò
Ranma. “Ok? È morto. Sei contenta, adesso?
L’ho detto! Non lo nego più. Sono andato avanti.
Complimenti per avermi fatto superare quel famoso primo stadio del
lutto di cui non finisci mai di parlare! Qual è il prossimo,
eh?”
“La rabbia,” rispose lei seria in volto,
per niente sconvolta dal suo comportamento.
“Pff,” sbuffò lui, sentendosi
leggermente imbarazzato. Quindi si alzò e
cominciò a camminare avanti e indietro per la radura per
cercare di calmarsi. Una parte di lui voleva farlo solo per dimostrarle
che si sbagliava. Voleva dimostrarle che non era arrabbiato e che non
era in lutto e, cosa più importante, che lei non poteva
prevedere il suo umore basandosi su uno stupido libro sul lutto che
aveva letto.
Lei però non si arrese, decisa ad affrontare la
questione. “Il funerale è
venerdì,” disse. “Pensi di poter
scendere abbastanza a lungo dalla tua preziosa montagna e
partecipare?”
“Sì, ci sarò,”
sbottò lui, ficcandosi le mani in tasca e dando un calcio
alla polvere.
“Bene,” disse lei. “Tua madre
temeva che non saresti tornato in tempo. Anche lei è
sconvolta, sai.”
Lui trasalì, sentendosi un po’ colpevole.
“Sì, sì,”
borbottò, mentre l’agitazione svaniva del tutto.
Alla fine la smise di piangersi addosso e ritornò vicino al
fuoco, dove lei sedeva in silenzio a mangiare lo stufato, con
un’espressione fissa in una maschera concentrata e
immutabile. Lui sospirò e si lasciò cadere
pesantemente accanto a lei, preparandosi per il secondo round della
discussione. Tuttavia, lei non diede segno di essersene accorta, cosa
che lo frustrò ancora di più.
Incrociò le braccia sul petto e mise il broncio
come un ragazzino, guardando di sfuggita la sua faccia testarda. Oh, ha già finito di
parlare? Aprì la bocca diverse volte per poi
richiuderla ripetutamente, prima di trovare finalmente la frecciata
perfetta, a cui era sicuro che lei avrebbe
risposto. Fece un sorrisetto, sentendosi già la vittoria in
tasca. “Pensavo che si dovesse essere gentili con le persone,
quando sono in lutto,” la punzecchiò.
“E io pensavo che tu stessi bene,” rispose
lei anche troppo in fretta, senza neanche distogliere lo sguardo dal
fuoco.
Il sorrisetto svanì immediatamente e lui si
voltò dall’altra parte con un sonoro
“Pff.”
Inutile dire che la risposta di Akane lasciava molto a
desiderare. Lei non gli stava dando neanche un po’ del
confortante botta e risposta che era quasi diventato il sale della sua
vita. Le lanciò un’occhiata di sbieco, mentre
spolpava lo stufato su cui stava enfaticamente concentrando tutta la
sua attenzione, anche lei con un’espressione agitata sul
viso. Mentre la osservava, l’espressione di Ranma si
addolcì, lasciando il passo ad un’ondata
improvvisa di affetto e di tenerezza per quella strana ragazza che non
era mai stata quello che lui credeva di volere, ma era sempre stata
esattamente quello di cui aveva bisogno. Odiava doverlo ammettere, ma
Akane era una buona amica. La migliore amica che potesse mai
desiderare. Quel genere di amica che era sempre brutalmente onesta con
lui e non si limitava mai a dire quello che voleva sentirsi dire.
Poteva sempre fare affidamento sul fatto che Akane gli avrebbe detto
l’amara verità che doveva affrontare, anche a
costo di cacciargliela a forza in gola se necessario. Ci teneva troppo
a lui per non dirgli quello di cui aveva davvero bisogno, anche se
voleva dire farlo arrabbiare con lei, e lui sapeva anche che in
qualsiasi circostanza lei ci sarebbe sempre stata per lui, almeno
finché il destino non li avesse separati.
Gli sembrava tutto così strano. I suoi sentimenti
per lei erano così contraddittori da mandarlo in confusione.
Non riusciva minimamente a capire come fosse possibile che lei avesse
la capacità di fargli saltare la mosca al naso ed
esasperarlo come nessun altro, eppure allo stesso tempo… non
poteva sopportare di starle lontano. Non aveva senso.
Suppongo che
questo voglia dire che sono innamorato di lei… Non che abbia
più importanza, ormai.
La sua espressione diventò più curiosa,
mentre continuava a fissarla e rifletteva su cosa avrebbe significato
per loro due la morte di suo padre.
Avrebbe voluto essere certo che non sarebbe cambiato niente
fra loro. Avrebbe voluto essere certo che sarebbero rimasti insieme per
sempre. Non riusciva a immaginare la sua vita senza di lei. Non voleva
perderla. Aveva già perso abbastanza e sentiva che lei era
l’unica cosa che gli impediva di crollare.
Ma non sapeva più come fare a tenersela stretta.
Ci siamo fidanzati solo per
via dei nostri padri. Abbiamo passato tutto quel tempo a combattere
contro questa cosa e adesso… Be’, immagino che
adesso siamo liberi. Il signor Tendo probabilmente la
smetterà di farci pressioni. E poi ha messo bene in chiaro
quello che pensa di me.
“Voleva
che ti dicessi che gli dispiace,” le parole di
Akane riecheggiarono nella sua mente. Si chiese se le cose stessero
davvero così, o se non fosse solo una cosa che lei si era
inventata per farlo stare meglio. Il padre di Akane lo aveva davvero
perdonato così facilmente? Non sembrava una cosa che uno
dimentica così rapidamente. Dopotutto, il miglior amico del
signor Tendo era morto e Ranma non poteva fare a meno di sentirsi
responsabile. Io sono
responsabile… pensò, mentre la
realtà gli crollava addosso ancora una volta, spingendolo ad
allontanare l’unica fonte di conforto di cui esitava persino
a riconoscere l’esistenza. Non mi merito neanche la sua
amicizia, figuriamoci… Deglutì e
bloccò il pensiero sul nascere, preferendo seguire il filo
del ragionamento precedente, che trovava più rassicurante.
“È stata colpa mia, sai,”
ammise lentamente, consapevole solo in parte di parlare ad alta voce.
“Sono stato io a decidere di venire qui per allenarci. Anche
se sapevo che non si era sentito bene, ultimamente… Non so
cosa mi sia venuto in mente. Forse pensavo che si era impigrito troppo
e un po’ di esercizio gli avrebbe fatto bene. Lui non voleva
venire. Avrei dovuto prenderlo come un segno. Non aveva mai rifiutato
di partire per un viaggio di allenamento, prima. Ma alla fine
è venuto lo stesso. E poi non abbiamo fatto altro che
litigare, proprio come al solito. E lui se ne è andato
laggiù a meditare, tutto arrabbiato,” disse,
indicando di nuovo quella maledetta pentola con un gesto spasmodico.
“E io l’ho lasciato lì,”
urlò, e continuò la sua invettiva, alzando il
tono della voce con le emozioni che andavano sempre più
fuori controllo. “L’ho lasciato lì per
tre ore! Sarei dovuto andare prima a controllare. Avrei dovuto sapere
che qualcosa non andava. Non avrei dovuto portarlo quassù.
Era un posto troppo isolato e io non ho potuto trovare aiuto in tempo
e…”
“Ranma, smettila!” urlò lei.
“Ti prego! Non serve a niente. Nessuna di queste cose ha
più importanza ormai e tu lo sai. Anche se avessi fatto
tutto per bene, non sarebbe cambiato niente. Sarebbe morto lo stesso.
Non è stata colpa tua!” insisté.
Lui serrò le mascelle, rifiutando di accettare
quello che lei aveva detto, e fissò le fiamme.
“Ranma? Mi hai sentito? Ho detto che non
è stata…”
“Sì sì, ti ho sentito.
Smettila di ripeterlo, adesso.”
“Allora guardami.”
Lui sospirò in maniera esagerata e girò
gli occhi verso di lei, guardandola arrabbiato. “Che
c’è?”
“Ranma,” cominciò lei.
“Non è stata…”
“Lo sai qual è l’ultima cosa
che gli ho detto?” chiese lui interrompendola. Lei
rifletté per un momento se chiederglielo o no, poi si
limitò a scuotere la testa in segno di negazione.
“Gli ho detto ‘Crepa, vecchio stupido!’
” Akane trasalì e abbassò tristemente
lo sguardo, mentre lui sorrideva cupo, provando un piacere perverso
nell’aver vinto questa piccola battaglia. Lo aveva costretto
a guardarla per dimostrargli di non essere disgustata da lui e lui le
aveva dimostrato che si sbagliava, invece, costringendola a distogliere
lo sguardo per il ribrezzo. Perché era vero. Lui era davvero
un essere spregevole.
“Coraggio,” la punzecchiò,
sentendo che non sarebbe stato soddisfatto finché non lo
avesse odiato come si odiava lui. “Prova a risolvere questo,
adesso. Prova a mettere le cose a posto. Ti sfido.”
“Non posso,” sussurrò lei.
“Non puoi?” sbuffò lui.
“Oh, ma che brava Akane, complimenti! Questo sì
che è d’aiuto!”
Lei ricambiò il suo sguardo truce, ma
rifiutò di arrendersi. “Ti sto solo dicendo la
verità. Io non posso risolverlo, perché non
c’è niente da risolvere. La morte fa schifo. Fa
male. È così che funziona. È la
dimostrazione che ci tenevi.”
Lui sbuffò ancora una volta, ma non poteva negare
che lei avesse guadagnato terreno con questa affermazione e, sentendosi
di nuovo a disagio, distolse ancora lo sguardo da lei.
“Sì, già, se ci tenevo, non si
è visto di certo.”
“Non serve a niente rimpiangere quello che hai detto
e quello che non hai detto,” sussurrò lei.
“Ma una cosa la so di sicuro. Tuo padre era molto orgoglioso
di te.”
Lui alzò gli occhi al cielo a questa affermazione.
Gli sembravano parole assolutamente scontate e senza senso e voleva che
lei la smettesse di parlare. “Sì, come vuoi tu,
Akane. Solo dacci un taglio, va bene? Non mi stai aiutando affatto.
Va’… vattene a casa, ok? Non ti voglio qui. Non ho
bisogno né di te né di nessun altro!”
insisté.
“Di’ pure quello che vuoi, ma non ti
libererai di me così facilmente. Tuo padre non ti odiava e
neanch’io ti odio.”
Ranma sospirò, perdendo improvvisamente la voglia
di controbattere. Lei avrebbe vinto di nuovo e avrebbe smascherato il
suo bluff senza problemi. Akane era irritante, ma lui non voleva
davvero che se ne andasse e lo sapevano tutti e due. Però
c’era una specie di malsana soddisfazione a fare la parte del
martire e aveva voglia di crogiolarsi nella tristezza e provocarla,
giusto per vedere fino a che punto lo avrebbe sopportato. Avrebbe
sopportato parecchio e senza battere ciglio. Questo era certo. Per cui
era inevitabile che lui decidesse di arrendersi.
Odiava perdere, anche ad una stupida battaglia verbale. Forse voglio davvero che se ne
vada. Non voglio parlare di queste cose. Perché non lo
capisce? Gli pareva quasi di vedere le rotelle che
giravano nella sua testolina, mentre rifletteva sulla prossima risposta
da dargli, e aspettò che parlasse con un misto di
aspettativa e paura. Quando alla fine parlò, le parole che
uscirono dalla sua bocca furono le ultime che lui si aspettava di
sentire.
“Io ti odio,” sussurrò
solennemente Akane.
“Scu-Scusa?” chiese lui, confuso e
sorpreso che lei potesse dire qualcosa che addirittura lo facesse
sentire peggio di come già stava. Ma poi lei
continuò e lui capì.
“È l’ultima cosa che ho detto a
mia madre. Le ho detto che la odiavo.”
“O-Oh,” sospirò lui, timoroso
di ammettere quanto si sentisse sollevato dalle sue spiegazioni. Ma poi
pensò a quello che aveva detto. “Oh!”
disse ancora una volta, sbalordito dalla sua improvvisa ammissione. Non
gliel’aveva mai detto prima.
“Perché?”
Lei rise amaramente. “Non me lo ricordo neanche.
Credo che avesse accidentalmente gettato nella lavatrice uno dei miei
peluche preferiti e l’aveva rovinato o qualcosa del
genere… E poi è morta,” disse
bruscamente. “È successo all’improvviso,
come un fulmine a ciel sereno. Proprio com’è
successo a tuo padre. E naturalmente mi sono sentita un mostro per un
sacco di tempo. Non riuscivo a perdonarmi, sapendo che era morta
pensando che la odiassi. Ma alla fine mi sono resa conto che non era
vero. Mia madre sapeva che io le volevo bene. Dubito altamente che
l’ultima cosa a cui ha pensato siano state le parole che le
ho detto. Eppure vorrei davvero che l’ultimo ricordo che ho
di lei fosse più piacevole. Ma so che anche se lo fosse
stato, avrei trovato qualche altro motivo per sentirmi in colpa. Che
non la aiutavo abbastanza in casa, che passavo più tempo ad
allenarmi con papà che con lei o…
qualcos’altro.” Scrollò le spalle.
“È normale sentire la mancanza delle persone che
amiamo e avere dei rimpianti, e quando non riesci a capire
perché è successa una cosa, è naturale
voler dare la colpa a qualcuno e la persona più facile da
incolpare sei te stesso.”
Lo guardò, seduto in silenzio alla luce del fuoco,
e vide che stava assimilando quello che aveva detto, anche se aveva la
mascella serrata e stava facendo del suo meglio per farselo scivolare
addosso. Sorrise con affetto, pensando che lui era fatto
così, era un combattente nel profondo dell’animo,
testardo fino alla fine.
Si piegò in avanti e gli diede una pacca
d’incoraggiamento sulla spalla. “Mi dispiace che tu
abbia perso tuo padre, Ranma… Ma devi sapere che questa
è l’unica cosa che hai perso. Tutti quanti
noi… siamo ancora qui. Non è cambiato
niente.”
Lui incrociò il suo sguardo.
“Niente?” chiese speranzoso, guardandola di nuovo.
“Niente…” rispose Akane con un
sorriso, prima di tornare allo stufato.
Rimasero seduti in un silenzio confortevole, mentre Ranma
rifletteva su quello che lei aveva detto. Non sapeva perché,
ma era ancora pieno di dubbi. Non era soddisfatto. Non era sicuro. In
fin dei conti, lei non aveva ancora risposto alla domanda
più importante di tutte. O forse aveva risposto, ma lui non
era pronto ad accettarlo. Dopotutto, una parte nascosta di lui sentiva
ancora di essere responsabile e di non avere il diritto di tornare
là. E lui non voleva illudersi con false speranze, aveva
troppa paura di quello che sarebbe successo se avesse scoperto che si
sbagliava e che in realtà non poteva più restare
a vivere con loro.
Un altro pensiero, poi, ronzava in un angolo della sua mente.
Si sentiva in pace con lei seduta accanto, anche in silenzio. Poteva
opporre resistenza e negarlo quanto voleva, ma la verità era
che per qualche strano motivo, per quanto fosse irritante e invadente,
la voleva accanto a sé. Era questo il suo posto. Sempre
accanto a lui. E sapeva che una volta andata via, lui sarebbe stato di
nuovo perso. Non voleva che se ne andasse.
Era questo il problema. Il suo essere lì lo rendeva
incredibilmente felice, ma allo stesso tempo gli faceva un male cane.
Perché sapeva che quando se ne sarebbe andata, lui si
sarebbe sentito mille volte più vuoto di prima.
Riusciva a stento ad ammetterlo a se stesso, però,
figuriamoci con lei, e non aveva idea di come fare per chiederle di
restare. Anche se ci fosse riuscito, cosa le avrebbe chiesto
esattamente? “Ehi,
Akane, vuoi passare la notte qui?” Sì, certo,
andrà benissimo. Di sicuro capirà una cosa per
un’altra.
Eppure, la sua preghiera silenziosa gli rimbombava nella
mente, anche se si rifiutava di riconoscerlo. Resta con me. Stanotte. Sempre.
Ti prego, non lasciarmi di nuovo da solo…
Sentiva che lei era la chiave di tutto. Ma non riusciva a dirlo e non
voleva ammettere quanto avesse bisogno di lei. Perché il
pensiero di perderla lo spaventava e non riusciva ancora a comprendere
pienamente il perché. Tutto quello che sapeva era che, per
qualche strano motivo, sarebbe andato tutto bene se solo lei
fosse… rimasta.
“Gochiso sama deshita²!”
annunciò lei e Ranma sobbalzò leggermente, colto
alla sprovvista dall’improvvisa affermazione. Lei non diede
segno di accorgersene e si limitò a passargli la ciotola con
un sorriso imbarazzato, senza traccia dell’evidente rabbia di
prima nella sua espressione. “Grazie, Ranma. Era davvero
delizioso.”
“Sì, certo. Va bene,” disse lui
semplicemente, prendendo il piatto senza sapere cos’altro
aggiungere. Si misero a fissare il fuoco, entrambi nervosi e agitati, e
fra di loro calò un silenzio imbarazzante.
Akane si guardò intorno a disagio, per un attimo, e
si morse il labbro. “Già,
be’… ehm… probabilmente vuoi andare a
dormire. Voglio dire, sono già…” si
fermò, guardando l’orologio, e si
accigliò. “Le nove,” finì,
sentendosi piuttosto stupida. Da quando conosceva Ranma, non lo aveva
mai visto andare a letto così presto.
“Già… è proooprio
tardi…”.
“Gii-ààà,”
disse Ranma incerto, strascicando le parole e cercando ancora di farsi
venire in mente un modo per chiederle di restare. Non voleva apparire
debole, come se avesse bisogno di lei, ma allo stesso tempo non voleva
che pensasse che lui non la volesse lì o che avesse iniziato
a disturbarlo. Dopotutto, era venuta qui per aiutarlo e lui era stato
scontroso e antipatico, cosa che non aveva fatto altro che spingerla
ancora di più verso di lui. Però il suo orgoglio
ancora non voleva farle sapere che aveva bisogno di lei, e di certo non
voleva chiederle di restare e rischiare che lei fraintendesse e lo
prendesse per un pervertito.
“Allora… ehm… forse
dovrei…” cominciò Akane, alzandosi in
piedi con lentezza esagerata. Poi, mentre si metteva lo zaino in
spalla, si stiracchiò in modo teatrale, come se fosse stanca
morta. Si spinse addirittura fino a sbadigliare, per fare scena.
“Mmm, credo che dovrei tornare a casa…”
“G-già, credo di
sì,” rispose Ranma tetro, chinando il capo,
piuttosto arrabbiato con se stesso per essersi arreso così
facilmente.
Non si accorse, però, che Akane stava studiando
attentamente la sua reazione e aveva capito in un istante tutto quello
che l’orgoglio e la paura gli impedivano di dire o di
chiedere. Le sue labbra si incurvarono brevemente in un lieve sorriso,
poi sospirò sonoramente e incrociò le braccia sul
petto. “Sul serio, Ranma, sei un cretino
mastodontico!”
“Eh?” chiese Ranma stupefatto, sollevando
di scatto gli occhi su di lei. Decisamente non erano queste le parole
che si aspettava di sentire in quel momento.
“Sono venuta fin qui per portarti la tua roba e tu
mi mandi a casa nel bel mezzo della notte costringendomi a trascinarmi
giù da queste montagne al buio? Ma insomma! Che bella
gratitudine. Potresti almeno invitarmi a restare qui
stanotte!”
“Aspetta… Che hai detto?” la
bocca si spalancò e lui si affrettò a richiuderla
di scatto. “Vuoi restare qui stanotte?”
Lei fece un sorrisetto trionfante, poi roteò
enfaticamente gli occhi e lasciò cadere a terra lo zaino.
“Ok, se insisti.”
Nonostante quel suo modo di fare impudente, tipico di una che
ti ha appena messo nel sacco, lui non poté fare a meno di
sorridere ed esalò un sospiro di sollievo che non si era
neanche accorto di trattenere. Quando poi lei si lasciò
cadere sulle ginocchia e tirò fuori il sacco a pelo dallo
zaino, il sorriso di Ranma si allargò ancora di
più, perché si rese conto che aveva avuto
intenzione di restare fin dall’inizio.
Insieme, pulirono in fretta l’accampamento, cosa che
Ranma aveva trascurato di fare prima, e sistemarono le cose di Akane e
il suo sacco a pelo nella tenda di Ranma, sentendosi entrambi un
po’ imbarazzati. Qualche minuto dopo, coi visi in fiamme, si
stesero ai lati opposti della tenda, dandosi le spalle. Nonostante
l’imbarazzo creato dalla sua presenza, lui si sentiva
più a suo agio di prima. Invece del silenzio, poteva
ascoltare il suo respiro e si chiese distrattamente se Akane russasse
come suo padre. Il pensiero gli fece venir voglia di ridere.
Chissà perché, ne dubitava, anche se era un
maschiaccio.
Ma Akane era oppressa dai suoi pensieri e alla fine ruppe il
silenzio con un improvviso, “Ehi. Mi sono appena
accorta…”
“Che c’è, Akane?”
sbadigliò lui assonnato, fingendo disinteresse, mentre lei
girava su se stessa e si appoggiava su un gomito per guardare nella sua
direzione.
“Immagino che non dovremo più
preoccuparci del fidanzamento, giusto?” cominciò
lei a disagio.
Lui si raggelò. “Uhm,
già…” rispose lentamente, agitato. Sta scherzando? Se ne
è accorta solo ora? Se la immaginò a
rimuginare, a passare in rassegna gli stessi pensieri che erano venuti
in mente a lui, a considerare tutte le implicazioni una per una. E
mentre lei rifletteva, lui vide tutti i suoi sogni e le sue speranze
andare in pezzi intorno a lui e il senso di pace sparire,
perché lei era sempre stata la chiave di tutto.
Una vita. Una casa. Un amore. Un futuro.
Gli era scivolato via tutto dalle dita in un istante e
nonostante il fatto che lei fosse lì con lui, proprio dove
voleva che fosse, e sebbene fosse consapevole di amarla e si sentisse
sicuro del fatto che anche lei tenesse davvero a lui…
Niente di tutto questo importava… Era troppo tardi,
adesso, per sistemare le cose fra di loro. Era finita…
L’aveva persa.
Non erano più fidanzati. Non c’era nessun
obbligo. Non c’era più motivo di sposarsi.
A meno che…
“Ehi, Akane?”
“Mmm?”
Lui deglutì aspramente, prima di trovare il
coraggio. Oh, al
diavolo! Fallo e basta…
“Mi sposi lo stesso?” chiese.
Lei si irrigidì e si prese un momento per
riflettere, poi si limitò ad annuire.
“Ok,” rispose, nello stesso momento in cui
lui si lasciava sfuggire un sospiro di sollievo. Lei sorrise e
scivolò più vicina a lui, con le braccia di Ranma
che si sollevavano automaticamente ad avvolgerle la schiena, poi
continuò. “Ma ad una condizione.”
“E quale sarebbe?” chiese lui esitante.
“Domani possiamo andare a casa, per
favore?”
“A casa?”
Gli occhi di Ranma si riempirono di lacrime, e mentre
l’ultima delle sue paure scivolava via, sorrise, la strinse
forte a sé ed immerse il viso nei suoi capelli.
“Sì, certo,” disse felice, con
la certezza che sarebbe davvero andato tutto bene. Non sarebbe rimasto
solo. Aveva qualcuno da amare e, cosa altrettanto importante, aveva una
casa. “Affare fatto, Akane.”
“Bene,” sorrise Akane, chiudendo gli occhi
e cominciando ad appisolarsi. Fu allora che a Ranma venne in mente una
cosa che lo fece scoppiare in una breve risata.
“Che hai da ridere?” chiese lei.
“Stavo pensando… Ehi. Terzo stadio.
Patteggiamento!”
Akane rise brevemente anche lei.
“Stupido,” mormorò. “Non credo
significhi questo…”