Buio.
Quando
era andato a dormire? Non riusciva a ricordarsi... forse si era
addormentato di nuovo sul divano. Era pervaso da una sorta di
torpore, come se tutto quello che aveva attorno fosse distante, in
un'altra dimensione; i suoni gli arrivavano ovattati, come
provenienti da molto, molto distante. Toccò con una mano il
pavimento sotto di sè, ma era come toccarlo attraverso un
velo di
seta; sentiva la superficie fredda e liscia, ma non la stava
veramente toccando. Aprì gli occhi. Un bianco assoluto
invase il suo
campo visivo; il pavimento su cui era disteso era bianco e lucido
come l'avorio, anche se non riusciva a riflettere nessuna immagine,
ed il bianco era tutto intorno a lui, in ogni direzione, fino allo
zenit. Non riusciva ad individuare nessun orizzonte, né da
dove
provenisse quella luce: potente, ma non abbagliante; diffusa in ogni
luogo, come se il cielo, l'aria ed il terreno sotto di lui fossero
una cosa sola. Si alzò in piedi, e si guardò
attorno da ogni lato:
niente, niente altro che bianco; non aveva neppure un'ombra. Eppure
era calmo. Spaesato, confuso, ma calmo; come curioso di capire dove
fosse e come vi fosse capitato, ma senza sentire il bisogno di
tornare a casa.
Cominciò
a camminare, lentamente, ciondolando le braccia e guardandosi
attorno. Non riusciva neanche a dire se si stesse muovendo, non aveva
alcun punto di riferimento, e nemmeno l'aria produceva alcun attrito.
Una
figura scura si stagliava in mezzo a tutto quel bianco, alla sua
sinistra. Era strano: era assolutamente sicuro che qualche secondo
prima in quel punto non ci fosse nulla. La figura stava in piedi,
statuaria; completamente coperta da una tonaca nero notte, che
scendeva dritta fino al terreno e copriva la testa e le braccia
conserte, nascondendola completamente. La ricerca di un volto era
vana, e sprofondata nell'oscurità di quel cappuccio. Nella
piega
delle braccia stava, leggermente reclinato, il lungo e sottile
bastone che terminava con la grande lama ricurva della falce.
Si
fermò, guardando nella direzione della fosca figura.
"Salve"
forse non era il migliore degli approcci, anche un po' imbarazzato,
ma almeno aveva rotto il ghiaccio.
-
Salve. -
Quella
voce... non era una voce, o meglio si, ma non la aveva sentita. Stava
immobile di fronte a lui, ferma come una statua; eppure la sua voce
(sapeva essere la sua) risuonava nella testa del ragazzo. Solo nella
sua testa, non alle sue orecchie: come se gli parlasse direttamente
nel cervello.
"Dove
mi trovo?" La curiosità innocente prese di nuovo piede nella
sua mente.
-
Beh, stai morendo. -
Asfalto.
Le strisce per terra, lui che cammina. Qualcuno chiama il suo nome
dietro di lui. Le gomme stridono sulla strada. Il mondo gira, poi
dolore al cranio. Buio.
"Oh..."
come diavolo aveva fatto a scordarselo? "Quindi, tu sei la
Morte?" Che domanda stupida. Vestita così chi poteva essere,
topolino? Nonostante tutto, continuava ad essere calmo, come se
stessero parlando di qualcosa di molto lontano e di poca importanza.
-
La Morte... perché dovete dare sempre una personalizzazione
a tutto?
Voi morite, e ci deve essere per forza qualcosa che vi fa morire, non
potete proprio accettare che ad uccidersi siate voi stessi, in un
modo o nell'altro. Io sono solo venuta a portarti via... se mi vedi
così, è solo colpa della tua cultura. Non ho una
forma: puoi
vedermi in qualsiasi modo tu voglia. -
Rimase
perplesso per qualche secondo. "Oh. Beh, va bene."
Silenzio.
"Quindi...
ora che si fa?"
Finalmente
la testa della figura si mosse, rompendo l'immobilità
surreale che
la circondava, e si alzò leggermente sotto al cappuccio.
-
Dobbiamo andare. -
"Cosa?"
Ora che ci pensava in effetti era stato logico fin dall'inizio.
"No,
no, senti non possiamo andare, non posso..."
-
Cavoli, certo che siete tutti uguali - anche se non poteva vederli,
sentiva i suoi occhi fissarlo intensamente dall'oscurità -
non
volete mai andarvene, avete sempre qualcosa in sospeso, vi state
godendo troppo la vita, eravate troppo giovani... siete pieni di
capricci -
"No,
no, non hai capito" fece un paio di passi verso la sua nuova
compagna "non è per me. Cioè, se fosse per me
verrei senza
problemi, non ho paura di morire; ma, vedi, ho fatto una promessa.
Non posso andarmene."
-
Mh... - la figura ora sembrava pensierosa, valutando le
possibilità.
-
Sai cosa? Mi stai simpatico. Il tuo caso non è
così grave, trauma
cranico da incidente stradale. Saresti dovuto morire dissanguato...
ma forse qualcosa si può fare. -
Il
mantello nero si mosse, e dopo la quasi totale immobilità
che aveva
tenuto fino a quel momento al ragazzo venne quasi un colpo. Morire di
crepacuore mentre si sta per morire, sarebbe il colmo,
pensò. Si
girò nella direzione presa dalla compagna silenziosa e vide
un basso
tavolino di legno, accompagnato da due sedie dello stesso materiale.
Il
vuoto del cappuccio era rivolto verso di lui.
-
Mi piacciono i giochi. - la voce nella sua testa era diventata
più
leggera, quasi allegra.
-
Battimi, e ti farò tornare indietro, per questa volta. Ti
avverto:
sono molto brava ai giochi. Lascio a te la scelta. -
Guardò
il tavolo di fronte a lui. Non era mai stato un gran che ai giochi da
tavolo: a scacchi aveva quasi sempre perso, così come a
dama; ai
giochi di carte, finiva sempre per incastrarsi in qualche modo.
Pensò
agli indovinelli, ma ebbe timore che quell'essere, di cui non sapeva
bene l'origine, ne sapesse più di lui. Decise di buttarsi
sull'unica
alternativa che gli sembrava accettabile.
"Dadi"
esclamò; "giochiamocela a dadi."
-
Vuoi dare tutto nella fortuna? Strano, di solito si affidano alle
loro immense abilità... - quindi non era il primo a cui
veniva fatta
questa proposta.
"Non
ho grandi abilità, e di solito non sono nemmeno molto
fortunato.
Spero che la buona sorte paghi il suo debito con me in questa
partita" sorrise.
All'improvviso
si ritrovò seduto su una delle due sedie, di fronte a lui il
suo
interlocutore, tra loro il tavolo.
-
Allora... perché lo fai? - con una mano chiusa scuoteva i
dadi; non
indossava più il pesante velo nero. Davanti a lui stava un
uomo, di
statura leggermente inferiore alla sua; i suoi capelli, ormai
tendenti al bianco, si diradavano sul capo, e la mandibola era
ricoperta da una barba folta e spinosa, il viso era magro e solcato
dai segni del tempo e gli occhi, espressivi e tristi, indossati nelle
orbite, lo fissavano da dietro un paio di occhiali dalla montatura di
metallo sottile. Parlava con una voce baritonale, ma senza muovere le
labbra.
Guardò
suo padre davanti a lui. Era abbastanza stupito e confuso da quella
repentina trasformazione, ma non disse nulla.
-
Sette - il pugno si aprì, e lasciò partire quei
due piccoli cubi
sulla superficie del tavolo. Si fermarono. Un tre ed un cinque,
tirò
un sospiro di sollievo.
-
Lo fai per la tua famiglia? - la voce era cambiata, era femminile e
pacata; la voce di sua madre. Non alzò gli occhi dal tavolo.
"No...
cioè, si, certo che lo faccio anche per loro, ma..."
Sì
fermò qualche istante, la frase sospesa fra le labbra
semiaperte;
allungò repentinamente la mano e prese i dadi dal
tavolo.
"Non
sono la prima cosa a cui ho pensato."
Casa
sua. Giù per le scale, sua madre gli urla contro.
Lui è già
pronto per uscire, e neanche sta più a sentire. Sbatte il
portone di
casa. Si guarda la mano, l'anello azzurro. E sorride.
C'era
anche lì. Nell'anulare della sua mano sinistra, non se ne
era mai
andato. Quell'anello... non era un anello molto prezioso, eppure non
lo avrebbe mai dato via. Ogni volta che guardava i riflessi blu ed
iridescenti della pietra di madreperla, si ricordava che sua madre,
quella persona scorbutico che gli urlava contro in continuazione, gli
voleva molto bene. Che ogni cosa facesse, lo faceva per proteggerlo.
Per lei era sempre il suo bambino.
"Mh..."
riflettè un secondo, i dadi stretti nella mano.
"Sei"
lanciò i dadi. Un due ed un uno. Dannazione.
-
Sembra che siamo pari, per ora -
Quella
voce... no. No, non poteva essere. Non lei, non li.
Era
terrorizzato. Alzò lo sguardo, titubante. Lei era
lì. Li, con i
suoi capelli scuri, lisci. Con le sue labbra rosee. Con il suo viso
pallido, gli occhi nascosti dietro le lenti degli occhiali grandi,
dalla montatura scura. Vestita di scuro, come al solito. Non poteva
sostenere quello sguardo, e si abbassò di nuovo, guardando
il vuoto
davanti a sé.
-
Allora è per amore, eh? - nel suo tono c'era un che di
ironico e
canzonatorio, stavolta. - Banale... -
"No.
No, guarda, hai capito male. Hai anche sbagliato persona."
-
Sei tu che comandi, qui - a metà di queste parole, la voce
mutò,
fino a diventare cristallina; - Vedi quello che vuoi vedere. -
Sollevò
di nuovo il capo, e sorrise.
Capelli
rossi, naso sottile e tenero. Occhi grandi, carnagione accesa. Le
labbra, le sue labbra sottili, così belle. Odiava vederla
truccata,
gli sembrava come coprire un'opera d'arte, dare una mano di pittura
sulla cappella Sistina. Era così bella...
-
Interessante... - neanche le sue labbra so muovevano, eppure gli
sorridevano; - Sei abbastanza confuso, eh? -
Arrossì
violentemente, costretto ad abbassare di nuovo lo sguardo.
"Ho
pensato anche a lei, lo devo ammettere... ma no, non è stato
il mio
primo pensiero."
-
Tre - la sua compagna si apprestava a tirare. I dadi erano in volo.
-
Lei chi? -
Un
due ed un uno.
Una
fitta al cuore lo fece piegare in due sul tavolo. La mano destra al
petto, era incapace di urlare, gli mancava il respiro; restò
così,
con la bocca aperta, il cuore in preda ad un dolore lancinante.
"Che..."
faceva fatica a trovare le forze per parlare "che... mi hai...
fatto...?"
-
Tranquillo - la voce era disturbata, come da un'interferenza; con la
vista annebbiata, un occhio chiuso per il dolore, nelle immagini
pulsanti gli sembrò di vedere le figure delle due ragazze
sovrapporsi l'una all'altra.
-
Sei andato in arresto cardiaco. Oh, ma non ti preoccupare: non
morirai, ancora... non abbiamo finito la nostra partita. -
Una
mano si posò sul tavolo e spinse i dadi verso di lui.
Confusione.
È con la ragazza dai capelli neri, lei sta piangendo; le sue
mani
sono macchiate di nero.
Ora
è con quella dai capelli rossi. Lei gli sorride,
è su un gradino.
Si avvicinano, lui la bacia sulla guancia. Lei lo lascia fare.
Aprì
gli occhi all'improvviso, con una scossa elettrica al torace. Sempre
il solito posto, poteva dirlo da tutto il bianco; ma non riusciva a
mettere a fuoco di fronte a lui.
-
La rianimazione ha funzionato - era una voce maschile, chiara;
-
Non sei più in pericolo imminente... allora, vuoi giocare? -
Riuscì
a guardarsi la mano destra, teneva i dadi nel palmo.
"Mh..."
gli girava la testa, ma finalmente riusciva a vederci quasi
chiaramente. Nella sedia di fronte alla sua c'era un ragazzo molto
giovane. Riccioli biondi, carnagione abbronzata.
"Aha...
si, si... ho capito..." stava fissando negli occhi il suo
migliore amico; "Sì, ho pensato ai miei amici... sono molto
importanti per me" era bastato un battito di ciglia: ora davanti
a lui stava una ragazza esile, con un caschetto di capelli castani ed
occhiali esageratamente grandi.
"Ma..."
sorrise, come se avesse vinto una sfida che si era stabilita
silenziosamente tra i due: "non sono stati neanche loro, la
prima cosa..." chiuse le dita attorno ai dadi.
"Otto."
La figura di fronte a lui mutava ancora. Ora aveva i capelli lunghi e
gli occhi grandi, stava sulla sedia come su un trono e teneva le
gambe incrociate.
Lanciò
i dadi, aveva quasi paura a guardarli.
Un
sei ed un due.
Il
dolore che gli opprimeva il petto svanì; all'improvviso
ritornò ad
essere lucido.
Davanti
a lui c'era... non riusciva a definirlo. Era come un corpo umano, ma
senza alcuna caratteristica. Non aveva un viso, un colore. Sembrava
quasi non esistesse, e guardarlo procurava una strana sensazione di
inquietudine.
Una
delle mani di quell'essere raccolse i dadi.
-
Perché? - la voce nella sua testa aveva perso ogni tono. Era
quasi
come visualizzare le pare senza che fossero pronunciate.
-
Perché lotti? -
"Te
lo ho detto, ho fatto una promessa."
-
Cinque. - tirò i dadi, che esitano qualche istante prima di
scegliere su che lato adagiarsi.
Doppio
sei.
"Cavoli..."
-
Già. - la testa senza volto si voltò verso di lui
- Un tiro. Vinci
questo, e ti lascio andare. -
Prese
i dadi con una mano, e li strinse forte.
"Sai..."
cominciò, guardandosi il pugno chiuso; "Lei per me
è più di
un'amica. Più di un'amante, o di una fidanzata.
Più che una
famiglia. Lei c'è sempre per me, ed io ho bisogno di lei..."
Non
poteva vederlo, ma sentì che chi era di fronte a lui stava
sorridendo.
"Due."
I
dadi rotolarono sul tavolo, fino a fermarsi.
Bianco.
Il
dottore uscì dal reparto rianimazione, una cartella in mano
e
un'aria eccessivamente abbattuta. Nella sala d'attesa c'erano quattro
persone: un ragazzo, alto, con i capelli biondi e ricci, abbracciato
ad una ragazza dai capelli a caschetto e gli occhiali grandi; vicino
a loro stava una ragazza dai capelli lunghi e neri, e i grandi occhi
scuri umidi di lacrime ed ombretto.
Ma
la persona più preoccupata in quella stanza era seduta
qualche passo
più in là, su una delle tante sedie blu; aveva
un'aria decisamente
distrutta. I capelli, castano chiaro, raccolti malamente in una coda,
lasciavano libero il viso segnato di lacrime, che si portavano dietro
quel poco di trucco che si era messa; era eccessivamente pallida, e
fissava il vuoto davanti a sé con aria assente.
Il
dottore si avvicinò ai quattro ragazzi, che erano presenti
all'incidente.
Una
macchina lo aveva preso in pieno, sulle strisce.
Nella
testa di lei c'era ancora impressa l'espressione del ragazzo un
attimo prima dell'impatto, quando si era girato al suo richiamo...
"Mi
dispiace..." la voce del dottore era quasi un sussurro.
"...abbiamo
fatto del nostro meglio."
La
porta dietro di loro si aprì di scatto, spinta da un ragazzo
avvolto
nei suoi vestiti strappati e malconci.
"Col
cavolo!"
Sì
era svegliato, era sceso di corsa dal lettino e aveva raggiunto la
porta il più velocemente possibile.
Si
videro. Sulla faccia di lei c'era la gioia di chi ha visto risorgere
un morto: si alzò, scansò quel dottore dalla
faccia rintontita e si
gettò fra le braccia di lui.
Si
strinsero così forte che lui temette di essere scampato alla
morte
solo per essere soffocato li.
"Non
lasciarmi mai più. Mai." La voce di lei era rotta dal
pianto,
che aveva ricominciato a scendere sulle sue guance.
"Hey...
non vado da nessuna parte. Ho promesso, ricordi? Non ti
abbandonerò
mai."
Appoggiato
alla porta d'ingresso stava un uomo, glabro, completamente vestito di
nero con tanto di giubbotto di pelle; i capelli portati a spazzola,
scuri come tutto il resto. Solo la sua pelle era molto chiara; gli
occhi coperti da un paio di occhiali da sole tondi.
L'uomo
gli sorrise, e si portò due dita alla tempia in una sorta di
saluto
militare.
-
Ci vediamo presto, ragazzo. -
|