La figura
slanciata di Gellert spiccava contro il tramonto: sembrava totalmente
insanguinata.
Trotterellava
vicino a un vecchio ceppo marcio, morto. Saltellava, gironzolava e
l’osservava con un’espressione buffa, interessata; ma persino in quei
momenti d’infantilismo estremo riusciva a trasmettere carisma,
bellezza, potenza.
Lo raggiunsi e
Gellert percepì la mia presenza senza voltarsi; quando incontrò il mio
sguardo mi aveva già preparato un sorriso dolce. Apparecchiava le sue
guance come se fossero una tavolata, disponeva i tratti del suo volto
come se fossero coltelli e forchette.
“Primi anni di
crescita” mormorò, abbassando lo sguardo.
Gli anelli
concentrici del tronco marcio raccontavano la sua storia, la sua
esistenza: il primo anno di vita era evidenziato da una serie di cerchi
scuri, rossastri, vicinissimi tra loro.
“Lungo periodo
di pioggia” continuò indicando degli anelli meno regolari, estremamente
lontani gli uni dagli altri.
“Trauma da
incendio” e indicò un profondo squarcio scuro: sulla pelle umana,
sarebbe stata una cicatrice, una ferita insanabile.
“È un peccato
che sia dovuto morire, che sia stato abbattuto, per scoprire i segreti
della sua vita” mormorai guardando i restanti alberi della radura, alti
e rigogliosi.
Era scesa la
sera e gli occhi verdi di Gellert erano il preludio della notte. Erano
un abisso in cui mi ero già irrimediabilmente perso.
“Un peccato?
Stai scherzando? È la parte migliore”.
Gli anni degli alberi
Leningrado, Settembre
1943
Sobbalzai,
accorgendomi che la mia Passaporta era atterrata su una mina antiuomo.
“Stia
tranquillo, non si è innescata”.
“Non è stato
comunque un bell’atterraggio” mormorai stizzito. Mi sarebbe scocciato
parecchio saltare in aria in modo così assurdo.
“Qui non si
smette mai di sorprendersi su cosa si può appoggiare i piedi”.
L’uomo era ritto
su una lastra bianca e lucida: non era neve, bensì ghiaccio schiacciato
e triturato dalla marcia degli eserciti, dalle bombe, dalla guerra.
Cominciammo a
camminare nella landa e questa non sovvertì le mie aspettative: non era
vuota o incolore. Era un labirinto di arbusti congelati, fattorie
abbandonate e diroccate, carcasse di animali.
“Sono felice che
lei abbia adottato un vestiario meno…appariscente, Professore”.
Una sottile
provocazione in linguaggio “Serpeverde”. Un Grifondoro avrebbe detto,
senza mezzi termini, che “certe tendenze non erano ben viste”.
“Ho fatto
questo sacrificio” mormorai quietamente mentre sentivo la mancanza del
mio amato abito viola “e tutto per venirla a recuperare, signor
Medcraft”.
“Apprezzo lo
sforzo” esclamò sorridente.
Ci avvicinammo a
Leningrado lentamente, combattendo il freddo pungente d’inizio
Settembre e nascondendoci dalle varie camionette, dai soldati armati.
Davanti ad una
fattoria fatiscente, alcuni paesani stavano dando assistenza a dei
giovanissimi soldati russi.
Un ragazzo, poco
più che sedicenne, aveva già perso una gamba e il resto del suo corpo
sembrava sbiadito, invecchiato.
Strinsi pollice
e indice sull’attaccatura del naso; per Merlino, stavo proprio
invecchiando.
Pensai ai miei
alunni, ghettizzati nelle loro case per la minaccia della guerra, delle
bombe dell’aviazione tedesca.
Pensai anche Tom
Riddle, lo studente modello dal sorriso ferino, selvaggio, ma che in
quel momento mi parve soltanto un ragazzino rinchiuso in un lercio
orfanotrofio tenuto in piedi da mattoni e molte preghiere.
“Indovina a cosa
sto pensando!”.
“Gellert”
sbuffai, alzando gli occhi al cielo “sei il solito bambino!”.
Ariana adorava
quel gioco: batteva le mani e i suoi occhi spiritati s’ingigantivano.
Non riuscii mai a capire se in questo modo sembrassero più infantili o
più vecchi, centenari.
“Indovina,
Alby!” chiocciò gioiosa.
Le sorrisi, ma
non riuscii a eliminare quella sensazione di estraneità, di disagio:
parlavo, gesticolavo, pensavo in modo differente, con Ariana. Provavo
lo stesso disagio con i bambini molto piccoli o le persone molto
anziane e molto malate: la sensazione di parlare con un animaletto
buffo e carino, una marionetta che non risponde ai comandi.
“Vediamo se
questa volta tuo fratello indovina, Ari!” sorrise Gellert, e si sedette
con mia sorella sul prato.
Era una
primavera torrida, afosa, e quasi risi nel vederli entrambi così pieni
di aspettativa, con gli occhi chiari sgranati e giganteschi.
Ma con Gellert,
nulla era mai un gioco: era tutto una sfida, una gara, un obiettivo
preciso.
Quel gioco,
“scopriamo a cosa sta pensando Albus”, era solo un esercizio di
Legilmanzia che m’imponeva per testare le sue doti in Occlumanzia.
Ovviamente, Gellert non lanciava una sfida senza essere sicuro di poter
vincere…ma gli piaceva vedermi tentare, annaspare per infiltrarmi nella
sua mente. Il suo cervello era pietra, era abbattere un muro sapendo di
perdere tutte le unghie.
“Gellert sta
pensando…” mormorai in modo falsamente pensieroso “di andare a
prenderci un bel gelato!”.
Ari saltò in
piedi e in un attimo era già corsa in strada verso la pasticceria; mi
costrinsi a rincorrerla, ridendo sotto il sole asfissiante.
Percepii lo
sguardo deluso e risentito di Gellert e, in contemporanea, gli occhi
azzurri di mio fratello che ci osservava di nascosto da dietro le tende.
Sentii le mie
vertebre incunearsi, sotto il loro peso.
“Mi
dica…cominciavano a sentire la mia mancanza, all’Ufficio per la
Cooperazione Magica Internazionale?” chiese Medcraft.
“Certo, lei è un
uomo di talento” gli risposi cortesemente. Valerius Medcraft possedeva
tutti i talenti di un buon Serpeverde: arguzia, stomaco forte, la
capacità di intrecciare buoni rapporti anche con le persone più
riprovevoli o con ideali diametralmente opposti ai suoi. Cambiava pelle
come un rettile e della vecchia epidermide si perdeva qualsiasi
traccia: ogni settimana era una creatura nuova.
Questa era la
tecnica che adottavano i Serpeverde quando non erano i discendenti di
un’aristocratica famiglia Purosangue. Avrei potuto provare ammirazione
per i diversi talenti di Medcraft, ma il mondo era in guerra e non
volevo sapere quante persone fossero morte a causa dei suoi talenti
diplomatici.
“Non mi sembra
stregato da una Maledizione Imperius, Medcraft” valutai, cercando gli
occhi neri e un po’ sbiaditi del mio accompagnatore.
“Infatti: il
signor Grindelwald voleva che tutti i miei sensi fossero attivi, che
tutte le mie sinapsi fossero funzionanti al cento per cento…senza
contare che non è proprio nelle condizioni di poter dare ordini”
rispose Valerius con somma tranquillità.
Non volli sapere
cosa intendesse e unii di nuovo le dita all’attaccatura del naso.
Gellert era come una scala in perenne discesa: ogni volta che credevo
di essere, finalmente, arrivato all’ultimo gradino, ecco spuntarne un
altro ancora più in basso, ancora più lercio.
“M’illumini,
Medcraft” dissi rompendo gli indugi “lei è stato catturato da Gellert
Grindelwald durante una sua missione qui a Leningrado, è esatto?”.
“Rinforzavo i
legami con i nostri colleghi e alleati russi, da!” rise, scimmiottando
l’accento slavo “ma non sono mai arrivato all’incontro
politico…Grindelwald mi ha catturato prima, che umiliazione” ridacchiò,
per niente ansioso o preoccupato.
“Mi perdoni la
franchezza” continuai, sospettoso “ma perché il Ministero dovrebbe
patteggiare con Grindelwald?”.
“Insomma, mi sta
dicendo che la mia vita non vale abbastanza, non sono un ostaggio
abbastanza rinomato” ridacchiò nuovamente Valerius “si chiede perché
l’Inghilterra dovrebbe negoziare con un criminale di fama mondiale per
un umile dipendente del Ministero”.
Onestamente sì,
era proprio quello che intendevo dire. Ma io era un cavalleresco
Grifondoro, dovevo moderare i termini.
“Se non
sbaglio”, continuai “il Ministero ha garantito un prezioso aiuto a
Grindelwald: la possibilità di evadere da Leningrado”.
“Giusto!”
confermò Medcraft “la città, come sa, è sotto assedio tedesco da due
anni e il signor Grindelwald, poco furbescamente se mi permette, è
entrato da solo per incontrare un possibile gruppo di alleati…ma la
riunione si è rivelata un’imboscata e, da quel momento, anche se non è
mai stato ufficialmente imprigionato, non è più riuscito ad evadere
dalla città e a riunirsi con i suoi seguaci. Ha sottovalutato il
talento dei maghi russi”.
“E il nostro
Ministero lo sta aiutando perché…?” chiesi “oltre che per garantire un
suo sicuro ritorno in patria, ovviamente”.
“Diciamo che
Grindelwald potrebbe avere delle documentazioni importanti, molto
importanti” mormorò Medcraft “sui progetti del nemico”.
Ebbi la temuta
conferma di quello che sospettavo da anni: Gellert aveva collaborato, o
stava tuttora collaborando, con il Terzo Reich.
La scala e i
suoi gradini erano ufficialmente finiti: ora dovevo incominciare a
scavare.
Stavo di nuovo
arrancando verso la radura del ceppo marcito, e in quel momento sentii
fisicamente la primavera tramutarsi in estate.
Gellert era
nuovamente in piedi sul ceppo, contro un sole pomeridiano radioso,
sfumato dalle fronde dei larici.
“Era davvero
necessario?” gli urlai, sentendo il mio contegno sciogliersi contro il
caldo estivo “Elphias è mio amico!”.
Gellert si
voltò, il sorriso già apparecchiato sul volto, appena appena eclissato
dal sole.
“Perdonami”
sussurrò “la prossima volta ti lascerò partire con lui”.
“Lo sai che non
sarei andato da nessuna parte” ribattei “lo sai che sono convinto del
nostro progetto”.
L’arrivo di
Elphias era stato inaspettato ma non sgradito: non aveva tentato di
convincermi di nuovo a partire con lui, era a conoscenza della mia
situazione familiare. Gli avrei espresso la mia gratitudine se fossi
stato più veloce di Gellert, che gli aveva trasfigurato le braccia in
un vaso da notte senza nemmeno presentarsi.
“Chissà dove
andrete…” mormorò sognante, saltellando sul cadavere dell’albero
“magari in Groenlandia o alle Hawaii…anche se, perdonami, il tuo amico
sembra avere giusto giusto la spina dorsale per arrivare a Brighton,
non di più”.
Avrei tanto
voluto che fosse gelosia, che quel sorriso demoniaco fosse il sintomo
della paura di perdermi, di smarrirmi. Che fosse dedicato a me.
Ma io ero solo
il suo collega per un progetto ambizioso, e in quell’attimo mi sentii
meno di un tassello del suo infinito puzzle. Sentii il mio sogno, un
mondo per i maghi, un mondo per mia sorella, liquefarsi come un sogno.
“Elphias è utile
come questo ceppo” continuò Gellert piroettando sul legno marcio “sai
che i cadaveri sono estremamente utili? Rivelano un sacco di
dettagli…molti più dei vivi”.
“Dici che
anch’io sarò più utile da morto?” lo sfidai. Eppure la mia voce suonò
flebile e spaventata: nonostante la sua forte influenza, non mi ero mai
sentito minacciato. Gellert era il mio collega esigente, meticoloso e
col sorriso buffonesco: non era mai stato violento.
Alla fine mi
guardò, freddamente, e i suoi occhi verdi mi bloccarono, mi impedirono
di agguantare la bacchetta, mi bruciarono i neuroni.
“Dipende”
rispose “se sarai così stupido da farti uccidere. È giusto che alcune
persone debbano morire per consentire al Bene Superiore di
germogliare…però sarebbe triste aggiungere il tuo nome a quell’elenco”.
Vidi le sue
labbra muoversi, ma il resto del suo viso rimase muto.
Finalmente scese
dal ceppo e raggiunse a falcate i rigogliosi larici che attorniavano la
radura.
“Ad esempio…lo
sapevi” chiese con voce candida “che confrontando gli anelli di vari
alberi della stessa specie e non distanti fra loro, si possono creare
dei grafici sulle attività climatiche passate? Se c’è stato un periodo
di forte pioggia, o un incendio, o un terremoto, tutte queste piante
possono ricordarlo, lo possiedono nella loro memoria centenaria.
Avranno tutti le stesse identiche cicatrici”.
La bacchetta gli
scivolò dalla mano come se volasse.
“Ora dimmi…sono
più utili da vivi o da morti?”.
Lo scricchiolio
dei tronchi maciullati, estirpati, dilaniati, assomigliava fin troppo a
un grido umano.
“Ma
esattamente…quanto ne ha ingerito?”.
Eravamo entrati
a Leningrado presso il lago Ladoga, l’unica via che permetteva di
raggiungere o fuggire dalla città. Medcraft mi riferì che i russi
l’avevano rinominata la Strada della Vita.
Essendo arrivati
a tarda notte, mi risparmiai la penosa vista di una città smembrata,
che doveva cibarsi di se stessa per sopravvivere. La vecchia casa dove
Gellert aveva tenuto come ostaggio Medcraft per poco più di una
settimana era vuota e luminosa, come se fosse rimasta bloccata in una
dimensione senza tempo: mi rifiutai di pensare alla sorte della
famiglia che l’aveva abitava.
“Credo una
boccetta” risposa vago Valerius.
“Una boccetta da
quanti millilitri?” chiesi nuovamente.
“Una boccetta”
ribatté.
“Non la facevo
così approssimativo, Medcraft” mormorai sconfortato.
Una boccetta di
decotto per il raffreddore era una questione…una molto diversa da una
boccetta di Distillato della Morte Vivente.
Un ricordo
doloroso e brillante mi s’infilò nel cervello: mia madre, il suo solito
sguardo cupo e il viso contrito, le sue mani mentre cullavano Ariana.
“Ricordati
Albus” mi diceva spesso “le pozioni non sono caramelle, non vanno
assunte con leggerezza…il troppo stroppia!”.
Non vedevo
Gellert da anni e studiai il suo corpo immobile come se fosse la
carogna di un animale primitivo, un fossile. Le rughe, i capelli crespi
e bianchi, le guance tagliate dalla fame…cercai disperatamente dei
dettagli familiari ormai spariti.
Fu quella
disperazione e quella ricerca ossessiva che mi fece comprendere,
mestamente, che nulla era cambiato.
“Temo, tra
l’altro, di non aver ancora capito come fa a controllarla, Valerius”
sussurrai. Stavo davvero perdendo colpi.
Lui si limitò a
sollevare il braccio e stringerlo nell’aria, sorridendo in modo ironico.
“Un Voto
Infrangibile?” esclamai “Addirittura?”.
“Come le ho
detto” spiegò Medcraft “voleva che tutti i miei sensi fossero
all’erta…non poteva fidarsi di una marionetta”.
Le mani lunghe e
pallide di Gellert mi rammentarono la sua meticolosità, la sua minuzia,
le sue manie. Nulla era mai perfetto.
“Così” continuai
lentamente “l’ha costretta con il Voto Infrangibile a inviare una
missiva al nostro Ministro”.
“Esatto” annuì
Valerius “una squadra di Auror è già entrata in città con la scusa di
portare viveri e informazioni ai nostri alleati russi, ma in realtà
sono qui per trasportare fuori Grindelwald e assicurarsi che ritorni
sano e salvo in Germania…e per liberare me, ovviamente!”.
“Però l’ha anche
costretta a mandare un messaggio a me” aggiunsi “chiedendomi di
raggiungere Leningrado senza avvisare nessuno”.
“Una lettera
personale” confermò Valerius “lui, per non essere rintracciato, non può
comunicare via gufo o con altri mezzi convenzionali. Mi ha costretto a
scrivere la lettera e leggere a voce alta la sua risposta, professore,
dove lei specificava in che luogo sarebbe atterrata la sua
Passaporta…ma non ho la minima idea di cosa desideri dirle”.
Non riuscì
proprio a trattenere un sorrisetto malizioso, come se quell’inaspettata
corrispondenza confermasse le mie tendenze, o, non saprei, che andassi
in giro con dei mutandoni fiorati.
“Poi è stato
costretto ad assumere il Distillato, giusto?” continuai, tendando di
non focalizzarmi sul sorrisetto di Medcraft o sulle sue idee riguardo
il mio intimo.
“Esatto. Poco
dopo siamo stati assaliti da una ronda: avevano sicuramente ricevuto
una soffiata dai vicini…e dire che Grindelwald mi aveva costretto a
porre ogni tipo d’incantesimo protettivo sulla casa!”.
“Lei è riuscito
a non farsi arrestare grazie i suoi documenti falsi” continuai,
immaginandomi la scena “mentre Grindelwald ha dovuto fingere la sua
morte”.
“Già, e per sua
fortuna viaggia sempre con una vasta gamma di pozioni” confermò
Valerius “non era una ronda particolarmente organizzata e probabilmente
stavano controllando tutto l’edificio in tutta fretta…hanno dato appena
un’occhiata al corpo prima di andarsene: non mi hanno nemmeno chiesto
spiegazioni!”.
Percepii
distrattamente che i miei occhi non avevano mai abbandonato Gellert:
quel corpo addormentato, debole e raggrinzito mi stava
esaminando.
“Ora però c’è un
problema” commentò Valerius perplesso “non credo che lei voglia far
sapere al Ministero che si trova qui in Russia”.
Certo che no:
erano anni che mi pregavano di recarmici per bloccare definitivamente
Gellert ed erano anni che io rifiutavo.
“Secondo lei
Grindelwald riuscirà a svegliarsi e a parlarle prima dell’arrivo della
squadra Auror?” chiese Valerius.
“Ovviamente no,
Medcraft” risposi serenamente.
Disteso supino
sul tronco sradicato del salice, vidi tutto il percorso del sole, dal
suo apice fino alla sua fine, fino alla sera.
Mi tenne lui
contro quell’albero distrutto e io non mi opposi, non ci provai
nemmeno: mi concentrai sul percorso solare per non cedere subito quando
sentii le sue labbra su di me. Non mi ero neanche accorto che fosse
riuscito a spogliarmi.
“Gellert vuole
che usi la Legilmanzia su di lui. Credo che voglia “comunicarci” i
piani del nemico tramite i suoi ricordi” spiegai pazientemente.
Era una nuova
sfida? Possibile che persino in una situazione di mio netto vantaggio
riuscisse a spogliarmi, a denudarmi, a ferirmi?
Le sue labbra
sul mio sesso erano atroci, erano migliaia di schegge che s’infilavano
sotto la mia cute, dentro la sclera dei mie occhi.
Le sue iridi non
abbandonarono mai il mio viso, anche se non ebbi il coraggio di
incrociarle. Sperai che nascondessero una supplica, una sua preghiera.
Non
andartene. Non lasciarmi.
“Tuttavia”
commentai ruotando delicatamente la testa di Gellert “non sarà
un‘operazione facile”.
“Per via del
Distillato?” chiese Medcraft, incuriosito “dice che una dose tanto
massiccia potrebbe compromettere la Legilmanzia?”.
“Non c’è il
rischio che i suoi ricordi vengano compromessi” spiegai “ma qualsiasi
azione su un corpo tanto debole potrebbe rivelarsi destabilizzante…il
troppo stroppia!”.
Mi abbracciò,
con una folle delicatezza che mi lacerò l’anima per sempre. Non potevo
credere che con la stessa mano con cui impugnava feracemente la
bacchetta, con cui aveva sradicato e dilaniato, stesse toccando le mie
intimità tanto dolcemente. Le sue dita erano dappertutto, dentro e
fuori.
Quando le sue
carezze divennero più violente e dolorose, mi sorpresi a non volerle
fermare.
“Non sarebbe una
cattiva trovata…potremmo appropriarci dei piani dei tedeschi e
sbarazzarci di un individuo pericoloso”.
Dubitai
profondamente che a Medcraft interessasse il destino di Gellert o
dell’Inghilterra stessa: sarebbe stato capace di servire chiunque, i
pii quanto gli assassini.
Era questo che
desiderava Gellert? Essere ucciso da una mano conosciuta, prima della
sua disfatta? Aveva finalmente capito che il futuro che agognava non
poteva essere altro che il sogno di un folle?
Quel corpo
anziano mi urlava la sua stanchezza, i suoi ideali sfumati come
l’aurora.
Lo morsi e mi
aggrappai a lui. Agganciai i talloni ai suoi fianchi per il terrore di
scivolare via, di perdermi.
Non sentivo il
mio corpo, solo il suo, le sue mani frenetiche, il suo respiro rotto,
il suo membro che mi plasmava, che modificava il mio corpo a suo
piacimento.
Sollevai le
palpebre stanche di Gellert e vidi, dopo anni, decenni, i suoi occhi
verdi: erano fuligginosi come una finestra lercia. Ma anni e decenni
non potevano cancellare l’abisso che celavano. Fu semplice vederlo, era
appena dietro la cortina di polvere: ci passai sopra il dito, la tolsi
con un soffio ed eccolo là, a guardarmi, mi aveva trovato.
Se
guarderai a lungo nell'abisso, anche l'abisso vorrà guardare in te.
Mi tenne fermo
il viso mentre veniva e urlò i suoi gemiti sul mio viso, disperato, i
suoi denti tra il mio naso e le mie labbra.
Entrare nella
mente di Gellert significava stanare ricordi che credevo sepolti,
tumulati. E forse significava danneggiare irrimediabilmente le sue
sinapsi.
È
giusto che alcune persone debbano morire per consentire al Bene
Superiore di germogliare.
Lo vidi debole e
insicuro, contro la mia gola. Si nascondeva, stravolto e forse un po’
stupito dalle sue azioni.
Ma io non mi
mossi: lo tenni dentro di me, nonostante il fastidio.
Gli alberi
sradicati scricchiolavano, non avevano mai smesso: non lo potevo ancora
sapere, ma ben presto Gellert avrebbe sostituito gli alberi con uomini,
donne e bambini. Li avrebbe sventrati come se la loro pelle fosse legno
e il loro sangue clorofilla.
Non sarebbe
stato difficile.
Che importanza
poteva avere il corpo di un solo uomo, la corteccia di un solo albero
per il Bene Superiore?
Non sarebbe
stato difficile.
Era come
calcolare gli anni degli alberi: bastava tagliare il tronco e contare i
cerchi.
“È stata una
scena molto…particolare. Lei, seduto al capezzale di Grindelwald. Mi ha
ricordato Romeo e Giulietta”.
“Ho sempre
apprezzato Shakespeare. È stato un brillante Corvonero”.
Ignorai il
sorrisetto sibillino di Medcraft: fortunatamente il mio nome era
abbastanza rinomato e non temetti per eventuali pettegolezzi o male
voci.
Mi ero nascosto
all’arrivo della squadra Auror; non erano particolarmente stupiti dal
ricevere i piani dei tedeschi in una boccettina piena di ricordi
argentati. Il fatto che nessuno di loro avesse ipotizzato di sotterrare
Gellert in una fossa comune mi fece intendere che il nostro Ministero
della Magia non fosse totalmente in guerra con quello tedesco e che ci
fossero molti più venduti di quelli che temevo.
Mai rimpianto di
aver abbandonato la politica.
Mi riunii a
Valerius che volle accompagnarmi presso la mia Passaporta per
l’Inghilterra, prima di raggiungere la squadra Auror. Il gelo russo
continuava a sospirare tra le mie vesti.
“E quello?”
chiese Medcraft all’improvviso, notando una boccettina argentea
nascosta nel mio abito.
La raccolsi
delicatamente, l’aprii e lasciai scivolare via quel ricordo.
“Una memoria
comune” raccontai “un tragico ricordo che condividiamo. Non ho potuto
fare a meno di cercarlo, mentre estraevo dai suoi ricordi i piani
nemici”.
“Ha trovato
quello che cercava, professore?” chiese Medcraft.
Il ricordo si
era smembrato nell’aria.
“Ho scoperto che
nemmeno lui aveva la riposta alla domanda che tuttora mi attanaglia”
commentai pacatamente “e forse era questo che voleva condividere con
me, il motivo per cui mi ha voluto qui”.
Forse anche lui
era rimasto bloccato in quel ricordo: se Ariana non fosse morta,
avremmo potuto passare tutte le stagioni della nostra vita a Godric’s
Hollow, sospesi come in un sogno, statici come alberi. Forse era il suo
modo per chiedere perdono.
Invece ci
saremmo sfidati presto, ormai lo sapevo: bruceremo vivi, attenteremo
alle nostre vite, vomiteremo polvere.
Ci guarderemo
negli occhi e conteremo gli anni che ci hanno separato nelle rughe dei
nostri volti.
Note
finali per i coraggiosi giunti fino in fondo:
Note su alberi e affini= la
famosissima scienza
che studia gli anni degli alberi è la dendrocronologia: osservando i
cerchi all’interno di un tronco si possono conoscere gli anni di vita
dell’albero ed eventuali traumi subiti(periodi di siccità, incendi
etc…). Si può addirittura comporre un grafico sulle condizioni
climatiche di diversi anni fa (data la longevità degli alberi)
analizzando i cerchi di piante della stessa specie e che risiedono in
aree limitrofe.
Note sulla seconda guerra mondiale=
la Rowling ha specificato più volte che un periodo di crisi nel mondo
Babbano influisce su quello dei maghi e viceversa…quindi dubito che i
maghi londinesi fossero particolarmente sereni, mentre l’aviazione
tedesca bombardava la loro città.
Leningrado (ai
giorni nostri San Pietroburgo) è stata tenuta sotto assedio per 900
giorni dall’esercito tedesco, dal 1941 al gennaio 1944. La via della
Vita, attraverso il Lago Ladoga, è esistita veramente.
Note sulle pozioni: il
fatto che una pozione possa avere delle controindicazioni è una mia
idea(anche se non lo trovo così stramba come opzione). L’espressione
“il troppo stroppia” è stata usata da Lumacorno nel sesto libro,
riferendosi alla Felix Felicis.
Altre note: Elphias Doge è
un buon amico di Silente e appare per la prima volta nel quinto libro
come membro dell’Ordine. Nell’epitaffio per la morte del professore,
che scriverà nel settimo libro, citerà la loro mancata partenza, a
causa della morte di Kendra Silente.
L’idea di
Shakespeare-mago è una mia idea cretina…anche se a
leggere alcune sue opere mi viene qualche dubbioXD
Ringrazio
infinitamente la GiudiciA Freya
Crescent e il suo contest “Di vite intrecciate e verità
emblematiche” che mi ha permesso di partorire questa schifezza storia, tra
l’altro la mia prima yaoi.
Grazie
per l’attenzione!
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