Pairing: Iwaizumi x Oikawa | Kageyama x Hinata.
Avvertimento: Soulmates!AU in cui si vedono i colori per la prima volta quando si trova il proprio compagno. | Unica piccola licenza della storia, Kageyama non ha frequentato le medie con Iwaizumi ed Oikawa, nella storia li conosce per la prima volta | Angst | Molto angst | Lettore avvisato mezzo salvato.
Note d’Autore: (e maledizioni)
a fine storia.
Ringraziamenti e dedica: Ad Ame ed Arianna che hanno insistito perché cominciassi a
vedere quest’anime e mi hanno fatto amare gli IwaOi,
che hanno letto questa cosa odiandomi. Alla mia parabatai,
la mia Arianna, che anche stavolta è stata indispensabile (e che ora ama questi
idioti senza ancora conoscerli).
You can
make it to the sunlight.
Et vidi et perii[…]
Perfide,
sensisti? Qui enim bene celat amorem?
Eminet indicio prodita flamma suo.
Probabilmente, Oikawa lo sapeva
da sempre che sarebbe andata a finire in quel modo per lui. Non perché avesse
capito da subito che cosa intendeva la gente quando parlava di colori, ma perché da quando aveva
conosciuto Iwaizumi – erano piccoli, così piccoli che neanche sapevano che cosa
fosse poi l’amore – una parte di lui aveva intuito che sarebbe stato lui il suo
compagno, la persona che gli avrebbe
letteralmente fatto vedere il mondo con occhi nuovi.
Per questo, quando semplicemente
una mattina s’era svegliato ed aveva realizzato che il fascio di luce che
entrava nella sua stanza era più dorato che grigio e che sua madre dopotutto
aveva avuto dei buoni gusti nell’arredare la sua stanza, non s’era sorpreso più
di tanto. Emozionato, certamente, con quella strana stretta al cuore di quando
lo sai che qualcosa di bello è appena successo e sei indeciso se restare
immobile per non rovinarlo o saltare e mostrarlo invece a tutti.
Iwaizumi gli aveva mostrato i
colori per la prima volta. Non era mai stato tanto felice.
Si chiese, mentre usciva ed
andava verso scuola, quale fosse poi stato il momento preciso. Alcuni dicevano
di sentirlo l’istante in cui tutti diventa improvvisamente colorato, che era
come svegliarsi da un sogno, mettere a fuoco quello che ti circondava e
finalmente vederlo, ma vederlo davvero. Eppure non era così per tutti: ad
alcuni i colori arrivavano lentamente, come gradazioni, man mano che ci si
innamorava e solo alla fine, quando raggiungevano la completa brillantezza, si
aveva la consapevolezza di quello che era davvero successo.
Per Oikawa non era stato così. In
realtà, non aveva idea di quando fosse successo: la sera prima s’era allenato
con Iwaizumi come sempre, lui era stato grandioso come sempre, Iwa-chan lo aveva guardato male come
sempre quando aveva sorriso ad un paio di ragazze che s’erano intrufolate nella
palestra per guardarlo. Lui s’era scusato, aveva sorriso inclinando un po’ la
testa e s’era lasciato portare via. Forse era stato allora… O forse quando
s’erano salutati, come sempre, e Iwaizumi gli aveva augurato di dormire bene.
Magari era successo mentre lo aveva guardato andare via, di schiena, rubando
come sempre quel momento, senza rendersene conto.
Forse, Oikawa avrebbe dovuto
capire in quel momento che qualcosa non andava.
Ma non ci pensava: d’improvviso
gli pareva tutto così naturale che davvero la felicità era la sola cosa che
sentiva. Canticchiava, mentre salutava qualche ragazza – camminavano a gruppi e
si fermavano ogni volta che passava, che poteva farci? – e raggiunse Iwaizumi
che era già in classe.
«Buongiorno», lo salutò,
sedendosi accanto a lui. Doveva dirgli qualcosa? Avrebbe detto magari qualcosa
lui? Non era nervoso, non era da lui esserlo – e poi, non era la prima volta
che parlavano del loro legame: più di una volta c’era stato chi aveva dato per
scontato che avessero già scoperto i colori insieme e quando succedeva, Oikawa
rideva, mentre Iwaizumi spiegava che non era così. Ma avrebbe potuto esserlo,
era chiaro ad entrambi.
«Buongiorno, Oikawa». Iwaizumi
sembrava distratto da qualcosa, quasi infastidito.
«Qualcosa non va?». Era bravo a
leggere le espressioni dell’altro, anche se il più delle volte era Iwa-chan a sgamare i suoi finti sorrisi.
«Mh», rispose quello, con un
suono che voleva dire tutto e nulla, che lasciò senza parole Oikawa. Quella sì
che era una cosa strana. «Devo aver dormito male».
L’alzatore inclinò la testa, un
cipiglio raro – destinato solo alle partite difficile all’Aoba – gli si dipinse
sul volto, la felicità si intaccò appena.
«Stamattina ho visto i colori».
Seppe, nel momento stesso in cui
lo disse, che non era stata la cosa giusta da fare. Lo vide come vedeva
un’alzata troppo corta o troppo alta o troppo lontana dalla rete. Lo sentì come
sentiva che la palla sarebbe stata troppo lunga in un servizio. Iwaizumi lo
guardò, lo sguardo sorpreso, quasi sbarrato, la bocca appena aperta. La sua
figura agli occhi di Oikawa brillava come solo quella
dei compagni più fare. Ma era fredda.
Che aveva detto? I colori. Aveva detto di aver visto i
colori.
Iwaizumi non era una persona
molto esuberante, non si lanciava in stupidate ed esagerazioni come faceva
Oikawa: era calmo, riflessivo, testardo per quanto non gli piacesse ammetterlo.
A ruoli invertiti, probabilmente la scena sarebbe stata completamente diversa. Ma
Iwaizumi rimase in silenzio, col viso fermo in lineamenti appena scomposti che
avevano il potere di terrorizzare l’amico.
«Iwa…chan?», lo chiamò. No, aveva capito male, stava pensando un’assurdità.
Doveva essere uno scherzo.
L’altro s’alzo di scatto in piedi,
facendo stridere la sedia contro il pavimento. Non gli importava di attirare
l’attenzione di tutti, non gli importava di essere al centro, per una volta.
Nulla, nulla era importante in quel momento e nulla vedeva se non il viso
spaventato di Oikawa. Dio, che aveva
fatto?
«Mi dispiace».
Uscì dalla classe senza correre,
senza scomporsi esternamente. Non ce n’era bisogno: entrambi sapevano per cosa
si stava scusando. Iwaizumi non aveva idea di che colore fossero gli occhi di
Oikawa.
***
Iwaizumi e Oikawa non s’erano
parlati per una settimana. S’evitavano, quasi fosse un comune accordo e stavano
nella stessa stanza solo se necessario; il momento peggiore della giornata
erano gli allenamenti di pallavolo, quando erano costretti ad interagire,
quando i loro problemi si ripercuotevano su tutta la squadra. Oikawa era un
alzatore eccellente perché conosceva i suoi compagni alla perfezione: sapeva
esattamente che palla alzare, a che punto e con che velocità, per dare la
migliore possibilità di tiro a chi doveva schiacciare; eppure in quei giorni
sembrava sbadato e poco brillante – non sbagliava, ma non era perfetto.
Iwaizumi, l’Asso, pareva soffrire della mancanza di quella luce ed era
trascinato giù dalla stessa pesantezza – ma la squadra li conosceva bene, sapeva
che anche lui stava male e non solo perché rifletteva la tristezza di Oikawa.
Non entravano in contatto se non era strettamente necessario, ma cercavano di
comportarsi nel modo più normale possibile con gli altri compagni di squadra,
col risultato che Oikawa mostrava, ora a tutti, di non saper sorridere così
bene come si pensava, e Iwaizumi appariva più freddo del solito.
Presero a parlare di nuovo dopo
undici giorni – non che poi li stessero contando – nel lunedì sacro ad Oikawa,
quando credeva che non avrebbe visto l’amico almeno per un po’; Iwaizumi,
invece, si presentò agli allenamenti della Lil
Tykes ed aspettò che l’amico finisse la lezione di fondamentali ai bambini.
Sorrise, quando Oikawa lo notò guardandolo con sorpresa, e restò a fissarlo per
tutto il tempo che restava della lezione.
«Come mai sei qui?». Molti
bambini erano andati via, Oikawa aspettava che suo nipote uscisse.
«Credevo dovessimo parlare».
Iwaizumi non lo guardava, ma non perché gli mancasse il coraggio.
«Potevi farlo domani». Era
scontroso e capriccioso come sempre, ma stavolta lo stava facendo con una certa
intenzionalità, che pur non giustificata non riusciva a trattenere.
Iwaizumi sollevò le spalle, senza
controbattere: era ovvio che poteva farlo il giorno dopo, come era altrettanto
ovvio che non voleva aspettare, per questo lo aveva raggiunto lì. Che Oikawa
facesse tanto il difficile era una cosa che gli concedeva senza fiatare:
dopotutto, la colpa era sua. Era lui
a non ricambiare i colori che Oikawa vedeva.
«Mi dispiace», gli disse di
nuovo, quasi a voler riprendere il discorso precisamente da dove lo avevano
lasciato. «Se dipendesse da me, se solo io potessi…».
«Ma non puoi».
Il viso di Oikawa, serio, era
qualcosa che feriva Iwaizumi nel profondo. Era abituato a quel misto di
concentrato e licenzioso che l’amico mostrava di essere nelle partite,
sembrando un burlone ma sempre con le parole più adatte a spronare la squadra,
quasi quei due lati di sé convivessero tranquillamente nel mistero che il
ragazzo rappresentava per quasi tutti quelli che lo conoscevano; ma la serietà
che ora, invece, gli stava mostrando pareva qualcosa di nuovo anche per lui. E
soprattutto qualcosa di tremendamente inappropriato al volto di Oikawa.
«Perché?». Insistette – non gli
piaceva, nulla di tutto quello piaceva ad Iwaizumi. L’altro sembrò genuinamente
sorpreso da quella domanda. Come perché? Che poteva farci se non vedeva i
colori come lui? Significava una sola cosa e pensarci avrebbe voluto dire
ammettere un dolore che non era pronto a concepire o sentire.
«Chi mi impedisce di… perché
dovrei per forza vederli, questi maledetti colori? Non voglio vederli,
d’accordo? Non voglio vederli se il prezzo è questo, se devo litigare con te e
tu devi allontanarti… Tu li vedi no? Li vedi per causa mia e a me sta bene. Sta
bene così».
Oikawa era senza parole. Ancora
una volta, in pochi giorni, Iwaizumi lo aveva sorpreso – sorpreso lui che
credeva di conoscerlo tanto bene. Che dire? Che fare? Iwa-chan era lì, davanti a lui, ora sì che lo guardava dritto negli
occhi, occhi che non avrebbero mai saputo di che colore erano i suoi. E gli
stava bene così, lo aveva appena detto. Certo, alle volte era successo che tra
i due compagni i colori non comparissero nello stesso istante e, in quei casi,
quello precoce riconosceva l’altro perché in qualche modo brillava più del
resto delle persone, come Iwaizumi brillava per Oikawa; poi si aspettava semplicemente
che il legame diventasse completo. Ma poteva non succedere, alle volte era
accaduto perché non sempre quella dei compagni
era una scienza esatta e anzi si viveva e moriva anche senza incontrarlo
mai, il proprio compagno.
«Lo so cosa stai pensando.
Smettila».
Oikawa sussultò: Iwaizumi era un
tipo deciso, non era di certo sorpreso per questo, ma improvvisamente si sentì
vulnerabile come non era mai stato, e quella sensazione gli faceva
semplicemente schifo. Non voleva essere vulnerabile, non voleva essere quello
da consolare, non voleva essere quello da accontentare. Iwaizumi non gli doveva
nulla, né per la loro amicizia, né per quel legame mancato. Nulla.
«Vattene», gli disse, facendo per
muoversi – suo nipote di certo aveva finito, forse s’era avviato fuori con
qualche amichetto. L’amico lo trattenne.
«Di che colore sono i tuoi
capelli?». La domanda era semplice, pareva quasi dolce, ma la presa sul suo
braccio era forte, quasi violenta: tratteneva quello che le parole non stavano
esprimendo. Oikawa non poté che arrendersi: in fondo, non aveva mai voluto
resistere.
«Me lo dirai tu. Quando lo
vedrai». Non ci stava a perdere, non era davvero nel suo DNA. Non avrebbe perso
Iwaizumi solo per una stupida regola: non avevano bisogno dei colori, loro, per
sapere che cosa li legava.
Respirò lento, mentre l’altro lo
stringeva, e nascose il viso nell’incavo del suo collo, seppellendo con esso il
senso di colpa che gli attanagliava lo stomaco e la brutta sensazione di aver
appena privato Iwaizumi di qualcosa di bellissimo. Oikawa alla teoria dei
colori in ritardo non aveva mai creduto.
***
La voce che Oikawa e Iwaizumi si fossero trovati, da quel giorno,
s’era sparsa velocemente. I pettegolezzi, quando si trattava di Oikawa,
volavano con una facilità che superava la normale logica e la cosa, se
possibile, era riuscita ad attirare ancora più attenzione sull’alzatore
dell’Aoba. Lui se ne beava – dei complimenti, degli sguardo gelosi, delle
ragazze che arrossivano quando passava perché ora guardarlo diventava in qualche
modo proibito – e andava avanti, accanto ad Iwaizumi che faceva di tutto per
non sembrare seccato da quel brusio di sottofondo.
«Che fortuna», dicevano.
«Trovarsi quando si è amici da
sempre!», insistevano.
«Saranno felici per sempre».
Nessuno di loro sapeva tutta la
verità: non ce n’era motivo, in fondo – tendevano a dimenticarla anche loro.
Oikawa cercava di non pensarci, per quanto quella situazione lo avesse
rivoluzionato così tanto che era davvero difficile farlo; Iwaizumi
si aggrappava alla presenza del compagno, e dava poco peso alle sfumature di
grigio che vedeva, che probabilmente aveva visto per sempre. Stavano insieme, e
il loro legame pareva ancora più forte ora che avevano chiarito. Era tutto
quello che contava.
«A destra, a me!».
Oikawa alzò nel modo più preciso
e calibrato per la schiacciata: Matsukawa fu diretto e puntò all’angolo più
lontano, segnando un punto.
«Impeccabile», si complimentò
l’alzatore, dando il cinque al compagno.
Era una partita d’allenamento che
metteva in campo tutta la squadra: dovevano essere perfetti se volevano vincere
l’Inter-High, fare in modo che le
riserve non fossero inferiori a quelle che stavano regolarmente in campo, che
tutti conoscessero bene i propri compagni e ci fosse un’intesa perfetta.
Oikawa guardò attraverso la rete
il volto concentrato di Iwaizumi e gli regalò un sorriso di sfida,
provocandolo, a cui quello rispose con uno sbuffo, cercando invece di
concentrarsi al massimo; ebbe ragione a farlo, dal momento che segnò quasi
senza difficoltà il punto successivo e solo allora si concesse lo stesso
sorriso, più composto, nella sua classica esultanza – Oikawa si trovò a pensare
per la prima volta che fosse davvero una bella fortuna che il suo compagno giocasse nella sua stessa
squadra: non avrebbe dovuto essere tanto contento per un punto perso, anche se
era solo una partita di prova.
«Domattina avremo la prima
partita: voglio che siate tutti concentrati e riposati», prese a dire
l’allenatore una volta che l’allenamento fu concluso. «I nostri avversari di
certo non sono a questo livello, ma non vanno affatto sottovalutati – giocate
pulito, pensate prima di muovervi e soprattutto guardate i vostri compagni».
Tutta la squadra diede un grido
di incitamento ed entusiasmo dopo quelle parole, dopodiché si salutarono.
Oikawa aspettò che fossero andati
via tutti – qualche pacca sulla spalla, qualche battutina – per avviarsi poi
con Iwaizumi, nella tracolla alcuni video dell’ultima amichevole dei loro
prossimi avversari che il compagno
sapeva avrebbe passato la notte a guardare, alla ricerca di strategie e punti
deboli da poter sfruttare. Era il suo compito di capitano, la sua maggiore
responsabilità.
«Riposa almeno qualche ora», gli
raccomandò Iwaizumi, quando furono sul punto di separarsi «O domani sarai uno
straccio». Forse dall’esterno poteva non sembrarlo, ma Oikawa tendeva ad essere
uno stakanovista abbastanza spesso e con risvolti non sempre positivi.
«Gli stracci sarebbero onorati di
avermi fra loro».
Iwaizumi alzò gli occhi al cielo,
trattenendosi dal ridere – davvero non era possibile fare un discorso serio con
lui! Ma lo stava facendo sempre più spesso: da quando s’erano chiariti, Oikawa
pareva ancora più spensierato e di uscite del genere, stupidamente allegre,
pareva farne ancora di più. Ma, in fondo, avrebbe dovuto mentire a se stesso
per dire che quella nuova abitudine lo infastidiva.
«Ad ogni modo… come ti senti?».
Oh, ecco. C’era anche un’altra cosa che era aumentata da quando s’erano
chiariti: le volte in cui gli rivolgeva quella domanda, con quel preciso tono
di voce. Non era una semplice richiesta, un modo di dire tanto per cominciare
una conversazione; significava specificatamente “non è ancora cambiato nulla?
Non li vedi ancora, i colori?”. Lo sapeva Iwaizumi e
ogni volta non aveva che cosa dirgli,
perché no, non era cambiato nulla e la cosa bruciava. Bruciava perché era come
tradirlo ad ogni nuovo battito di ciglia, deluderlo ad ogni nuova sfumatura
mancata. Bruciava ogni mattina, quando apriva gli occhi ed era tutto
schifosamente uguale; ogni sera, quando sotto le coperte cacciava giù quel
groppo alla gola che gli ricordava che aveva perso ancora un giorno, che gli doveva un altro giorno.
E lo sapeva – lo sentiva nelle
viscere, nella parte più istintiva di sé – che Oikawa presto o tardi si sarebbe
stancato, che gli sarebbe importato sempre di meno, perché lui non era
all’altezza, perché fingevano di avere un legame che in realtà lui ancora non
riusciva a capire. Si sarebbe scocciato e gli avrebbe rinfacciato tutte le sue
mancanze, i debiti che gli doveva, il male che gli stava facendo, la sua
profonda inadeguatezza. E quando sarebbe successo che cosa avrebbe fatto? In
che modo lo avrebbe recuperato, quale compromesso avrebbe trovato per legarlo
ancora a sé e non restare indietro?
Lo avrebbe perso e se lo sarebbe
meritato, perché era solo colpa sua. Ma, Dio,
se solo avesse potuto vedere quanto si stava sforzando, quanto dannatamente li
volesse vedere quei colori…
Eppure, Iwaizumi non sapeva
tutto. Non sapeva, ad esempio, che Oikawa quella domanda la faceva per se
stesso, che anche lui contava i giorni e che i “no” che riceveva in risposta
erano ogni volta come tocchi di campana che lo avvicinavano sempre più alla
condanna definitiva. Perché quante altre volte Iwaizumi avrebbe potuto
sopportare quella richiesta, quella presenza così fissa, così ingombrante?
Quanto ancora quel rapporto a cui lo stava forzando, fingendo che tutto andasse
bene, che fosse lo stesso, quando in realtà non era così? La colpa, sulla sua
coscienza, aumentava giorno dopo giorno e sarebbe arrivato il momento in cui
semplicemente ne sarebbe stato schiacciato.
Ma se lo avesse detto, Iwaizumi
avrebbe fatto il duro. “Mi sta bene”, avrebbe detto “Mi sta bene così”. Lo
aveva già detto, dopotutto, ma Oikawa non gli aveva mai creduto davvero.
«Buonanotte», lo salutò il compagno. Non gli aveva risposto, alla
fine, ma il silenzio era altrettanto facile da interpretare.
«Buonanotte», rispose l’alzatore
– non aveva enfasi nella voce, sentiva già il nuovo tocco nelle orecchie.
Così si allontanarono.
La mattina successiva fu come se
quella tristezza fra loro non fosse mai passata – non era la prima volta e non
sarebbe stata l’ultima, non erano di certo stupidi, ma finché fossero riusciti
a ricominciare da capo il giorno seguente, allora avevano ancora speranza che
tutto potesse andare per il meglio.
«Io credo in voi, ragazzi».
La frase rituale di OIkawa, detta
con la classica serietà da capitano, ebbe come sempre il potere di caricare
tutta la squadra, quasi ognuno avesse ricevuto un’investitura e fossero resi
invincibili da quelle parole.
Il loro allenatore aveva fatto
bene a metterli in guardia dagli avversari che stavano affrontando: per quanto
si dicesse che la loro forza fosse solo un ricordo, quella squadra mostrava,
tra le diverse stonature, davvero un grosso potenziale, che solo l’inesperienza
impediva fosse messo completamente a frutto. Quando una strana e rapidissima Veloce si fiondò come una saetta nello
spazio di seconda fila libero, passando tra le teste di Oikawa ed Iwaizumi prima ancora che l’istinto dei due ragazzi potesse
sentirla, questi si scambiarono uno sguardo infuocato: era arrivato il loro
momento di brillare.
Hanamaki ricevette il servizio
successivo, per quanto molto forte, con la precisione necessaria da poter
passare la palla al capitano che senza alcuna difficoltà alzò per il compagno. Fu in quel
preciso istante, mentre mirava all’angolo di sinistra, che Iwaizumi avvertì che
qualcosa stava improvvisamente cambiando. Fu come ricevere un colpo forte alla
testa; gli mancò il fiato e mentre schiacciava, qualcosa esplose davanti ai
suoi occhi, nei suoi occhi. E fu come
vedere per la prima volta, ma vedere davvero, con tutta la chiassosità dei
colori e Dio, ne esistevano davvero
così tanti? Ed avevano poi tutti un nome?
Iwaizumi tornò a terra, mentre la
palla aveva un brutto rimbalzo sulle braccia del ricevitore avversario e
schizzava fuori dal campo, eppure nulla di tutto quello pareva contare per
l’Asso. Vedeva i colori.
Quando si voltò verso Oikawa, però
le parole gli morirono in bocca. Capì, in quell’istante, come dovesse suonare
la melodia di un violino non accordato alle orecchie esperte di un maestro di
musica: la bellezza comune delle note, che chiunque avrebbe potuto comunque
apprezzare, per lui era mangiata da un più grosso errore.
***
La prima volta che Kageyama vide
Hinata, tutta quella energia mal domata nel ragazzino gli suscitò un’istintiva
repulsione. Che aveva tanto da muoversi e saltare e scattare- La seconda cosa
che notò era che, diamine, era
veloce, ma veloce davvero. E certo anche impreciso e, cavoli, era forse la prima volta che riceveva? Cos’era quel
fondamentale fatto tanto male? Eppure… Non si lasciò ingannare da tanta
imprecisione: aveva visto qualcosa in lui. E non sapeva se lo innervosiva o
conquistava.
Murò una sua schiacciata
estremamente imprecisa e quando entrambi tornarono a terra, separati dalla
rete, Hinata gli rivolse uno sguardo tanto infuocato e di sfida che Kageyama
scelse. Lo innervosiva, e non poco.
La seconda volta che Hinata vide
Kageyama se lo ritrovò nell’ultimo posto in cui avrebbe pensato di poterlo
incontrare. Era entrato di corsa nella palestra della Karasuno perché doveva
migliorare, perché finalmente avrebbe avuto una squadra con cui farlo, perché
quando avrebbe rivisto quell’alzatore sarebbe stato in grado di segnare. E
invece lui, proprio lui, era lì, nella sua stessa scuola, nella sua stessa
palestra. Che ci faceva lì? Lui doveva batterlo!
Superarlo!
«Tu!», esclamarono insieme –
ovviamente Hinata mostrava ancora quella energia chiassosa che davvero Kageyama
mal sopportava – e fu in poco tempo evidente a tutti i membri della squadra che
tra i due c’erano dei trascorsi e di certo non del tipo calmo o amichevole.
Dalla terza volta che i due
ragazzi si videro, in palestra oltre che a lezione, dovettero cominciare ad
adattarsi all’idea che avrebbero dovuto giocare insieme, essere compagni di
squadra. In classe potevano tranquillamente ignorarsi, ma sul campo non
avrebbero mai fatto passi avanti se non avessero interagito. Che poi, nessuno dei
due aveva motivi tanto forti per ignorare l’altro: Hinata aveva inizialmente
preso anche quell’incontro come una sfida – migliorare l’uno accanto all’altro
per poi essere superiore anche a lui; Kageyama invece davvero non aveva tempo
per simili rivalità e tutto quello che gli importava era alzare nel migliore
dei modi ai suoi compagni di squadra. E forse, senza ancora saperlo, togliersi
di dosso quell’appellativo di “Re del campo” che, questo lo sapeva bene, faceva
male più di quanto fosse disposto ad ammettere.
Avevano perso il conto delle
volte in cui si erano visti in palestra – cinque, sei, forse di più – quando
Kageyama capì davvero il potenziale di Hinata. Certo, gli era stato chiaro
dall’inizio quanto fosse abile nella corsa, quanto la sua velocità ed il suo
salto potessero facilmente compensare la mancanza di altezza e renderlo anzi un
giocatore da temere nonostante la mancanza di tecnica o esperienza, ma non
s’era mai reso conto di quanto potesse effettivamente fare, finché Hinata non
riuscì a schiacciare una delle sue alzate veloci. Una Veloce. Avevano appena fatto una Veloce, per la prima volta qualcuno era stato alla sua altezza e
anzi ancora di più: qualcuno s’era fidato di lui al 100%, così tanto da
schiacciare ad occhi chiusi. Era rimasto sbalordito fino quasi all’irritazione,
ma nel profondo era… senza parole, e grato, e felice.
Essere felice, per Hinata, era
l’eufemismo dell’anno. Era estasiato, scoppiava di gioia, si fissava la mano
come vedesse un miracolo e saltellava per il campo come se avesse vinto un
premio. Scoppiava di entusiasmo perché aveva schiacciato, perché aveva segnato,
perché quell’alto alto muro davanti a lui, lui l’aveva superato e la palla era
rimasta in campo, andando ad impattarsi quasi lungo la linea, facendo guadagnare
un punto alla squadra. Certo, era una partita di prova, ma che importava? Lui
c’era riuscito! C’era riuscito con Kageyama, c’era riuscito perché s’era fidato
del suo alzatore, perché aveva un alzatore di cui fidarsi, un compagno di squadra che gli passasse la
palla. Lui aveva Kageyama e Kageyama aveva creduto in lui abbastanza da fargli
segnare quel punto.
Fu quando si voltò proprio verso
di lui che successe. I suoi occhi incrociarono quelli del ragazzo, che lo
guardava quasi sorpreso del loro stesso gioco, e Hinata si accorse che erano
di un blu scuro, non scuri come sfumatura di quella scala di grigi a cui tutti quelli
che ancora non avevano visto erano
abituati: erano scuri perché improvvisamente Hinata sapeva che cosa fosse il blu ed ogni sua gradazione; erano blu scuri perché poteva distinguerli dal rosa della pelle, dal bianco
della maglietta che indossava, dal marrone del campo che era loro intorno.
Erano blu perché Hinata aveva visto per la prima volta i colori. E Kageyama
brillava della luce di cui brillano i compagni.
***
Per i primi giorni, Hinata non
disse nulla. Si allenava con la squadra e soprattutto con Kageyama per mettere
a punto quella strana Veloce, come tutti
ormai la chiamavano, e taceva il fatto che ora conosceva le sfumature del verde
dell’erba fuori dalla palestra o i diversi tipi di azzurro di cui il cielo si
copriva, fino quasi a diventare rosso quando il sole tramontava. Alle volte era
difficile, di tanto in tanto era stato sul punto di farsi scappare un commento
di troppo – e sarebbe stato davvero da lui – ma s’era trattenuto, era stato
bravo a salvarsi com’era bravo quando salvava con devozione una palla che,
fuori campo, avrebbe significato un punto per gli avversari.
Ma non si vergognava di vedere i
colori, certo che no! Non si tratta di quello! Anzi, ne era felice, ed era
grato perché ne conosceva istintivamente il significato e il fatto che fosse
Kageyama aveva senso: nonostante i loro inizi, nonostante spesso e volentieri
litigassero e fossero poche le volte in cui andavano completamente d’accordo e
ancora meno quelle in cui lo capiva senza avere qualche difficoltà, Hinata
sentiva d’istinto che andava bene, che era
Kageyama, che con lui tutto sarebbe
cambiato – ed era già cambiato. Che era, in quel momento, la persona più
importante che aveva. Che sarebbe potuto esserlo per sempre.
Ma non sapeva come dirlo, non
sapeva come portare a galla un simile argomento. Kageyama di certo non era la
persona più aperta del mondo – anche Tanaka l’aveva detto – e lui non aveva
proprio idea di come si dicesse una cosa del genere. C’era un momento preciso
per farlo? Una maniera standard? Ricevere o schiacciare erano cose così facili!
Avevano un modo di esecuzione unico, una tecnica con cui ottenere gli effetti
migliori e finiva lì. O sapevi farlo o ti allenavi finché non sapevi farlo.
Come ci si allenava a dire al proprio compagno
che aveva preso a vedere i colori? Hinata davvero non ne aveva idea. E poi,
perché non poteva essere lui a portare avanti l’argomento? Insomma, doveva
averli visti anche lui i colori, no? Funzionava così… Perché allora non poteva
essere lui a fare la prima mossa? L’ultima volta che l’aveva fatto, avevano
messo su un attacco quasi invincibile, perché non poteva essere lo stesso,
adesso?
Gli riuscì di dirlo quasi per
caso, mentre prendevano una pausa dagli allenamenti all’aria aperta. Kageyama,
come al solito, pareva concentrato su qualcosa di serio e lui semplicemente gli
stava intorno, senza pensare a nulla di particolare: la pallavolo lo faceva
sentire in pace con se stesso e libero.
«Pensavo», esordì, rilassato come
non credeva che sarebbe stato «Quante persone alla nostra età vedono già i
colori, come abbiamo fatto noi?». Era stato causale, aveva cercato di non
sembrare scortese o pretenzioso o qualunque altra cosa che potesse
infastidirlo.
Eppure lo sguardo che l’alzatore
gli rivolse lo fece tremare. Non era arrabbiato – lui sapeva fin troppo bene
come fosse il suo sguardo in quelle occasioni – ma gli occhi spalancati che lo
fissavano, attoniti, non erano rassicuranti, ed un brivido percorse la sua
schiena, come se sapesse già cosa stava per succedere.
«P-prego?». La voce era di
qualche tono più alta del normale.
«I colori». Ripeterlo forse non
era una buona idea. Forse aveva sbagliato comunque a parlarne in quel modo.
Eppure Hinata non sapeva fermarsi «Vederli così presto non è tanto comune,
no?».
Se in quel momento avesse già
capito o stesse chiedendo solo per ingenua confusione non avrebbe saputo dirlo.
«Tu hai… tu hai visto i colori?».
«Quando abbiamo fatto la veloce per la prima volta, sì!». Era
stupido illuminarsi a quel ricordo, ma Hinata non potette farne a meno «Grazie
a te è sparito tutto, il muro altissimo che avevo di fronte, la mia
insicurezza, la delusione che avrei provato a fallire di nuovo… e sono comparsi
tutti i colori. Grazie a te sono stato per un attimo invincibile. E felice».
Kageyama lo guardava con paura
crescente. Quello che gli stava dicendo gli faceva tremare la terra sotto i
piedi e mancare il fiato. Perché era impossibile, perché doveva essersi
sbagliato e frainteso quello che era successo: era così, l’entusiasmo gli era
andato in testa e non aveva capito più nulla, compreso chi fosse davvero il suo compagno. Perche non
poteva essere lui, semplicemente no. Lui i colori non sapeva cosa fossero.
Hinata fissò quel silenzio come
si fissa un animale sofferente, con la stessa triste incapacità di fare
alcunché per migliorare la situazione. Aveva capito, ormai, ma aveva bisogno
che fosse Kageyama a dirglielo, a respingerlo o sarebbe rimasto in quella
strana sospensione per sempre. L’alzatore, invece, si fece semplicemente
indietro, alzandosi e fissandolo per qualche istante da una posizione di
altezza che forse lo faceva sentire più sicuro di sé in maniera fredda e
cattiva.
«Scusami», gli disse
semplicemente. E non specificò per cosa poi dovesse scusarlo: perché andava via,
forse? Perché gli spezzava il cuore? Hinata non sapeva di avere un cuore che
potesse spezzarsi a quel modo.
Non accadde più nulla, né ne
parlarono ancora. Anzi, parve come se non ne avessero mai parlato, perché
Kageyama si rivolgeva ad Hinata come avrebbe fatto con qualunque altro compagno
di squadra e questi giocava e stava con gli altri come meglio poteva, il suo
entusiasmo che nascondeva il suo malessere, i colori affievoliti, come
sfumature pastello in cui il grigio voleva lentamente tornare.
Ma Hinata non aveva alcuna
intenzione di mostrare quella cosa, di farlo sapere agli altri: non aveva
bisogno delle loro parole – poteva fare a meno di tutti, anche di Kageyama se
era quello che il destino, o chi per esso gestiva la situazione, aveva deciso
in quel modo. Aveva la pallavolo ed aveva una squadra con cui giocare. Gli
sarebbe bastato. A distrarlo, poi, ci avrebbe pensato l’Inter-High che si
sarebbe disputato dal giorno seguente.
«Alle volte succede».
Hinata sobbalzò, mentre sistemava
le ultime palle prima di andare via. Si voltò e Sugawara era lì, con sorriso
gentile sul volto e la borsa a tracolla che gli tirava appena sul petto.
«Succede…?». Forse sapeva a cosa
si riferiva, ma era più facile fare finta di nulla – non voleva parlarne,
perché parlarne lo avrebbe reso reale e avrebbe strappato lui da quel mondo
fatto solo di partite e veloci e
vittorie e sconfitte.
«I colori non sono una scienza
esatta. Alle volte… succede di non essere ricambiati».
Hinata tenne stretta la palla che
aveva in mano, come avesse bisogno di un appiglio per non sbilanciarsi. Poi
incredibilmente sorrise.
«Già, credo sia così», rispose e
lo guardò negli occhi, aspettando che le parole facessero effetto anche nel suo
animo.
«Alle volte, poi, semplicemente
non accadono, per nessuno dei due». La risata di Suga era simile al sorriso di
Hinata – l’aveva capito, il vicecapitano, perché conosceva quel tipo di dolore.
Erano simili in qualche modo, entrambi traditi dal destino.
Il più grande fece la strada
insieme alla matricola, lo accompagnò fin davanti casa anche se in quel modo
avrebbe allungato il suo percorso: parlarono e fece bene ad entrambi perché
nessuno dei due credeva che l’altro avrebbe potuto capirlo tanto bene come
invece stava facendo. Hinata poi non sapeva bene cosa dire e le frasi uscivano
sconnesse, seguendo le sensazioni che provava, il male che sentiva, il sottile e
malinconico bene che ancora, nonostante tutto, non lo lasciava andare. E Suga
lo ascoltava ed annuiva: comprendeva la sua tristezza, quella rabbia già
rassegnata e la solitudine. Certo, lui non era solo, aveva Daichi accanto, ma
nessuno dei due aveva visto ancora i colori – si amavano senza che quell’amore
fosse riconosciuto e sentivano come se lentamente stessero scivolando
nell’oblio del mai accaduto.
«Forse non è da me», rifletté
Hinata, quando ormai era davanti casa sua «Lasciar perdere, intendo… Ma Kageyama…
in fondo non può farci nulla, non può cambiare le cose e tormentarlo per questo
non avrebbe senso».
Sugawara annuì: quel ragazzino
era arrivato in pochi giorni ad una conclusione che lui e Daichi avevano
impiegato anni a comprendere – che tormentarsi non faceva bene a nessuno, che
non dipendeva da loro.
La mattina successiva, Hinata
pareva pieno di energie e anche il vicecapitano notò che pareva stare un po’
meglio – gli piacque illudersi che fosse stato merito suo e delle parole della
sera precedente. L’allenatore raccomandò loro di stare attenti e concentrati e
che il resto sarebbe venuto da quelle basi; Daichi disse a tutti che erano una
squadra di certo con poca esperienza ma che poteva dare tanto ed avrebbe
venduto cara la pelle, che ognuno di loro aveva fatto tanto per essere lì e che
ora era arrivato il momento di far vedere a tutti che i corvi potevano ancora
volare. Dopo un grido di incoraggiamento, la squadra fu in campo.
Gli avversari erano forti, questo
i ragazzi della Karasuno lo capirono dalla prima
battuta, eppure la prima veloce che
Hinata e Kageyama provarono andò a segno senza che il muro avversario provasse
anche solo a pensare di saltare. Gridarono di gioia, in un coro stonato di
entusiasmo e si guardarono fieri – il piccolo schiacciatore sentì appena una
fitta all’altezza del petto e l’alzatore, forse, avrebbe voluto dirgli
qualcosa: dovevano parlare, sapeva che dovevano, che era stato ingiusto da
parte sua andare via così…
Il successivo servizio di Tanaka
fu ricevuto senza troppi problemi dal difensore avversario, che la passò con
precisione all’alzatore: fu rapido, quello, ad agire, alzandola per un nuovo
attacco, abbastanza veloce da non permettere a Kageyama e Tsukishima di
prepararsi del tutto per il muro.
Kageyama e l’attaccante
avversario si poterono quasi guardare negli occhi mentre quest’ultimo
schiacciava e la palla superava il muro per fare punto. Ma Kageyama non se ne
accorse: la sua percezione finì nell’istante preciso in cui vide gli occhi del
suo avversario e la sua espressione tirata e la forza del suo colpo. Allo
schianto della palla contro la sua mano corrispose, nell’alzatore, l’esplosione
di mille colori, come di una bomba che coinvolgeva tutti i sensi, lo scuoteva
dall’interno lasciandolo completamente disorientato. Rimise piedi a terra,
Kageyama, senza quasi avere più la percezione di dove fosse: tutto intorno a
lui era un caotico accostamento di tonalità di cui sapeva per istinto
l’esistenza ma non il nome; ogni cosa vibrava davanti ai suoi occhi come fosse
completamente nuova.
Ecco il mondo, pensò il ragazzo. Ecco com’è davvero.
Ma non c’era entusiasmo nei suoi
pensieri e lo sguardo cercò chi brillava di più, chi lo aveva cambiato per
sempre. Riconobbe la figura dello schiacciatore avversario che scintillava come
diamanti e lo fissò con serietà, mentre i compagni gli davano pacche sulla
spalla e lui appariva invece estremamente disorientato. Quando ricambiò il suo
sguardo, Kageyama seppe che era successo ad entrambi, che stavolta il legame
non s’era scordato di una metà ed aveva messo insieme due perfetti sconosciuti.
***
Probabilmente, quella era la
prima partita del cui esito ad Iwaizumi davvero importava molto poco: non era
stato in grado di giocare come prima da quando aveva visto i colori e del resto
del set, o dei set successivi, ricordava davvero molto poco. Tutto quello su
cui la sua mente riusciva a concentrarsi era lo sconosciuto grazie al quale ora
tutto ciò che gli era intorno appariva diverso e lasciò rapidamente lo
spogliatoio per andarlo a cercare.
La verità era anche che non
riusciva a reggere lo sguardo di Oikawa puntato sulla sua schiena e la
disgustosa sensazione di averlo definitivamente tradito. Perso.
«Che ti prende? Hai segnato un
punto fantastico!».
«Io li vedo. Oikawa li vedo…».
«I colori?». La voce si alza di
qualche tono e si riempie di gioia.
«Non sei tu… io… c’è un ragazzo nell’altra squadra… brilla come un
diamante».
Quella consapevolezza gli dava i
brividi e allo stesso tempo faceva in modo che si muovesse in quel corridoi,
prendendo le svolte giuste, fino ad arrivare dove sapeva fossero gli spogliatoi
dell’altra squadra. E lui era lì. Lo aspettava? Sapeva che stava arrivando? Lo sentiva? Che cosa avrebbe dovuto fare?
Lo guardò: al di là della figura
luminosa, ne scorgeva i capelli e gli occhi scuri, il viso serio troppo grande
per essere solo un ragazzo del primo anno. Lo stava fissando con una durezza,
una profondità che lo mettevano a disagio, che non avevano nulla a che fare con
lo sguardo di Oikawa – ora sì, ora lo sapeva di che colore erano quegli occhi.
E lui stava ricambiando lo sguardo con una certa diffidenza, come se non ne
fosse ancora sicuro, o non volesse esserlo.
«Io sono Iwaizumi Hajime», si
presentò, in mancanza di altro con cui cominciare quell’assurda conversazione.
«Kageyama Tobio», ricambiò
quello. Avrebbe giurato che la sua voce sarebbe stata più scontrosa – invece,
pur trattenendo una certa serietà, era accomodante, tranquilla, quasi curiosa.
«Siete stati bravi, per essere
una squadra nuova». La pallavolo era ovviamente qualcosa che avevano in comune,
quindi parlarne poteva essere una buona cosa.
«Voi lo siete stati di più». Oh,
quindi avevano vinto loro – sì, a pensarci ricordava vagamente qualcosa,
l’esultanza, il volto di Tobio
deluso, i cinque dei suoi compagni di squadra, il capo di Tobio calato, lo sguardo di Oikawa che non lo lasciava andare,
quello curioso di Tobio, quello
indecifrabile di Oikawa. E ancora Tobio.
Annuì, accettando il complimento
e fece per muoversi – stare davanti a quello spogliatoio in qualche modo lo
innervosiva, quasi si sentisse in un match fuori casa, in minoranza numerica in
quell’incontro che sapeva di sfida. Se dovevano conoscersi, dovevano farlo in
campo neutro. Ma poi… dovevano?
Si allontanarono lentamente,
conversando con un po’ di difficoltà, aprendosi lentamente. Hinata uscì dallo
spogliatoio e li vide di spalle, senza essere visto. Qualcosa nel suo petto si
incrinò e potette quasi sentirne il rumore, come di un pezzo di legno spezzato;
strinse in un pugno la maglietta all’altezza del cuore ed ebbe consapevolezza
che era successo, che ora anche Kageyama vedeva i colori. E andava via.
Trovò la spalla di Sugawara quasi
per caso, accanto a lui, e fu così sollevato di averlo tanto vicino che
rifugiarsi in quell’abbraccio fu la sola cosa che avesse la forza di fare.
«Andiamo via, vieni…», lo prese
quello, circondandogli le spalle con un braccio e portandolo lontano dal
dolore.
«Gli hai parlato?».
La voce di Oikawa, nel pullman
con cui stavano tornando a casa, era sottile, un sussurro appena percettibile.
Iwaizumi era accanto a lui e fissava l’indefinito fuori dal finestrino. Annuì,
mugugnando qualcosa in risposta che rimase fra le labbra senza assumere una
vera forma.
«Voglio che tu sappia una cosa».
La voce di Oikawa era troppo seria perché Iwaizumi potesse ignorare quella
conversazione, quindi si voltò verso i suoi occhi nocciola fissi su di lui.
«Oikawa io-».
«Va bene così».
Iwaizumi tremò. Che aveva detto?
Gli… gli stava bene? Che il suo compagno
fosse un altro?
«Dico sul serio. Abbiamo finto
che questa cosa potesse andare bene, ma è evidente che non è così. E se è quel…
Kageyama che ti ha concesso di vedere
i colori e se li vede a sua volta grazie a te, mi sta bene. Non c’è bisogno che
continuiamo con questa farsa… Possiamo tornare a quello che avevamo e tu puoi
conoscerlo meglio e capire perché siete legati».
L’alzatore era davvero senza
parole. Se non avesse conosciuto tanto bene Oikawa, quel discorso gli sarebbe
parso di un altruismo spiazzante, ma lui non ci cascava e in realtà quello
pareva piuttosto il modo che il capitano dell’Aoba aveva per ferirlo: farsi
indietro, mostrarsi disinteressato, lasciarlo andare. Ma lo sapeva quanto male
gli facevano quelle parole? Lo sapeva che in realtà prima che dicesse questa
cosa, Iwaizumi stava per chiedergli di lasciare le cose come stavano, ignorare
Kageyama, ignorare il motivo per cui vedeva i colori e restare con lui?
Ma dal momento che, egoismo o
meno, era quello che Oikawa voleva, lui lo avrebbe accontentato. E lo avrebbe
lasciato andare. Iwaizumi non immaginava che un cuore che conosce i colori
potesse spezzarsi a quel modo.
***
Kageyama ed Iwaizumi cominciarono
a conoscersi in modo lento ed impacciato. Nessuno dei due aveva idea del perché
fossero legati a quel modo e dal momento che la pallavolo pareva essere il loro
unico grande elemento in comune, le prime conversazioni non compresero altro.
Alle volte capitava che uno dei
due finisse per primo gli allenamenti pomeridiani ed andasse alla scuola
dell’altro per aspettarlo fuori la palestra, sicché divenne rapidamente
un’abitudine passeggiare di sera insieme. Iwaizumi lo trovava piacevole, perché
non doveva più avere a che fare, in questo modo, con i lunghi silenzi che
Oikawa gli riservava nel loro tragitto verso casa; Kageyama lo trovava
rilassante perché non doveva vedere il volto spento di Hinata più del
necessario o lo strano sguardo che di tanto in tanto Sugawara gli riservava.
E così si trovavano volentieri:
entrambi in fuga, erano diventati l’uno per l’altro una strana oasi di ristoro.
Ad Iwaizumi, poi, Kageyama
piaceva: era un ragazzo serio e disciplinato, determinato nei suoi obiettivi,
un attento osservatore ed eccellente alzatore, sebbene tendesse spesso a fare
tutto il lavoro da solo; gli pareva estremamente diverso da Oikawa e questo lo
aiutava a dimenticarlo. Anche Kagewama trovava interessante Iwaizumi: di Hinata
non aveva proprio nulla, era maturo ed esperto, silenzioso e calmo – emanava
uno strano senso di rassicurazione, immediato e sebbene non fosse il capitano
della sua squadra, per molti versi gli ricordava Sawamura.
Quando Iwaizumi si ritrovò a
prendergli la mano – d’istinto, perché Kageyama, così concentrato nello
spiegare le dinamiche di una vecchia partita, stava attraversando la strada
senza guardare – all’alzatore della Karasuno non dispiacque e quando lui gli si
poggiò accanto, stanco dopo una stupida corsa in salita che avevano fatto senza
alcun motivo – e che lui comunque aveva vinto – Iwaizumi lo lasciò fare: quel
calore e quella vicinanza non lo infastidirono.
Erano felici, l’uno accanto
all’altro, di una felicità che bruciava lenta e costante, che dava loro
stabilità, e davvero sarebbero potuti andare avanti così per tutta la vita:
sopportavano bene i loro difetti, non avevano motivo per litigare e, anzi, spesso
e volentieri Kageyama riusciva a far ridere sinceramente Iwaizumi e
quest’ultimo s’era di tanto in tanto beato del sorriso che il più piccolo –
sempre così serio – gli aveva regalato.
«Tobio?». Aveva preso a chiamarlo
per nome: Kageyama glielo aveva concesso tranquillamente e in fondo gli era
parso tanto naturale…
Kageyama si voltò. Era sera, lo
stava accompagnando a casa o forse stavano solo passeggiando: quando erano
insieme non era tanto importante dove andassero. Iwaizumi lo fissò per qualche
istante prima di baciarlo. Gli si avvicinò con lentezza ma senza indecisione:
voleva farlo e non credeva che l’altro avrebbe avuto qualcosa in contrario. Le
loro labbra si incontrarono con delicatezza, gli occhi si chiusero d’istinto e
una mano di Iwaizumi cercò la guancia di Kageyama, mentre questi si aggrappò
con entrambi i pugni alla sua giacca della tuta, come se avesse bisogno di
sostegno.
Fu bello, nessuno dei due potette
negarlo: caldo e dolce, abituale come la loro relazione, quel bacio sembrò
qualcosa di naturalmente dovuto ed atteso e Kageyama si trovò a sorridere
appena, quando si lasciarono per poi appoggiarsi ad Iwaizumi.
«Resti con me, questa notte?»,
chiese – non seppe il perché e non era certamente da lui, ma quelle parole
lasciarono la sua bocca prima che potesse rifletterci.
Iwaizumi si sorprese, ma annuì:
aveva capito.
Non successe nulla quella notte –
Kageyama si addormentò tranquillamente e l’altro ragazzo lo osservò per quasi
tutto il tempo: il lento movimento del petto, alzato ed abbassato dal respiro,
era il riassunto della loro relazione, rifletté. Costante, sarebbe potuto
andare avanti in quel modo per sempre. Uguale.
Iwaizumi, quella notte, non
riuscì a non pensare ad Oikawa, non riuscì a non chiedersi se fosse quello
tutto l’amore a cui era destinato: era bello e lo faceva stare bene, certo… Ma
era tutto lì? Non c’era altro? Con Oikawa aveva provato altro: non sapeva dire
cosa, ma l’aveva sentita distintamente, la sensazione che senza di lui non
avrebbe potuto continuare a vivere. I suoi baci erano stati diversi, i suoi
abbraccia, la sua voce sussurrata appena contro il suo petto… E Kageyama?
Kageyama era bello e forse in qualche modo amava anche lui, per quel legame che
avevano e per ciò che ormai condividevano. Ma quella notte, accarezzando di
tanto in tanto i capelli del suo compagno,
Iwauzumi si rese conto che sì, Tobio era completamente diverso da Oikawa e per
la prima volta da quando aveva cominciato quella relazione, si sentì
profondamente triste.
Kageyama s’era addormentato con
la calda presenza di Iwaizumi accanto. Sognò. E sognò Hinata. Hinata felice,
con tutta la sua puerile esuberanza che, non glielo aveva detto, qualche volta
lo aveva messo di buonumore. Hinata… così diverso dal suo compagno.
***
Oikawa conosceva solo un modo per
non pensare a tutto ciò che stava provando in quel periodo ed era immergersi
completamente nella pallavolo, impegnarsi con tutto se stesso, anche più di
quanto non facesse già. Aveva rinunciato al suo classico lunedì libero, aveva
rinunciato a qualunque momento di pausa che potesse permettergli di pensare,
perché se fosse successo, lo sapeva, sarebbe stato perduto. Aveva bandito Iwaizumi
dai suoi pensieri, nonostante continuasse a brillare più di ogni altra cosa
davanti ai suoi occhi; aveva soffocato quello che provava per lui con la rabbia
che ormai gli divorava il petto, che stava diventando la sua unica forza. Se
n’erano accorti, i suoi compagni, ma alle loro domande Oikawa rispondeva sempre
con un sorriso spento ed una bugia.
Tirava avanti, come poteva,
sperando che passasse ma credendoci sempre meno. Non stava bene e lo sapeva, ma
odiava sentirsi tanto male, odiava essere tanto debole e dipendente. Non lo era
mai stato e non voleva cominciare adesso. Eppure… che scelta aveva? Iwaizumi
gli mancava: gli mancava come amico, come confidente, come amante. Gli mancava
come poteva mancargli l’aria e il legame, che da parte sua aveva, ora sembrava
una morsa chiusa intorno al suo petto, che lo stringeva ogni volta che il
ragazzo compariva e ancora di più la notte, quando il sonno non arrivava e
finalmente i pensieri lo travolgevano.
La squadra ne risentiva. Non solo
tatticamente, dove l’abilità del capitano veniva spesso offuscata da momenti di
completo blackout – dopo cui Oikawa era furioso come mai prima –, ma anche e
soprattutto moralmente. La squadra più forte è quella con i sei giocatori più
forti, certo, ma senza Oikawa, senza la sua connessione col resto dei ragazzi,
era il gruppo intero a venire meno. In fondo, ognuno di loro era preoccupato a
modo suo. Per l’allenatore era evidente che se le cose non si fossero in
qualche modo sistemate, avrebbero subito una brutta sconfitta alla successiva
partita, ma sapeva anche di non poter fare nulla: non si trattava di un litigio
che poteva sistemare facendo loro una bella lavata di capo – piuttosto, gli
pareva che il capitano si stesse lentamente spegnendo, come una lampadina che
comincia a fulminarsi.
Yahaba decise di provare a
parlare con Iwaizumi: sapevano tutti ormai che era lui la causa di quella
situazione e, per quanto ovviamente nessuno gliene desse la colpa, tutti
speravano che lui potesse fare qualcosa. La tensione era palpabile anche nel
semplice allenamento, come qualcosa che incastrava gli ingranaggi, non
permettendo loro di girare a dovere.
«L’ha deciso lui», disse
semplicemente l’Asso, tra un sorso e l’altro d’acqua, rispondendo alla
richiesta del compagno di squadra di parlare col capitano «Lui mi ha detto che
gli stava bene così ed io sto rispettando la sua scelta».
«Ma è ovvio che non è così!»,
Yahaba sapeva che non avrebbe dovuto gridare con uno del terzo anno, ma non
poté trattenersi «Voi non vi parlate più, non può continuare in questo modo… Lo
vediamo tutti che le cose non vanno bene!».
Iwaizumi si voltò a fissarlo: il
suo sguardo tratteneva il fuoco e Yahaba ne ebbe quasi timore; poi il fuoco si
spense, repentino com’era sorto, quasi avessero soffiato su un fiammifero dalla
fiamma danzante.
«E credi sarebbe meglio se invece
facessimo finta di nulla? Se continuassi a parlargli e a sbattergli in faccia
il fatto che ora sto con Tobio? Il suo è un legame a metà, uno che non potrò
mai corrispondere!». La voce gli si era incrinata, alzandosi nelle ultime
parole.
Yahaba sussultò e rimase in
silenzio a fissarlo, senza avere altro da dire. La verità era che non avrebbe
mai pensato che gli occhi o le parole di chi aveva conosciuti i colori
potessero trattenere tanto dolore.
Oikawa, lontano, non era riuscito
a sentire che cosa si fossero detti i due ragazzi, ma non poté sfuggirgli la
tristezza che lo sguardo di Iwaizumi riversò addosso all’alzatore prima di
andare via. E la cosa crudelmente ironica fu che in quel preciso istante capì
che fino ad allora non aveva neanche lontanamente sofferto al modo in cui il
suo corpo ed il suo spirito potevano soffrire. Perché vedere Iwaizumi con
quello sguardo fu terribile, perché semplicemente non sarebbe dovuto succedere.
Venne il dolore e venne la rabbia.
Che nulla aveva in confronto a quella che provava contro se stesso o il
fantomatico destino che li separava. No, quella era furia cieca, incontrollata
ed assordante. Ed aveva un obiettivo chiaro e ben definito, qualcuno con cui
prendersela, con cui sfogarsi.
Tobio. Era ovviamente colpa sua. Il suo compagno soffriva, non poteva che essere sua.
***
Hinata era stato bravo, più bravo
di quanto Sugawara o Daichi – che ora sapeva, ovviamente – avrebbero creduto.
Così bravo da non far pesare i suoi problemi sulla squadra, ma anzi da avere
quasi lo stesso entusiasmo di sempre, anche dopo l’allontanamento di Kageyama.
Il capitano diceva che era per la sua innata energia, per quel misto di
allegria ed iperattività che lo caratterizzava, che stava superando la cosa in
quel modo. Sugawara annuiva e lo guardava giocare: riusciva a schiacciare le
alzate di Kageyama come se fra di loro non fosse successo nulla: la pallavolo
riusciva a divorargli il dolore dall’interno a renderlo per un po’ un semplice
giocatore.
La squadra cresceva, tutti
accumulavano esperienze e cercavano nuove tecniche. Le cose parevano andare
bene. Gli allenamenti sarebbero stati fondamentali, in vista del nuovo torneo e
nessuno avrebbe potuto chiedere condizioni più ottimali.
Poi arrivava la fine degli
allenamenti, come ogni sera, e Hinata scivolava un po’ di più nella realtà, un
po’ di più nella tristezza. Non lo aveva detto a Sugawara, ma aveva notato da
qualche giorno che i colori avevano cominciato ad essere diversi, in qualche
modo più spenti, meno brillanti; lo stesso Kageyama aveva smesso di brillare
così tanto come i primi tempi e la cosa in qualche modo non gli dava il
sollievo che ci si sarebbe potuti aspettare. Certo, Hinata non aveva alcuna
voglia di soffrire, non era masochista, non ci trovava alcun gusto… e magari se
lentamente le sfumature avessero continuato ad affievolirsi avrebbe potuto
ricominciare da capo, come se non fosse mai successo. Eppure, aveva la
sensazione che quella nuova condizione lo stesse ferendo ancora di più, che in
fondo lui quei colori non volesse perderli, né con esso il legame che aveva con
l’alzatore.
Uscì dalla palestra
distrattamente: spesso qualcuno della squadra faceva un po’ di strada con lui,
ma quella sera erano andati tutti via abbastanza presto, mentre lui non avrebbe
voluto mai lasciare quel posto. I suoi pensieri vagavano liberamente, pensando
a nuovi colpi, a come essere più incisivo e fare in modo che non fossero solo
gli alzatori a fare tutto il lavoro nelle sue schiacciare; per questo, pur vedendo
due figure davanti a sé, non riuscì a riconoscerle subito e quando ci riuscì
era abbastanza vicino da sentirli chiaramente discutere senza essere visto,
nascosto dietro uno dei muri della scuola. Uno era Kageyama, ma la voce che
stava parlando – gridando – contro di lui non l’aveva mai sentita.
«Che razza di legame è il tuo se
non sai neanche quando il tuo compagno soffre?!». Era aggressiva, minacciosa:
probabilmente l’alzatore non aveva ancora risposto perché intimorito.
«Non vedo come questo debba essere
una tua preoccupazione». Oh, ma Kageyama poi non era certo la persona più
facile da spaventare. Erano di profilo rispetto al giovane giocatore della
Karasuno e questi poteva vedere con quanta forza e sdegno si stessero
guardando. Kageyama manteneva calma e rispetto, ma era freddo, faceva quasi
paura. L’altro pareva semplicemente incontrollabile.
«Lo è, dal momento che stai
facendo del male a qualcuno a cui tengo. Quindi vedi bene di smetterla.
Iwaizumi non lo merita».
Si trattava del compagno di Kageyama, quindi? Chi era
quel ragazzo, forse un suo compagno di squadra? A guardarlo bene, Hinata pareva
riconoscerlo: era il capitano dell’Aoba. Quello che non capiva era perché
pareva essere tanto coinvolto, perché aveva fatto tutta quella strada per
aggredire qualcuno che neanche conosceva.
«Se Hajime ha qualche problema, sarà lui stesso a parlarmene. Ora
scusami, devo andare».
Kageyama cercò di essere il più
rapido e freddo possibile, mantenendo l’educazione ma evitando con taglio netto
che la conversazione proseguisse. In realtà provava una naturale repulsione a
parlare di un simile argomento con quel ragazzo – lui sapeva bene chi fosse –
e, inoltre, doveva ammettere di aver notato anche lui un certo cambiamento nel compagno, che era in qualche modo
corrisposto ad un cambiamento anche nel suo animo. Non ne aveva parlato perché
credeva sarebbe stato passeggero, o che facesse parte del normale svolgimento
di quei legami. Ma non sopportava che qualcuno, un esterno, venisse a fargli la
predica su qualcosa che non conosceva.
«Se lo farai soffrire ancora, te
lo giuro, dovrai rispondermene».
«A te, davvero, non devo proprio
nulla».
Kageyama era scattato, voltandosi
e pronunciando quelle parole quasi con voluta cattiveria: l’atteggiamento di
quel ragazzo davvero lo faceva infuriare, si sentiva così esposto ad un tratto,
così indifeso, quasi dovesse difendere la sua posizione. Perché d’improvviso
pareva importargli tanto di Iwaizumi? Quello che non si aspettava era che anche
l’altro reagisse. Il capitano dell’Aoba si lanciò in avanti, prendendolo per il
colletto della tuta con entrambe le mani. Non disse nulla all’inizio, ma lo
fissò con occhi folli di rabbia.
«Iwaizumi merita il meglio»,
sibilò fra i denti.
«È per questo che hai smesso di
parlargli?».
Kageyama non voleva essere
cattivo, ma le parole uscirono da sole, incontrollabili. Iwaizumi gli aveva
parlato di Oikawa, di quanto fossero amici, del legame mancato e del fatto che
ora a stento si salutavano quando erano nella stessa stanza; lui non lo aveva
criticato, non aveva avuto la pretesa di capire come ci si potesse sentire ed
era stato semplicemente ad ascoltare lo sfogo dell’altro. Eppure, ora che
proprio Oikawa lo attaccava, non era riuscito a trattenersi dal fargli notare
che Iwaizumi soffriva anche per causa sua. Ciò che lo sorprese, tuttavia, fu
che il ragazzo dell’Aoba non pareva saperlo. Lo guardava colpito e stupito,
ferito ma incredulo. Poi lo spinse, non troppo forte ma in modo inaspettato,
sicché Kageyama cadde a terra, ed andò via senza dire nulla, così come era
venuto. Il ragazzo della Karasuno lo fissò, mentre si rialzava, senza sapere
che cosa pensare.
«Stai bene? Che cosa voleva
quello lì?».
La voce di Hinata gli giunse
inaspettata e fastidiosa. No, non
poteva avere a che fare anche con lui quella sera: si sentiva, già così, troppo
scombussolato e non avrebbe di certo retto lo sguardo dell’Esca, quegli occhi
feriti a cui non sapeva ormai più mentire, a cui avrebbe voluto dire che c’era qualcosa, che se l’aveva
allontanato non era per indifferenza, ma anzi per il sentimento opposto. Che
lui lo confondeva e faceva vacillare la sicurezza di un legame corrisposto.
«Nulla», cercò di liquidarlo,
«Devo andare. Hajime mi aspetta». Stette male nell’istante stesso in cui
pronunciò quella frase, perché sapeva che avrebbe ferito Hinata. E non era come
ferire Oikawa: quando Hinata soffriva, il cuore di Kageyama si stringeva fino
quasi a soffocargli il respiro.
Il ragazzo annuì, riuscì a
sorridergli e si avviò salutandolo appena. Doveva smetterla di farsi del male,
si disse, di cercare qualcosa che non poteva avere. Ma non era nella sua natura
lasciar perdere e Kageyama non si decideva a smettere di brillare – i colori,
affievoliti, brillavano ancora quando si trattava di lui. Semplicemente, non
avrebbe potuto ignorarlo.
«Ti sto facendo soffrire?».
Una delle cose che Iwaizumi
apprezzava di Tobio era il suo modo di essere diretto quando parlavano. Non
abbelliva mai le frasi con troppi convenevoli, non diceva mai più di quello che
pensava. Ma quella domanda, forse solo quella, avrebbe potuto comporla in modo
meno esplicito. Non seppe che cosa dire.
«Perché me lo chiedi?».
Kageyama pensò che rispondere ad
una domanda con una domanda fosse sintomo di un tentennamento, che gli stesse
nascondendo qualcosa. Che probabilmente la risposta sarebbe stata affermativa.
«Prima che arrivassi, Oikawa Toru
è venuto da me e mi ha detto che ti sto facendo soffrire e che meriti il
meglio». Non c’era motivo di nasconderglielo, non a lui.
Iwaizumi trasalì come se avesse
avuto una fitta dolorosa. Fissò il compagno senza fiato – parlavano uno di
fronte all’altro, seduti sul letto di camera sua. Pensò ad Oikawa, al fatto che
aveva affrontato Kageyama. Lo immaginava: probabilmente gli aveva urlato
addosso senza dargli tempo di parlare, poi magari lo aveva preso per il collo
della maglietta ed aveva detto qualcosa di minaccioso e ad effetto – come era
nella sua indole – a cui Tobio aveva risposto con una compostezza che se
possibile lo aveva fatto innervosire ancora di più.
«Se sbaglio in qualcosa, dovresti
dirmelo. Anche a me sembri un po’ triste».
Iwaizumi sorrise, un sorriso
malinconico, dolce e allo stesso tempo amaro agli angoli della bocca, tremulo.
Gli accarezzo una guancia e sospirò lento.
«Non c’è nulla che non va in te,
Tobio», lo rassicurò. Davvero non era lui il problema.
«Ma non hai smesso di amarlo». La
voce di Kageyama era un sussurrò serio: non accusava, non era piena di
risentimento o tristezza. Era come la prima volta che s’erano parlati.
Gli occhi di Iwaizumi si velarono
di lacrime: non seppe perché, ma quella verità che aveva custodito tanto bene
nel suo cuore, celandola a se stesso, sbattuta ora in faccia in quel modo, da Tobio, faceva male. Sapeva di
liberatorio quanto poteva esserlo un pugnale che, conficcato nell’addome, viene
improvvisamente estratto con malagrazia.
«Passerà». Non voleva ferirlo,
non avrebbe sopportato anche la sua di tristezza, non sarebbe stato in grado di
reggere la colpa di una nuova delusione, un altro cuore infranto a causa sua.
«Tu non vuoi che passi». Kagewama
s’era steso accanto a lui – essere guardato dall’alto non era più tanto
fastidioso se si trattava di Iwaizumi e per lui quella conversazione non aveva
nulla di pericoloso, poteva essere vulnerabile.
Il ragazzo dell’Aoba, invece, non
capiva dove volesse arrivare, perché gli stesse dicendo quelle cose, perché
insistesse tanto su quell’argomento. Non s’erano detti che sarebbe andata bene
così? Che ora avevano l’uno l’altro ed il resto – i dolori, i legami mancati,
le responsabilità – non sarebbe più contato? Gli si stese accanto senza sapere
come rispondere. Aveva detto la verità: nonostante si fossero allontanati, lui
ad Oikawa non aveva mai rinunciato davvero e s’era sempre nascosto dietro il
fatto che l’altro gli avesse detto di proseguire. Non l’aveva lasciato andare
lui, s’era detto, era stato lasciato.
«Credo di aver capito una cosa»,
proseguì Kageyama, fissando il soffitto «In qualche modo, Hinata è il mio Oikawa. Non riesco a farne a meno, per quanto ci provi».
Avevano parlato anche di lui,
ovviamente, e per quanto i loro trascorsi fossero diversi rispetto a quelli che
Iwaizumi aveva col suo compagno di squadra, Kageyama aveva confessato di avere
problemi con Hinata, di non volerlo ferire, di essere dispiaciuto per come
stavano andando le cose. Più che dispiaciuto.
L’alzatore dell’Aoba passò un
braccio attorno alle spalle del più piccolo, tirandolo a sé. Trasse conforto da
quel calore ormai tanto familiare e cercò di riorganizzare i suoi pensieri: era
tutto talmente difficile, ora realizzava, che probabilmente rifugiarsi nella
sola cosa sicura che avevano – quel legame – era stato tremendamente facile.
«Non voglio vederti soffrire»,
riprese Kageyama «Perché ti voglio bene, perché sento chiaramente il mio legame
con te, perché», gli si strinse contro «quello che abbiamo è talmente
rassicurante, mi fa stare bene».
«E tuttavia non riusciamo ad
ignorarli. Non dovrebbe importarci così tanto di qualcuno a cui non siamo
legati in questo modo, eppure…».
«Eppure sento di non poter stare
tranquillo se Hinata soffre, così come tu non riesci a lasciar andare Oikawa.
Perché loro devono stare male per noi-».
«Ma noi stiamo scegliendo di stare male per loro».
Forse era questo che aveva visto
il Destino quando li aveva legati: non c’era nessuno, in quella situazione, che
avrebbe potuto capire Iwaizumi meglio di quanto stava facendo Kageyama e non
c’era nessuno con cui Kageyama avrebbe parlato tanto liberamente se non con
Iwaizumi.
«Pensi possa esistere davvero?
Qualcosa di più profondo del nostro legame, qualcosa che lo superi, che lo
infranga?». Tobio ne ragionava come si ragiona di un pensiero filosofico o dei
grandi temi della vita e della morte: era allo stesso tempo qualcosa di
estremamente astratto e profondamente connesso alla sua esistenza e il calore
di Iwaizumi accanto a sé gli faceva capire come per il suo compagno fosse lo stesso.
«Sai, credo che siamo noi a
decidere se possa esistere o meno. Abbiamo libertà di scelta, come su ogni
cosa».
«Quindi ciò che resta è: che cosa
sceglieremo?».
Iwaizumi gli lasciò un bacio fra
i capelli.
***
Kayegama sapeva che Hinata
arrivava in palestra presto, prima di tutti gli altri della squadra, appena era
libero dalle lezioni e senza darsi tempo di riprendere fiato dalla mattinata.
Aveva preso a rispettare quella sua scelta e se prima sarebbe andato con lui
per allenarsi ancora ai loro colpi speciali, da quando aveva visto i colori
s’era fatto indietro, lasciandogli i suoi spazi per il senso di colpa e
soprattutto perché sapeva che, se gli avesse posto qualche domanda, non sarebbe
stato in grado di rispondere.
Quella mattina si fece coraggio e
lo raggiunse non appena lo vide entrare. Doveva parlargli, era arrivato il
momento e lui non era persona da tentennare o esitare. Ma non sapeva come portare
a galla quell’argomento. Come si diceva una cosa simile? Che s’era accorto di
tenerci a lui, che al di là del suo legame non corrisposto, di Iwaizumi e di
tutta la faccenda del destino, era di lui che gli interessava, che Hinata era
stato il primo a fargli provare davvero che cosa volesse dire essere un
alzatore, essere utile per la squadra, la colonna dell’attacco. Se Hinata aveva
pensato di essere invincibile grazie alle sue alzate, lui per la prima volta
era diventato indispensabile, necessario. S’era sentito al centro non perché
fosse il Re, ma perché al pari degli altri era stato utile per il punto.
Il ragazzo si stava allenando
alla battuta, cercando di dare alla palla una traiettoria lunga, che colpisse
l’angolo del campo avversario per confondere i difensori e segnare un punto che
avrebbero creduto fuori. Così concentrato com’era, Hinata non s’accorse subito
della presenza dell’alzatore, almeno finché non gli fu accanto.
«Vuoi allenarti in qualche veloce?». Hinata non pareva troppo
turbato dal vederlo, pensò Kageyama guardandolo – non vide il modo in cui stava
stringendo la palla che aveva ancora tra le mani, né si accorse del controllo
che il ragazzo stava esercitando su se stesso.
Pensò fosse il momento migliore
per agire. Pensò poi che agire sarebbe stato meglio che parlare. Quindi
semplicemente si sporse e lo baciò. In fondo, era ciò che sintetizzava al
meglio quello che avrebbe voluto dirgli – che era importante, che si scusava
per come l’aveva trattato, che ora stava cominciando a capire davvero. Hinata
non seppe che cosa fare, non rispose a quel bacio del tutto inappropriato, ma
per qualche istante non ebbe neanche la forza di tirarsi indietro: davanti ai
suoi occhi spalancati tutto quello che entrava nel suo campo visivo brillava
come la prima volta che aveva visto i colori, improvvisamente ravvivati da quel
gesto. Era questo che provava chi baciava la persona a cui era destinato; era
quello che, nonostante tutto, Kageyama e Iwaizumi avevano provato al loro primo
bacio. Eppure, l’alzatore della Karasuno, senza avere
quella brillantezza davanti agli occhi, sentì comunque la terra mancargli sotto
i piedi, lo stomaco venire meno, il cuore balzargli fuori dal petto. Il Destino
aveva fallito: con Iwaizumi tutto quello non sarebbe mai potuto essere
possibile.
Ma Hinata non ci stava. Non così.
Si riprese, lo respinse usando entrambe le mani – se fosse stato più forte
avrebbe mandato Kageyama a terra proprio come la sera prima aveva fatto Oikawa.
Lo guardò con un astio che l’alzatore non si aspettava: che aveva sbagliato?
Stava solo cercando di rimediare a quegli occhi tanto tristi, a tutto il dolore
che sapeva di avergli causato. Ma Hinata non lo sapeva
e quel bacio faceva male come una coltellata alle spalle, a tradimento, da chi
davvero credeva non lo avrebbe mai intenzionalmente ferito - non più di quanto
già lo fosse.
«Non farlo mai più». Kageyama non
aveva mai visto Hinata arrabbiato. Lui gli aveva urlato addosso più volte -
fuori e dentro la palestra - ma il
ragazzino, nella sua iperattività, non aveva mai mostrato una simile rabbia
diretta verso qualcuno. Certo, era furioso se non riusciva a segnare, se
qualcuno murava una sua schiacciata, gridava per caricarsi ed era infiammato
mentre giocava, ma quello era diverso, quello che vedeva nei suoi occhi pareva…
odio.
Non disse nulla: per la prima
volta lo aveva completamente ammutolito e nonostante fosse più basso di lui,
pareva guardarlo dall’alto, in una posizione di potere che mai gli avrebbe
attribuito. Lo guardava, serio e freddo, e sembrava più grande, adulto,
improvvisamente lontano. Sentì la corona della sua reggenza cadere e rotolare
via: sotto quegli occhi era diventato il più vile del servi.
«Potrò essere in partita con te,
potrò schiacciare le tue alzate perché è vero, tu, nonostante tutto, mi
rendi invincibile, ma non puoi. Non questo. Non puoi usarmi in questo modo,
approfittare del fatto che io…». Le parole gli morirono in bocca e Kageyama
scorse i suoi occhi lucidi. Improvvisamente era tornato un bambino.
E lui aveva sbagliato ogni cosa.
Aveva agito senza pensare perché credeva sarebbe stata la cosa migliore ed
aveva finito per fare la peggiore.
«Mi dispiace». Si cominciava
così, no? Con delle scuse. «Non volevo ferirti, davvero no».
Hinata lo guardava e Kageyama per
qualche istante non seppe come continuare. Poteva essere un prodigio nella
pallavolo, ma fuori dal campo, in quella situazione, davvero non sapeva da dove
cominciare; avrebbe dovuto parlare prima, lo sapeva, lo vedeva chiaramente ora:
ma come avrebbe dovuto saperlo? Che Hinata gli avrebbe fatto quell’effetto, che
il legame con Hajime non sarebbe stato forte come quello che, s’era accorto,
sentiva d’avere con Hinata? Che gli sarebbe mancato, che gli sarebbe
dispiaciuto ferirlo in quel modo, ma non come ad un amico? Che lo avrebbe
sognato, che avrebbe pensato a lui? Che il destino avrebbe fallito anche unendo
effettivamente una coppia?
Si sentiva in colpa, ma la colpa
– che lo faceva stare male – lo fece anche bruciare di una rabbia codarda. Non
avrebbe mai voluto ferirlo, non voleva che lo considerasse colpevole per
questo.
«Ma che potevo saperne io?», si
trovò a dire, a voce alta, serio «Come puoi pretendere che io sapessi da subito
che tu- Non potevi!».
«Non ti sto chiedendo nulla…».
Hinata era stanco. Avrebbe voluto piangere, avrebbe voluto che ci fosse Suga
con lui in quel momento. «Non ti ho mai chiesto nulla…».
«Avresti dovuto. Avremmo… dovuto». Ora anche Kageyama
parlava piano, svuotato dal tono dell’altro. Era stato un avvicendarsi di stati
d’animo dentro di lui, qualcosa che neanche capiva tanto bene, che lo
confondeva e lo faceva sentire così poco sicuro di sé… Gli si avvicinò e Hinata
non indietreggiò.
«Mi dispiace», ripeté, più
vicino, sussurrandolo. Poi lo abbracciò, stavolta facendo la cosa giusta,
perché dopo qualche istante il ragazzo si sciolse in un pianto tra le sue
braccia, un pianto liberatorio – riusciva a capirlo anche Kageyama. «Ci ho
messo tanto tempo a capire che sei tu. Tu».
Gli baciò i capelli, in uno
slancio affettuoso di cui nessuno dei due lo credeva capace ma che non stonò,
che risultò nuovo e allo stesso tempo abituale. Di un abituale diverso da
quello che aveva con Iwaizumi, perché questo Kageyama lo stava scegliendo.
«Non lasciarmi», mormorò Hinata
contro la sua maglietta.
***
Iwaizumi
sapeva che avrebbe dovuto parlare con Oikawa subito,
quella mattina stessa: era ciò che avevano deciso insieme, lui e Kageyama – parlare ad entrambi, per scoprire se ci fosse
ancora qualcosa che poteva essere salvato, se non fosse troppo tardi per loro
nonostante tutto quello che era successo. Eppure, quando era entrato in classe,
Oikawa, tanto distante e così improvvisamente
diverso, gli era parso uno sconosciuto e ad Iwaizumi
semplicemente erano morte le parole in bocca.
Gli allenamenti nel pomeriggio
erano stati intensi: mancavano solo due giorni alla partita successiva e tutti
cercavano di dare il meglio di sé: Iwaizumi
apprezzava tantissimo l’impegno che ognuno di loro ci stava mettendo perché
quel pomeriggio parvero essere tornati al vecchio splendore. Tuttavia, le
parole ancora non dette ad Oikawa lo angustiavano,
non gli permettevano di essere completamente concentrato e gli creavano una
strana sensazione alla bocca dello stomaco, come se non fosse capace di
respirare bene.
Attese. Attese che finissero la
partita di prova, attese che finissero il riscaldamento finale, attese anche
che tutti avessero messo a posto la palestra e fossero andati via. Attese così
tanto che alla fine, rimasto solo, si decise ad andare via, rimandando il tutto
al giorno successivo. Non era un codardo, Iwaizumi:
semplicemente non sapeva da dove cominciare ed era certo che Oikawa non gli avrebbe reso la vita facile.
Era rimasto a gironzolare nel cortile
della scuola nonostante fosse quasi sera – non aveva voglia di tornare a casa e
per la prima volta da tempo, non aveva Kageyama
accanto: si sentì improvvisamente perso. Che cosa sarebbe successo se Tobio fosse riuscito a riallacciare i rapporti con quel
ragazzo del primo anno – Hinata
– e Oikawa invece non avesse voluto saperne di lui?
S’erano lasciati male, con un silenzio ed una freddezza che non erano mai stati
loro e all’improvviso Iwaizumi si rendeva conto che
aveva fatto un salto senza sapere se il paracadute si sarebbe aperto, che c’era
la grande possibilità che si sarebbe semplicemente schiantato. Capì, in quel
momento, perché era stato tanto facile nascondersi contro la presenza di Kageyama: sicuro e stabilito, fisso come solo quel genere
di legame può essere, Tobio gli era parso la salvezza
dal mare di incertezze che era Oikawa – lui non
l’avrebbe ferito, non l’avrebbe lasciato e se anche le cose non fossero andate
bene fra di loro, non ci sarebbe stato male come invece stava adesso per via di
Oikawa.
Un rumore cadenzato, come di
colpi fissi contro qualcosa, gli giunse alle orecchie in maniera indistinta
mentre ancora pensava a quello che non
aveva fatto. Ci mise un po’ Iwaizumi per capire che
cosa fosse e da dove provenisse e quando lo capì, una strana consapevolezza gli
mosse le gambe nella direzione da cui proveniva il suono, finché il ragazzo non
si trovò davanti all’ingresso della palestra che aveva lasciato neanche una
mezz’ora prima.
Oikawa
era là: aveva atteso che tutti fossero andati via – probabilmente credeva che
anche Iwaizumi si fosse avviato verso casa o dal suo compagno – ed era tornato indietro: non
aveva alcuna voglia di starsene in camera sua e studiare era diventato
difficile, per cui la pallavolo ancora una volta gli era parsa la sola
soluzione. Iwaizumi lo osservò: era così concentrato
da non accorgersi di lui e il ragazzo ebbe la possibilità di coglierlo in un
momento estremamente naturale – si stava allenando alla battuta, rendendo la
traiettoria della palla, tentativo dopo tentativo, sempre più veloce ed
incisiva; il più delle volte, tuttavia, il lancio era semplicemente troppo
lungo. Iwaizumi si rese conto che non lo osservava da
davvero tanto tempo: era stato così impegnato ad evitarlo per un motivo o
l’altro, che ora quella vista gli pareva quasi nuova. Era cambiato nei giorni
in cui i suoi occhi non lo avevano guardato? Forse s’era fatto più alto o più
magro? La sola cosa che scorse con precisione fu che pareva più triste. E
poteva dirlo dal modo in cui teneva le spalle, un po’ incurvate, abbastanza da
abbassarlo di un paio di centimetri, o dal modo in cui teneva in mano la palla,
senza farla ruotare, ma stringendola forte. Non era rilassato, non stava bene.
Si innescò nella sua mente una
serie di collegamenti che come una reazione a catena giunsero fino a Kageyama, al fatto che Oikawa gli
aveva parlato, minacciandolo di fare attenzione alla sua felicità. Non seppe
perché si sentì improvvisamente risentito da quel gesto: non si tratta di Tobio, a cui davvero quella cosa non aveva fatto più
effetto di tanto una volta considerata a mente fredda, ma di uno strano senso
di bruciore in fondo allo stomaco. Oikawa lo stava
osservando, tanto bene da sapere che non era felice. Ma non gli aveva parlato e
anzi s’era allontanato. Invece di chiarire con lui era andato dal suo compagno.
«Perché non sei venuto a parlare
con me, invece di aggredire Tobio?».
Non voleva dare un tono tanto
serio a quelle parole, ma non seppe controllarsi. Parlava di nuovo per istinto
e senza filtri e se prima con Oikawa non erano mai
serviti, ora una parte di sé gli diceva che gli avrebbero fatto comodo.
Il capitano dell’Aoba si voltò di scatto, sorpreso di sentire quella voce, e
poggiò la palla a terra con lentezza.
«È corso a piangere da te?», diventava
insolente quando era stanco o ferito. «Ne ha di strada da fare, se si spaventa
per così poco».
«Tobio
non è corso da me. Ma se qualcuno ti salta addosso dicendoti di guardarti le
spalle, è normale restare turbati».
«Devo ammetterlo, non mi
aspettavo che avresti avuto un lato protettivo tanto forte». Oikawa non rifletteva sulle sua parole, cercava di essere
pungente quanto più possibile perché l’idea che Iwaizumi
se la stesse prendendo con lui gli faceva venir voglia di vomitare.
«Sei andato a parlare con lui e
non hai parlato con me!».
Iwaizumi
aveva gridato e Oikawa era tanto poco abituato a
sentirlo gridare in quel modo che trasse il fiato, la sua maschera di
presunzione che crepava ai bordi come troppo cotta da sole.
«Dal momento che non posso più
parlare con te…».
«Sei stato tu a tagliarmi fuori!
Sei stato tu a farti da parte! Non buttare questa cosa su di me, Oikawa, perché non è così che funziona. Hai scelto tu, per
entrambi». Iwaizumi non aveva saputo di avere quel
risentimento dentro finché le parole non lo avevano rivelato, a lui prima che
all’altro. Ma ora che le aveva dette, si rendeva conto che erano vere, che ad Oikawa non riusciva a perdonare questo: l’averlo lasciato
andare.
«E cosa credi che avrei dovuto
fare, eh? Fingere che mi stesse bene? Guardarti, mentre te ne andavi in giro
con lui? Cosa? Ti aspettavi davvero che avrei potuto reggere una cosa del
genere?».
«Mi hai detto che andava bene». Iwaizumi si stava lasciando andare, spinto dalle barriere
che vedeva crollare anche nell’altro «Quel giorno nel pullman volevo dirti che
di Kageyama non mi importava nulla, che avrei fatto
in modo che non mi importasse nulla. Che volevo restare con te e tu hai detto
che ti stava bene se andavo con lui».
Oikawa
lo guardò come si guarda uno spaventoso scenario di desolazione, l’orrore
dipinto nei suoi occhi, la consapevolezza di aver sbagliato ogni cosa
dall’inizio, di non aver capito proprio nulla della persona che più di chiunque
altro considerava vicina. Le parole di Iwaizumi lo
colpivano e lo stordivano senza che riuscisse a ragionare: era semplicemente
assurdo, non voleva credere che… non voleva neanche pensare al fatto che tutto
quello che aveva sofferto in quelle settimane, tutto quello che aveva provato e
visto era qualcosa che lui stesso aveva creato, che avrebbe potuto evitare e in
cui invece s’era lanciato di sua spontanea iniziativa. Iwaizumi
sarebbe rimasto e lui lo aveva allontanato per sempre.
«Volevo… volevo solo che tu… che
tu non ti sentissi obbligato…». No, non era vero. Aveva voluto ferirlo
mostrandosi superiore, aveva voluto apparire forte e distaccato ed aveva
sperato che fosse l’altro a tornare sui suoi passi mostrandogli quanto avesse
bisogno di lui, al di là di qualunque legame. Perché era la stessa cosa che
provava anche lui, ma non era mai stato nella posizione adatta per pretenderlo.
Ed ora che cosa gli restava? La
consapevolezza di ciò che poteva essere e non era stato. Perché lui era stato
troppo orgoglioso per lottare, troppo stupido per resistere. Egoista a tal
punto da farsi del male da solo.
Iwaizumi
si mosse verso di lui. Vedeva il dolore riflesso nei suoi occhi e per la prima
volta da non sapeva più quanto tempo era perfettamente consapevole di quello a
cui stava pensando. E nonostante tutto, nonostante quella situazione, fu una
bellissima sensazione – come se la Terra avesse ripreso a girare nel senso
giusto.
Quando gli fu davanti, inclinò
appena la testa, in uno strano movimento che Oikawa
era solito fare. Lo osservò senza dire nulla, si beò di quella visione,
dell’averlo di nuovo tanto vicino e non volle affrettare nulla: non gli
importava, in quel momento, del fatto che Oikawa
ancora non sapesse che in realtà nulla era perduto – lui se n’era appena reso
conto e voleva godere di quella sensazione di pace e di bene per qualche
istante da solo. Sentiva di meritarselo, perché nonostante Kageyama
anche lui aveva sofferto.
«Iwa-chan?»,
lo chiamò il capitano, senza capire: averlo tanto vicino ora faceva ancora più
male e gli pareva una tortura a cui l’altro lo stava sottoponendo di proposito,
per ferirlo.
«Promettimi che non passeremo mai
più tanto tempo senza parlare. E promettimi che non faremo mai più qualcosa
solo perché pensavamo di agire per il
meglio».
Gli occhi di Iwaizumi
erano lucidi e quelli di Oikawa si riempirono
velocemente delle stesse lacrime. Il capitano gli si gettò contro, poggiando la
testa su suo petto e bagnandogli in poco tempo la maglietta, in un pianto
disperato che sapeva di liberazione; le spalle erano scosse dai singhiozzi
nonostante le braccia di Iwaizumi le avessero avvolte
per stringerlo meglio a sé e un pugno, poggiato contro quello stesso petto in
cui si stava rifugiando, batteva contro la maglietta di tanto in tanto, senza
che nessuno dei due sapesse poi con chi se la stesse davvero prendendo Oikawa.
«Non andrò mai più via», gli
giurò Iwaizumi, prima di baciarlo – le labbra
sapevano di sale.
***
A nessuno, il giorno seguente,
sfuggì che qualcosa doveva essere davvero successa tra le due coppie: Hinata non era in grado di nascondere quanto fosse felice e
Kageyama al suo fianco si poteva dire che non fosse
mai stato tanto vicino al piccolo Centrale della Karasuno;
allo stesso modo Oikawa e Iwaizumi
parlottavano mentre arrivavano – insieme – a scuola e quella era una cosa che
non si vedeva da tempo.
Per chi li guardava da fuori,
giorno dopo giorno, semplicemente sembrava che l’ordine precostituito delle
cose fosse tornato a far valere le proprie leggi e in poco tempo tutte le voci
e i pettegolezzi scemarono, dissipati dalla vista di quei ragazzi tanto
affiatati e felici.
Hinata
e Suga, ovviamente, avevano parlato subito: il più piccolo gli aveva raccontato
nel dettaglio tutto quello che era successo, le parole di Kageyama,
la decisione che aveva preso con Iwaizumi di mettere
da parte il loro legame e provare ad essere felici in un modo del tutto
diverso. Suga aveva annuito e la felicità riflessa che provava a vedere Hinata tanto contento aveva scavalcato la poca fiducia che
aveva in quella sistemazione. Si poteva davvero semplicemente ignorare il
legame? Non glielo aveva chiesto, ma poi ne aveva parlato con Daichi.
«Mi piace pensare che sia
possibile», gli aveva risposto il capitano «Perché mi dà speranza che se mai
una cosa simile dovesse capitare anche a me o a te, non dovremmo per forza
perderci».
Suga aveva annuito, silenzioso
come mai prima e si era stretto a lui. Avrebbe provato a crederci anche lui.
Oikawa
era tornato il capitano di sempre: rideva, scherzava, infastidiva i suoi
compagni e dava loro risolutezza quando serviva. Avevano vinto la partita che
stavano preparando e andavano a gonfie vele verso gli ultimi scontro del
torneo. Iwaizumi accanto a lui pareva brillare anche
senza corrispondere il suo legame, tanto che fu facile per tutti ignorare quel
dettaglio e considerarli a conti fatti una coppia.
La prima volta che successe era
da poco passata l’una di notte e il dolore fu così forte da svegliare Iwaizumi dal sonno profondo. Si trattenne a stento dal
gridare, tenendosi il petto e faticando a respirare, e rimase bloccato a
fissare il buio davanti suoi occhi serrati per le fitte che provava. Non disse
nulla ad Oikawa ed attese che passasse, lentamente,
per poi trascorrere il resto della notte sveglio, spaventato dal fatto che
sarebbe potuto succedere ancora.
La seconda volta che successe, Kagayama stava sistemando con la squadra la palestra prima
di andare via. Era nello stanzino in cui tenevano le palle e tutto quello che
serviva per la manutenzione del campo quando annaspò come se gli mancasse
improvvisamente l’aria. Si tenne al muro, incapace di stare in piedi con le sue
sole forze e mugugnò per un dolore che non sapeva precisamente da dove
provenisse. Quando Asahi lo vide, il peggio era
passato e poté fare finta di nulla con una risposta secca a cui il ragazzo del
terzo anno non replicò. Non disse nulla ad Hinata perché
non c’era motivo di allarmarlo, perché sicuramente era stata la stanchezza
degli allenamenti.
La terza volta che successe né Iwaizumi né Kageyama furono in
grado di nasconderlo ai rispettivi compagni, perché Iwaizumi
stava disputando una partita, mentre Kageyama era in
classe. L’Asso dell’Aoba si accasciò semplicemente a
terra, tenendosi il petto e respirando male; i compagni di squadra fermarono la
partita, mentre Oikawa sentì la testa girargli mentre
correva verso di lui.
«Iwa-chan?
Iwa-chan! Hajime?!», lo
chiamò spaventato – s’era fatto male? Aveva colpito in modo sbagliato la palla,
era sbattuto contro qualcuno? Non aveva visto nulla di strano: possibile che
non l’avesse notato?
Iwaizumi
tremava: era più brutta nella fitte che lo avevano scosso le due volte
precedenti e non accennava a diminuire – in più pensava alle conseguenze, alle
domande che Oikawa gli avrebbe fatto e al modo in cui
non avrebbe saputo mentirgli: perché, riflettendoci, lui aveva capito a cosa
fossero dovute. Ci vollero più di cinque minuti perché la situazione tornasse
tranquilla e il ragazzo riprendesse a respirare con calma: si sentiva ancora
stordito dal dolore, ma almeno riuscì a mettersi in piedi e a rimanerci senza
sbandare troppo. Fu ovviamente sostituito e restò in panchina per il resto
della partita – per la seconda volta nella sua vita, però, ad Iwaizumi non interessò: il dolore non lo stava più
tormentando, ma aveva lasciato una spaventosa eco nella sua mente. Come le
crepe in un muro dopo un terremoto.
Kageyama
trattenne le grida solo perché sarebbe stato imbarazzante lamentarsi come un
bambino appena caduto dalla bicicletta – per quanto quel dolore fosse
tutt’altro che paragonabile ad una simile stupidaggine. Con la testa appoggiata
contro il banco, tremava, scosso da brividi freddi e stringeva petto ed addome
con le sue braccia. Hinata era stato il primo a
rendersene conto ed aveva richiamato l’attenzione di tutti sul ragazzo. Il
professore gli si era messo accanto, ma Kageyama
aveva rifiutato la sua offerta di chiamare un’ambulanza ed aveva provato a
rassicurarli tutti, dicendo che non era nulla, che sarebbe passato presto. Ci
vollero più di cinque minuti perché succedesse e anche quando fu passata, il
professore insistette perché andasse in infermeria. Hinata
lo accompagnò, ammutolito da quello che era successo.
«Non è la prima volta che
succede», confessarono i due ragazzi ai compagni quando furono solo e messi
alle strette dalle loro domande.
«Credo di sapere che cosa sta
succedendo», aggiunsero con gli occhi bassi.
Kageyama
ed Iwaizumi si rividero quel pomeriggio stesso e
capirono quanto l’uno era mancato all’altro nell’istante stesso in cui si
abbracciarono. Tobio si strinse contro di lui e Hajime sospirò sulla sua spalla, accarezzandogli la nuca
con una mano e stringendo gli occhi. Il sollievo che stavano provando in quel
momento era paragonabile solo al dolore che per tre volte avevano sentito
perché distanti.
Era di questo che si trattava:
non s’erano più visti da quando avevano deciso di stare con chi amavano
davvero, non s’erano più parlati – a malapena avevano mandato all’altro qualche
messaggio – perché credevano che sarebbe dovuta andare così, che la cosa
migliore sarebbe stata tagliare qualunque rapporto fra loro perché quello con Hinata e Oikawa funzionasse al
meglio. Ma s’erano mancati, senza rendersene consciamente conto, nel profondo
nell’anima avevano sofferto quella mancanza come se fossero improvvisamente
soli. Il dolore era stato il risultato finale di un istinto ignorato.
Oikawa
ed Hinata li guardarono, un po’ più lontani e l’uno
di fronte all’altro. Non dissero nulla, ma non smisero di guardarli. Dubitarono
per qualche istante ed ebbero paura che quello avrebbe significato un nuovo
distacco, ma non li interruppero perché in cuor loro sapevano che cosa avevano
dovuto provare. In fondo, era lo stesso che avevano provato anche loro, ma con
maggiore violenza, la violenza di un legame corrisposto.
Crearono nuovi compromessi, tutti
e quattro insieme. Stabilirono che Kageyama e Iwaizumi si sarebbero visti con regolarità, perché l’ultima
cosa che Hinata e Oikawa
avrebbero nuovamente permesso era una nuova fitta di dolore per la lontananza;
stabilirono anche che quello non cambiava nulla, perché l’ultima cosa che Kageyama e Iwaizumi volevano era
perderli di nuovo. Si salutarono e presero due strade opposte, così come erano
venuti.
Da quel giorno, le relazioni tra
le due coppie si macchiarono di una piccola tristezza, una malinconia accennata
che solo chi conosceva poteva scorgere davvero. Hinata
s’accorse che avevano preso a somigliare a Suga e Daichi
ed ora più che mai capiva davvero come potevano sentirsi. C’era qualcosa di
perennemente incrinato in quei rapporti, non troppo ma quel tanto che bastava a
rompere la perfetta simmetria, a togliere perfezione a qualcosa che avrebbe
dovuto essere tale per natura.
Andarono avanti perché il loro
amore era forte, perché quando avevano deciso di scegliere per sé, contro il
legame, lo avevano fatto con la sicurezza che fosse la cosa giusta e non si
sbagliavano. Kageyama e Iwaizumi
sapevano che non sarebbero mai stati felici insieme come lo erano con i
rispettivi compagni e Hinata e Oikawa
semplicemente avevano accanto a loro la persona che più amavano al mondo. Gli
incontri tra l’Asso dell’Aoba e l’Alzatore della Karasuno divennero una routine regolare e lentamente gli
altri due dovettero abituarsi ad essa. Di tanto in tanto, di notte, sognavano
di essere lasciati dopo uno di quegli incontri e si svegliavano spaventati,
fissando il compagno che avevano
accanto e chiedendosi se mai prima o poi sarebbe davvero successo.
Ma di giorno erano più
tranquilli, la luce li lasciava sperare, alleggeriva il loro cuore e fugava le
paure. Oikawa baciava Iwaizumi
per ricordare a se stesso che aveva scelto lui, che non era obbligato ed aveva
deciso di stare con lui; Hinata tirava a sé Kageyama e sentiva che Tobio non
sarebbe mai venuto meno alla richiesta che gli aveva fatto, quando lo aveva
baciato per la prima volta, di non lasciarlo mai più.
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Prima che mi mandiate
tranquillamente a quel paese, come merito, a mia discolpa ho solo da dire che le
soulmate!au che in qualche
modo non funzionano sono in assoluto uno dei miei guilty
pleasure più angst e che
quindi non sono stata in grado di resistere quando l’idea è arrivata. Su
suggerimento, potrei sfruttare ancora questo prompt,
magari con meno angst, e rendere questa una raccolta,
chissà.
Per ora penso ne abbiate avuto
abbastanza di me, quindi voglio solo lasciarvi la traduzione della frase di
introduzione, tratta dalla XII lettera delle Heroides di Ovidio: “Vidi e fui
perduta […] Perfido, te ne accorgesti? Infatti chi può nascondere bene l’amore?
La fiamma appare visibile per il suo stesso chiarore”.
Alla prossima!
Alch.