Capitolo uno
Questa
storia è stata scritta a quattro mani con NatalieRiver182,
i
meriti e le colpe di questa storia sono tanto suoi quanto
miei…
Scritta
per la sfida "Una storia, quattro mani", indetta sul gruppo Facebook
Efp famiglia: recensioni,consigli e discussioni
Con la consegna n. 6
PRIMO
CAPITOLO
Pioveva.
Le gocce sui vetri del locale erano simili alle
lacrime che vedeva abitualmente nel suo ufficio.
Massimo non era un sostenitore dei piagnistei, non
era paziente e comprensivo, era solo un avvocato. E faceva il suo
lavoro.
Rosanna prese a muovere il cucchiaino nella sua
tazzina, guardando fuori dalla finestra. Una ruga le solcava la fronte,
una
ruga che altre donne avrebbero cercato di nascondere, mentre lei
sembrava farne
una bandiera.
Massimo si ritrovò i suoi occhi addosso mentre
sorseggiava il suo caffè.
«Ti concentrerai solo su questo caso, vero?»
mormorò
lei mordendosi il labbro.
Sorresse il volto con la mano e il gomito appoggiato
al tavolino. Un lampo illuminò l’azzurro del suo
sguardo e Massimo si perse ad
ammirarla.
«Sì.»
«E non vuoi dirmi perché?»
Il resto del locale era vuoto, ma lui si sentì come
al centro di una folla. Si schiarì la gola mentre si
guardava intorno. C’era
solo il barista, qualche metro più avanti, intento a pulire
il bancone.
«Ros… ho provato a spiegarti.»
«Hai provato…» ripeté lei
schiudendo appena la bocca.
La sua voce uscì suadente come quando erano soli, a casa
sua… «E non ci sei
riuscito» e tagliente come quando voleva ferirlo.
Massimo era abituato a essere al centro
dell’attenzione, a sentirsi attaccato, quasi
aggredito… eppure nessuno riusciva
a fargli l’effetto di Rosanna. La tensione che provava quando
era con lei
poteva essere pari solo all’attesa della sentenza, quando il
giudice chiede al
convenuto di alzarsi in piedi.
Quando era incerto sul risultato, quando, da
difensore, diventava un po’ vittima. Vittima del tempo, del
giudizio, vittima
più dell’indagato.
«Ros…»
«Niente Ros» lo interruppe lei scuotendo i bei
capelli ricci.
Massimo ne ammirò il colore rosso e sfuggente, e
ricordò una cliente che con lui aveva perso. L’unica con cui avesse mai perso una causa.
«Voglio sapere perché ti vuoi dedicare
completamente
a questo caso» continuò Rosanna, accarezzando la
tovaglietta verde del tavolo.
«Perché solo a
questo?»
Massimo, l’avvocato, quello che non temeva giudice e
giuria, quello pronto a trovare sempre un motivo per difendere i suoi
clienti,
si sentì un momento interdetto.
Dire o non dire?
Non sapeva quanto
Rosanna sarebbe stata pronta ad accettare. Lei veniva da una famiglia
per bene,
e non aveva mai considerato innocenti gli indagati. Tutti
gli indagati. Vittorio Brandi compreso.
«Ha compiuto troppi reati, Ros. Non mi va di
lasciarlo.»
«Eppure sembri convinto di perdere…»
Rosanna lo conosceva bene. Forse anche troppo.
«Ha commerciato prodotti
malfunzionanti…» disse
Massimo abbassando lo sguardo sui bottoncini dorati della sua camicia.
Era
vestita in modo molto diverso da lui: il bianco degli abiti di lei era
in
perfetto contrasto con il suo completo grigio. «E ti
risparmio il resto…
Minacce, aggressione a pubblico ufficiale, pubblica
intimidazione… Ha anche
contraffatto questi prodotti, spacciandoli per Asam.»
Rosanna sorrise.
E fu il primo arcobaleno di quel giorno.
L’uomo
era in cella, in attesa del processo che
avrebbe decretato la sorte della sua libertà, con il sorriso
mellifluo e
viscido di chi era convinto di avere in pugno la situazione: in fondo,
era
nelle abili mani di Massimo Spina, il quale gli aveva comunicato di
essere alla
ricerca di alcune prove in grado di scagionarlo.
Con Massimo si era sempre dichiarato innocente,
aveva finto meglio di un attore teatrale, ingannando quel pover uomo
che
pensava di agire per la giustizia. Al pensiero, il sorriso sulle labbra
di
Vittorio si allargò.
Giustizia?
borbottò tra sé e sé. Ma
dove! Non esiste una giustizia unica per tutti. Coloro che la
evocano sono degli illusi convinti dell’esistenza di un Dio.
Si accarezzava la barba ispida che non aveva avuto
modo di radere, mentre rifletteva su quanto sciocche potessero essere
le
persone, mettendosi contro qualcuno chiaramente più forte.
Non che si ritenesse superiore a loro, tutt’altro!
Credeva solo di essere più furbo.
Aveva sempre appoggiato i potenti, senza far nulla
che potesse infastidirli, ma al tempo stesso li disprezzava,
poiché credevano
di poter far tutto il loro comodo, come se non gl’importasse
di nessun altro.
Nemmeno a lui interessava, perciò non aveva provato
alcun rimorso in seguito a quella che era stata una delle
più clamorose truffe
dell’anno.
Aveva ordito tutto nei minimi dettagli, e dopo aver
venduto a prezzi esorbitanti quello scadente marchingegno, destinato a
distruggersi entro una settimana, sarebbe dovuto partire per il
Messico, dove
avrebbe fatto perdere le proprie tracce.
Purtroppo, aveva sottovalutato l’intelletto di uno
degli acquirenti, il quale l’aveva denunciato per truffa dopo
solo due giorni
dall’acquisto. Vittorio si era chiesto se non fosse stato uno
di quei tipi che
si divertono a smontare macchine, bilance, orologi e robot da cucina
per vedere
come fossero all’interno.
Fatto stava che un certo Antonio Biagi si era reso
conto che mancavano dei pezzi, che quell’affare meccanico non
serviva di fatto
a nulla e che era inesorabilmente destinato a rompersi.
Pochi giorni dopo erano giunte altre denunce, che
l’avevano fatto arrestare e costretto a passare due settimane
in cella in
attesa del giusto processo. Non avrebbe mai ammesso nulla, col cavolo
che
l’avrebbe fatto!
Negare, negare e negare, fino alla fine.
Fingere di essere stato incastrato, di non averne
mai saputo nulla.
Dire che era stata tutta opera dei “superiori”,
che lui credesse di lavorare
onestamente.
Ammise di aver un po’ esagerato con la recita del
povero innocente che si trovava a combattere contro gli aguzzini che
volevano
distruggerlo: minacciare l’ufficiale di denunciarlo per
diffamazione, così come
aveva fatto con l’accusa, non era stata una grande idea.
Ingoiato l’errore, tornò a ripetersi che non
poteva
finire in carcere, in un mormorio simile alla litania. Suonava ironico,
dato
che quella dove si trovava era niente di meno che una cella puzzolente,
spoglia
e terribilmente noiosa.
Ma non poteva permettersi di ammettere i propri
crimini, non se a difenderlo c’era lui…
Le
mura del carcere sembravano colorare di grigio il centro della
città.
C’erano
alberi intorno, e palazzi, e strade.
Massimo
pensò che non era la prima volta che attraversava quel suo
piccolo mondo per
difendere qualcuno di colpevole. Perché Vittorio Brandi, il
suo cliente, era
colpevole.
Lo
aveva sempre saputo, ancora prima di venire chiamato a difenderlo.
Attraversò
le strisce pedonali di fronte al cancello di ferro, pronto a
incontrarlo. Sistemò
una mano in tasca per darsi un tono, come faceva sempre quando doveva
vederlo.
Si
chiese quanto era giusto proteggerlo, nonostante i motivi che aveva,
quei
motivi che non aveva ancora trovato il coraggio di svelare a
Rosanna…
Forse,
si disse, se fosse stato un altro si sarebbe semplicemente rifiutato di
difenderlo.
Mostrò
i documenti alle guardie, che lo conoscevano, e si avviò
all’interno
dell’edificio, attraversando diversi corridoi prima di
trovarsi nella stanza
dei colloqui. Era un posto che non gli piaceva, ma a cui aveva fatto
l’abitudine.
Aspettò
il detenuto cominciando a sedersi, dando le spalle alla finestra alta e
stretta
che illuminava appena il muro di fronte. C’era solo un tavolo
in quel posto. E
due sedie.
Quando
la porta si aprì, Massimo passò due dita sugli
occhi, come a calmarsi. Ma era
calmo, non aveva motivo di essere agitato.
Allora
cos’era quel senso di inadeguatezza che sembrava avvolgerlo?
«Avvocato
Spina…» lo salutò la guardia, prima di
chiudere la porta alle spalle del
detenuto.
Era
basso, con la faccia cortese di chi è sempre pronto a
sorriderti, le spalle
strette e le braccia corte di chi non è in grado di
difendersi. Ma era tutto
falso, Massimo lo sapeva.
Vittorio
era tutto fuorché cortese, un matto che dava i numeri senza
preavviso,
arrivando alle mani. Quando cercava di nascondere la rabbia, sul suo
volto si
formava una fossetta, vicino alle labbra.
Era
il suo segnale. E Massimo lo conosceva.
Il
suo cliente raggiunse la sedia di fronte a lui con estrema lentezza,
come se
non avesse nessuna fretta di parlargli. Eppure era lui quello che
rischiava.
Massimo
seguì la mano di Vittorio, liscia e pulita, quasi da donna,
mentre raggiungeva
lo schienale per tirarlo verso di sé.
«Eccoti,
avvocato…» esordì Vittorio, portandosi
le dita alle labbra come se stesse
fumando una sigaretta.
Era
uno dei suoi vizi, Massimo lo ricordava bene.
«I
capi d’accusa sono tanti, troppi» rispose lui,
ignorando il suo commento. «Come
vogliamo procedere?»
«Sei
tu che hai studiato legge.»
Massimo
guardò i capelli radi di Vittorio e ringraziò il
cielo di non essere come lui.
Almeno lui li aveva, i capelli. Lo pensò per distrarsi, per
evitare di
rispondere a quei commenti che lo irritavano tanto. Poi fece un lungo
sospiro e
finse di trovarsi con un cliente qualunque, un cliente innocente.
Almeno
fino a prova contraria.
«Possiamo
mettere di mezzo psicologi, dire che ci sono stati problemi durante
l’infanzia…»
«Ammettilo,
tu vuoi proprio farmi apparire come un down!»
accennò una risata, come a voler
porre la conversazione sullo scherzo. Ma era serio, lo sapeva benissimo.
«Oppure,»
proseguì Massimo, come se non fosse stato interrotto,
lanciando un’occhiata di
sbieco alla porta. «possiamo dire che non si sapeva nulla del
malfunzionamento
e che l’attacco d’ira è stato causato
dall’idea di essere stato raggirato…»
«Attacco
d’ira? Come parli, avvocato.»
«Ciò
che capita quando si arriva a minacciare e aggredire. Ciò
che è successo…»
Vittorio
si torse le mani e spostò lo sguardo altrove, innervosendosi
al ricordo
dell’accaduto.
Fu
questione di un attimo, prima che riprendesse la solita espressione
pacifica e
sardonica, con l’unica aggiunta di un’innocente
fossetta.
«Massimo,
cerca di capire. Ti assicuro che non volevo fare una scenata simile, mi
sono
sentito messo sotto torchio e accusa, tra l’altro
ingiustamente!»
Massimo
annuì, assecondandolo.
Bugie,
pensò, solo bugie.
Eppure
decise di iniziare a fargli domande come se fosse stato innocente.
«Adesso
rispondimi sinceramente» era più una formula
d’introduzione che una vera
richiesta, dato che sapeva benissimo che la risposta sarebbe stata solo
un’altra falsità «Sapevi della
truffa?»
L’uomo
parve titubare un attimo, come combattuto. Restò in silenzio
qualche istante,
mentre quel barlume di onestà in lui gli sussurrava di dire
la verità, per amor
suo.
«No.»
Massimo
trattenne un sospiro.
«In
questo processo, io voglio che si dica solo la verità.
È stato un, come dici
tu, attacco d’ira, e non ne sapevo assolutamente
niente!» Vittorio puntò gli
occhi verdi sull’avvocato. «Devi credermi, almeno
tu» aggiunse.
Quelle
ultime parole erano intrinseche di una malinconia che il buonsenso
avrebbe
definito artificiale, ma che fecero dubitare un istante Massimo della
colpevolezza del cliente.
Si
disse che forse era meglio così, per giustificare
quell’attimo quasi di debolezza:
come poteva difenderlo, se nemmeno lui lo credeva innocente?
«Va
bene, Vittorio» la voce inciampò su quel nome.
«Diremo così, allora, ma le
parole non bastano, Sai dirmi dove posso trovare una qualche
prova?»
Vittorio
parve infervorarsi, guardando il difensore. Tuttavia, trascorse
nuovamente un
altro momento in silenzio, forse meditando, prima di fornire a Massimo
qualche
informazione.
«Sì,
certo che lo so. Scusami, stavo riflettendo un attimo per decidere se
ciò che
sto per dirti potesse avere un peso legale o meno.»
Massimo
non poté evitare una risposta sagace.
«Non
sei stato tu a dire che qui l’avvocato sono io?»
Entrambi
accennarono un sorriso, un po’ triste, un po’ amaro.
«Sì,
sei tu, e non ho alcuna intenzione di rubarti il ruolo. Solo, volevo
evitare un
secco “non conta niente” mentre parlavo.»
«Lo
eviterai, ma ora su, dimmi, che l’orario delle visite sta per
finire.»
L’uomo
cercò un attimo le parole, scegliendo con cura con quali
fosse meglio iniziare.
«Come
sai, ho acquistato quelle macchine Asum per conto di alcuni, perdonami
l’epiteto forse troppo vago, ricconi, che mi dissero di voler
aprire un’azienda
di rivendita, insomma, una specie di amazon ma non su
internet.»
Quella
lunga introduzione non fece altro che innervosire Massimo, che si
chiedeva dove
volesse arrivare.
«Ecco,
io non ho mai toccato né visto quelle macchine. La ricerca
di impronte su uno
qualsiasi di quegli affari potrà confermarlo.»
L’avvocato
aprì bocca, ma Vittorio lo costrinse a richiuderla
interrompendolo prima ancora
che iniziasse a parlare.
«So
cosa stai per dire. No, non avrei potuto pagare nessuno che lo facesse
al posto
mio, innanzitutto perché non avrei avuto soldi sufficienti,
poi perché sono
apparecchi delicati, e per aprirli e smontarli serve uno strumento
apposito di
cui ignoro addirittura il nome, so soltanto che costa davvero tanto ed
è
difficile da usare.»
Massimo
alzò un sopracciglio, chiedendosi come mai allora qualcuno
fosse riuscito ad
aprirla e a scoprire l’inganno; si rispose che certi
smanettoni hanno davvero
di tutto in casa, per soddisfare la loro curiosità.
O
forse, semplicemente, lo faceva di mestiere.
Oppure,
ancora, suo fratello gli stava mentendo…
«Va
bene, vedrò di lavorarci su e pensarci a casa, in modo da
verificare che questa
prova non abbia falle. Con tutte queste denunce alle spalle, non
possiamo
permetterci di farci smontare qualcosa, lo capisci, no?»
Vittorio
annuì, gettando un’occhiata
all’orologio. Massimo si alzò, sistemò
i pantaloni
e la giacca e rimise a posto la sedia.
«Domani
ti farò sapere. Buona giornata e arrivederci.»
Fu
in quel momento che Vittorio disse qualcosa che Massimo avrebbe
preferito non
facesse.
Vittorio
non aveva idea del perché desiderasse salutarlo in un modo
del genere. Non
aveva idea nemmeno del perché il sorriso pacato sul suo viso
si fosse tramutato
in un ghigno divertito, solo nella penombra della stanza mal
illuminata. Sapeva
solo che avrebbe ottenuto certamente una reazione, in quel modo, e non
il
solito modo indifferente da avvocato, freddo e realista.
«Allora
a domani, fratellino.»
Massimo,
che ormai gli dava le spalle, a un passo dalla porta si
raggelò, rimanendo
pietrificato sul posto.
Un
secondo, due, tre, quattro, cinque. Cinque secondi durante i quali
l’avvocato
sarebbe voluto sparire dalla faccia della Terra.
Vittorio
sorrideva, ma lui non si voltò.
«Sì»
fu l’unica risposta, prima di poggiare il palmo sulla
maniglia e abbandonare la
stanza.
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