Note di
inizio ficcu *O*
Questa è una piccola ed insignificante... fotocopia riuscita
male di un facsimile di una fotografia sfocata e mossa di una storia
u.u" Insomma, diciamo che non è proprio da me fare cose a
lieto fine ecco >w< non mi piace molto in effetti,
proprio per questo motivo, ma la pubblico per una persona importante u.u
E' nata così per caso mentre ascoltavo il duetto al piano
del film la sposa cadavere °° mi sono immaginata quella
canzone mentre scrivevo, quindi boh, vi consiglio di ascoltarla
*annuisce* e poi volevo fare una bella storia con quei due chitarristi
da strapazzo, dopo quello che gli avevo fatto passare
ç-ç
Non ho immaginato chi dei due protagonisti potesse essere il narratore,
quindi è a vostra discrezione u.u
Sempre bene accette le critiche, e come al solito sono sempre disposta
ad andare a scavare le patate *annuisce vigorosamente*
I
Gazette non mi appartengono, questa storia non vuole raccontare fatti
realmente accaduti o che accadranno, e non è stata scritta a
fini di lucro.
Detto questo, buona lettura^^
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Il piccolo cofanetto giaceva, immobile ed impolverato, su di un vecchio
settimino in legno massiccio.
Il bambino gli si avvicinò, curioso, appoggiò le
mani sul ripiano di legno e si alzò sulle punte, per vederlo
meglio, la bocca semiaperta in un’espressione di stupore.
Allungò un braccino paffuto, ma l’oggetto del suo
momentaneo desiderio era troppo lontano perché lui potesse
raggiungerlo, stese la manina più che potè, ma
quello restava comunque a debita distanza da lui.
Una mano grande e forte si poggiò sulla sua testa,
scompigliandogli dolcemente i capelli castano scuro, il bambino si
voltò, con gli occhi lucidi, ed additò il piccolo
oggetto con l’indice.
“Nonno… non riesco…”
“vuoi che il nonno lo prenda per te?”
“si… grazie…”
L’uomo prese tra le mani il cofanetto, spolverandolo appena,
e delicatamente lo mise nelle mani del suo dolce nipotino.
Il bambino si accovacciò sul tappeto, esaminandolo con cura.
“ti piace, Nori-chan?”
[ti piace, Uruchan?]
Il piccolo si voltò, osservando il nonno sorridergli
tristemente, e gli porse l’oggettino, invitandolo a
mostrargliene il funzionamento.
L’uomo, paziente, girò la piccola chiavetta dorata
posta si un lato del cofanetto.
Una, due, tre volte.
Lo posò sul tavolino, proprio davanti al bambino e lo
aprì delicatamente, quasi avesse paura di romperlo e subito
una dolce melodia si diffuse in tutta la stanza.
Un’ondata di nostalgia travolse l’uomo, che
avvertì come se qualcosa gli si stringesse intorno al cuore,
limitandone i battiti.
Una piccola ballerina, vestita di un abito bianco, perfetto in tutte le
sue rifiniture, volteggiava silenziosamente al ritmo di quella musica
triste, dolce e carica di ricordi.
Nori si portò una mano alla bocca, osservando rapito la
piccola figura muoversi in tondo sul vetro sotto di lei.
“vuoi ascoltare una storia, Nori-chan?”
Il bimbo annuì, felice, e si accomodò meglio sul
tappeto per ascoltare più comodamente la storia del nonno.
“Ecco, c‘era una volta, molto molto tempo fa, una
principessa. Lei era bellissima, aveva dei lunghi capelli biondi e gli
occhi color del cioccolato che facevano innamorare chiunque la
guardasse. Aveva molti spasimanti, tra i principi di ogni regno, ma il
suo cuore apparteneva ad un povero ed umile
contadino…”
Avevano sempre amato girare per
la città. Natale poi era il periodo più bello
dell’anno.
Passeggiare mano nella
mano, stretti l’uno all’altro come se il calore dei
cappotti non bastasse a proteggerli dal freddo, sotto le migliaia di
luci colorate che rallegravano l’atmosfera.
Scambiarsi fuggevoli
baci sotto il vischio, dolci effusioni davanti a qualche vecchia
bigotta o semplicemente stare abbracciati stretti su una panchina ad
osservare il fiume di gente che si affannava lungo le strade.
Era un amore contro
natura, un amore che non doveva esistere, ma perché poi?
Chi aveva stabilito che
due uomini non potessero amarsi, chi aveva deciso che questo sentimento
tanto forte potesse sbocciare soltanto tra un uomo ed una donna?
A volte
l’altra metà della nostra mela è molto
più simile a noi di quanto pensiamo.
Ed era bello. Lui era
bello.
Ed era perfetto. Loro
erano perfetti.
“Aoichan
guarda, guarda qui!”
“Uru,
è la decima volta che ci fermiamo, non sei stanco di
guardare le vetrine?”
“No devi
vedere questo, è l’ultima te lo giuro,
però sbrigati!”
Era il banchetto di un
venditore ambulante, sul ripiano traballante c’erano oggetti
di tutte le forme, dimensioni e colori, alcuni di gusto davvero
discutibile, ma quello che stava indicando Uruha con tanta insistenza
era l’unica cosa forse degna di nota tra tutta quella
paccottiglia.
“Non
è splendido?”
Prese
l’oggettino tra le mani, fece un giro di chiave e lo
aprì, beandosi del dolce suono che proveniva da esso.
Gli si illuminavano gli
occhi ed era bello vederlo così felice.
“Già,
è molto bello, ora però torniamo a casa, che fa
freddo e ho voglia di coccole?”
Uruha mugolò
in risposta, e posò triste il carillon sul banchetto, poi,
insieme, si avviarono a casa sua, dove li aspettava un camino acceso ed
un letto comodo.
“Oh, quindi il contadino non lo sapeva?”
“In realtà si, ma vedi, non aveva il coraggio di
dirle quello che provava. La principessa lo sapeva, per questo non
voleva dirgli nulla finchè lui non si fosse deciso”
“Aoi…”
“mh..?”
Uruha strusciava
dolcemente la testa contro l’incavo del collo
dell’altro. Seduto a cavalcioni sul moro, si comportava come
un piccolo gattino in cerca di cibo.
“Aoichan…
noi due…”
Il tono del biondino si
era fatto improvvisamente più serio, lasciò il
posticino che aveva trovato e puntò i suoi occhi in quelli
dell’altro
“che
c’è Uru?”
“ecco…
stiamo insieme da un po’… e mi chiedevo
se… insomma…”
Abbassò il
capo, imbarazzato, ma due dita sotto il mento lo costrinsero
gentilmente a rialzarlo
“coraggio, che
vuoi dirmi?”
“tu…
non mi hai… mai detto… che mi ami”
Pronunciò le
ultime tre parole velocemente e arrossì, non voleva
dirglielo, non così, ma non aveva resistito, lui voleva
sapere se rappresentasse qualcosa per Aoi o fosse semplicemente un
passatempo. Lui era sempre gentile e dolce e non poteva negarlo, ma non
gli aveva mai detto “ti amo” nonostante lo
dimostrasse ogni giorno.
Il moro taceva,
scrutando nei suoi occhi, con le mani poggiate delicatamente sui suoi
fianchi.
“Aoi…
rispondi…” ti prego, aggiunse mentalmente,
rattristandosi del suo silenzio, lui non parlava, era semplicemente
immobile nella stessa posizione di prima e lo guardava, non aveva
nemmeno cambiato espressione.
“va
bene… ho capito…” sussurrò,
alzandosi e rinchiudendosi in camera, a chiave, così che non
potesse entrare. Si gettò sul letto ed affondò il
viso nel cuscino, per quanto ci provasse a dare una giustificazione al
comportamento di Aoi, restava il dolore provocatogli dal suo silenzio.
“Il contadino non aveva avuto il coraggio, si era dimostrato
debole, sapeva che così facendo avrebbe perso per sempre la
sua principessa, ma non era stato capace di confessarle tutto,
lasciando che lei si voltasse e se ne andasse, arrabbiata e
triste”
“Ma se la amava, doveva riuscire a dirle tutto, la mamma dice
che l’amore è così forte che supera
qualunque cosa…”
“infatti, il povero contadino cominciava a pensare che,
forse, quello che provava non era poi così forte, e i dubbi
cominciarono a roderlo dentro, impedendogli il sonno”
Perché,
perché diavolo era stato così debole,
perché non gli aveva detto “Si, Uruha, ti amo,
più di qualunque altra cosa al mondo”
perché non gli aveva spiegato quanto fosse indispensabile
per lui, perché?
Si sentiva
così stupido a non avergli risposto. Le parole ce le aveva,
doveva soltanto dirgliele, invece era rimasto zitto e muto, a
guardarlo. Nemmeno aveva tentato di fermarlo quando si era alzato ed
era andato via, non aveva provato a calmarlo quando aveva sentito dei
singhiozzi dalla porta. Non aveva fatto assolutamente nulla, ma per
quanto si sentisse in colpa, c’era comunque qualcosa che non
gli tornava.
Era davvero amore,
quello che provava per Uruha? Era qualcosa di più del
semplice affetto, oppure lo aveva fatto solo per assecondare quel dolce
angelo, che lo aveva baciato timidamente una mattina di gennaio, e lui
gli aveva risposto che si, potevano provarci a stare insieme.
Forse
all’inizio, non era amore, ma poi, lui si era reso lentamente
indispensabile.
Si stese supino sul
divano, fissando il soffitto, poco dopo si diede dello stupido per
averlo solo pensato. Amava il suo angelo, ne era certo, non poteva
resistere un giorno senza di lui, che era la sua luce, la sua acqua, la
sua vita.
Avrebbe fatto di tutto
pur di vedere il sorriso comparire su quelle magnifiche labbra, ed
avrebbe fatto di tutto pur di farsi perdonare da lui.
Pur di non perderlo, di
averlo ancora accanto.
Il mattino dopo, quando
Uruha si svegliò, poteva dire di sentirsi meglio. Il pianto
notturno l’aveva fatto sfogare, permettendogli di pensare
razionalmente quando si fosse svegliato.
Si stropicciò
gli occhi, liberando le palpebre incollate tra di loro, si
stiracchiò e scese dal letto, in effetti era abbastanza
tardi. Aprì la porta e si diresse in soggiorno, di Aoi
nessuna traccia, solo un invitante profumo di caffè che lo
guidò in cucina.
Evidentemente lui aveva
programmato la macchina per quell’ora, ben consapevole
dell’orario a cui si sarebbe svegliato.
Sorrise, a quel
pensiero, e si avvicinò al ripiano, notando un piccolo
bigliettino accanto alla caraffa del caffè ormai piena.
C’era scritto
il suo nome, con una grafia curata e inconfondibile, lo
voltò e prese a leggerlo
“Caro Uruchan,
se ora stai leggendo questo biglietto devono essere le undici, minuto
più minuto meno, contando che ci metti più di una
donna a prepararti, ti aspetto all’una alla panchina sotto la
quercia, nel parco qui dietro. Non tardare
Aoi.”
“Il giovane contadino voleva fare di tutto, per riconquistare
la fiducia della sua amata, si sarebbe gettato nelle fiamme per saperla
felice”
“e allora, cos’ha fatto? Dai nonno,
dimmelo!”
“un attimo di pazienza, Nori-chan, ci sto
arrivando… voi giovani, sempre così
impazienti…”
“Nonno!”
“si, si… allora, cosa dicevo? Ah,
si…”
L’una e dieci minuti.
Uruha sedeva sulla
panchina di pietra, sotto la quercia come gli aveva detto Aoi. Era
fredda, ma per lui era un posto speciale, era lì che aveva
dato il suo primo bacio ad Aoi, se lo ricordava benissimo.
Muoveva nervosamente una
gamba, si stringeva nel cappotto e guardava prima a destra, poi a
sinistra, insistentemente, poi dava un’occhiata
all’orologio.
L’una e
quindici, ma di Aoi nessuna traccia.
Basta, aveva deciso, se
entro cinque minuti non fosse arrivato, sarebbe tornato a casa e tanti
saluti.
Una coppia di genitori
gli passò davanti, spingendo una carrozzina, degli anziani
passeggiavano nonostante l’aria fredda.
Niente Aoi.
Scosse la testa, i
capelli biondo miele infilati in un morbido cappello di lana grigia.
Si alzò,
spolverandosi un po’, ma prima che potesse allontanarsi
sentì qualcuno tirargli un lembo del cappotto.
Si voltò, ma
non vide nessuno e non si accorse, finchè una dolce vocina
non lo avvisò della sua presenza, di un bambino avvolto in
una grossa sciarpa rossa, il cappello ben calato sul viso e il cappotto
stretto.
Si abbassò, e
vide che reggeva qualcosa tra le manine coperte dai guanti
“mi scusi
signorina, quel signore laggiù mi ha dato 500yen per
consegnarle questo!”
Stese le braccia e gli
mostrò un’orchidea, viola, e accanto ad
essa… no, non ci poteva credere.
Il trillo del campanello interruppe la storia, l’uomo si
alzò stancamente dalla poltrona e andò ad aprire.
Poco dopo fece il suo ingresso nella stanza accompagnato da una donna
dai lunghi capelli neri e gli occhi scuri
“Nori-chan, la mamma è qui”
“Oh, di già? Volevo finire di ascoltare la storia
del nonno!”
“L’ascolterai la prossima volta, tesoro, ma ora
andiamo a casa”
“Uff… va bene”
Il bambino si avvicinò alla madre, e lasciò che
lei gli infilasse il cappotto
“papà, grazie di averlo tenuto, non sapevo proprio
a chi lasciarlo”
“figurati tesoro, è stato un piacere…
ci vediamo domani Nori-chan”
Il bambino salutò con un cenno della mano e un grosso
sorriso, prima di scomparire giù per le scale.
L’uomo chiuse la porta, e tornò a sedersi sulla
poltrona, rigirandosi il carillon tra le mani.
Già, non aveva finito la sua storia…
Non ci poteva credere.
Recuperò gli oggetti dalle mani del bambino e lo
salutò con un sorriso, vedendolo allontanarsi felice e
saltellante.
Si abbandonò
sulla panchina, rimirando il piccolo oggetto nelle sue mani.
“è
bello, vero?”
Sobbalzò,
sentendo una voce alle sue spalle, una voce familiare però.
“tu
Aoi… hai…”
Il moro
accostò il proprio viso al suo, gli cinse le spalle con le
braccia, da dietro, intrappolandolo in un tenero abbraccio.
“esatto. Ti
piace, Uruchan?”
“è
meraviglioso ma… come…
perché?”
“diciamo che,
ho dovuto supplicare una vecchietta, e diciamo anche che l’ho
pagato il doppio…”
“scemo, ho
detto che mi piaceva, non che lo volevo…”
“I tuoi occhi
dicevano il contrario e… e il perché…
c’è scritto qui…”
Portò le mani
al carillon, girandolo.
Chissà, se ancora c’era?
Girò il carillon dal lato della chiavetta e la
sfiorò con un pollice.
Sorrise e lo avvicinò, per vedere meglio.
Si, c’era ancora, non si era cancellato, non poteva.
“Leggi,
Uruchan”
Due parole, incise sul
metallo della chiavetta di accensione, due parole che lo fecero
singhiozzare di commozione.
“baka, anche
io… tanto…”
[ti amo]
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