Fear
the Neighbors
1.
Era una tranquilla giornata di
settembre, nonostante le temperature un po’ basse il sole ancora baciava i
tetti dell’università prestigiosa di Arkadia Bay. La squadra di football si
allenava come il solito nel campo adiacente ai dormitori, ma il caposquadra
aveva la testa da tutt’altra parte.
«Blake!» un urlo destò l’attenzione
del giovane ragazzo moro, e notò all’ultimo il compagno che era scivolato per
placcarlo e con un impeto compì un salto laterale, rovinando sulla spalla in
maniera scomposta. Una fitta terribile gli arrivò trapassandogli il corpo.
«Bel! Stai bene?» chiese il
compagno di squadra. Il ragazzo si tirò su, ignorando il dolore. Ma una pacca
datagli da dietro lo fece mugugnare dal dolore.
«Vai a farti vedere, Blake! Ci
servi integro per il campionato che dobbiamo affrontare!» urlò da lontano
l’allenatore Marcus, grattandosi la testa scocciato.
Il ragazzo, sudato e sporco di
terra lasciò il campo camminando lento verso la croce verde che torreggiava
alla sinistra del campo.
“Octavia arriva alle tre, e non so
nemmeno con chi alloggerà.” Ecco quali erano le preoccupazioni del nostro
quarterback, la giovane sorella appena iscrittasi alla sua stessa università.
Nonostante fosse più preponderante verso Scienze Motorie – come il fratello –
ha scelto di fare lingue e letterature straniere. Grazie alla borsa di studio
ottenuta era riuscita ad ottenere una camera in un nuovo alloggio appena
costruito per gli studenti universitari meritevoli. Octavia aveva rifiutato di
vivere insieme al fratello - che aveva affittato una casa lontano dal centro
per risparmiare - per affrontare questa nuova avventura da sola. E questo
rendeva Bellamy preoccupato. Talmente tanto preoccupato da distrarsi il campo,
l’unico posto dove si sentiva in pace con sé stesso.
«Blake, di nuovo qui?» Sospirò
Clarke Griffin, novizia dottoressa. Giovane ragazza bionda e dai bellissimi
occhi azzurri che nel tempo libero dai corsi intensivi di medicina aiutava la
dottoressa Kane per gli infortuni. Il camice bianco le stava sempre troppo stretto
per i gusti di Bellamy, ma oggi non era in vena di fare commenti come il suo
solito. Non fece nemmeno il solito commento prezzante su come potesse una
dottoressa avere le unghie ancora sporche di olio di motore.
«Sono caduto male sulla spalla.»
mormorò, sedendosi sul lettino come ormai era solito fare. Lo sguardo perso nel
vuoto. Clarke concentrò lo sguardo su di lui.
«C’è qualcosa che ti turba?» disse,
mentre analizzava il braccio del ragazzo, e camminò verso il banco per prendere
una crema.
«Octavia sta venendo qui…» disse
sospirando. «E non è voluta venire a vivere insieme a me… visto che ha vinto la
borsa di studio vuole sfruttare questa occasione per “rendersi indipendente”,
ha detto.» si sfilò la maglia sganciando l’imbracatura d’allenamento, così che
la bionda potesse applicare la crema.
«Per caso ti ha detto quale
alloggio le hanno assegnato…?» chiese, mentre applicava l’unguento.
«Mi sembra il numero 8.» Poi si
girò, curioso «Perché?». Clarke sorrise.
«Siamo coinquiline allora,
Bellamy.»
«Davvero?!» le afferrò le spalle
d’impeto, scendendo dal lettino «Ti prego, prenditene cura, lo sai che da
quando ha avuto quel brutto incidente ho sempre il timore che le capiti
qualcosa…». La giovane bionda, afferrando le mani di lui, si staccò, mantenendo
il sorriso.
«Stai tranquillo Blake, sono sicura
che diventeremo subito migliori amiche.» e con quello lo congedò, dandogli dei
campioncini di crema da applicare per evitare il complicarsi dell’ematoma.
Il suono della sveglia rimbombava
nella testa di Octavia come una campana di chiesa, e aprì con difficoltà gli
occhi, stanca e spossata per la serata che aveva appena passato.
Era stata ad una festa e aveva
bevuto troppo, alzandosi notò un peso non indifferente sulla sua schiena. Il
braccio di un uomo che dormiva accanto a lei, nudo, che russava
tranquillamente.
Sbuffò, iniziando a vestirsi.
Ingoiò una pastiglia per il post sbornia, e prendendo le valigie che aveva
preparato il giorno prima si avviò verso la fermata dell’autobus. Si mise le
cuffie all’orecchio e si riaddormentò una volta salita, conscia che aveva altre
quattro ore di sonno prima di essere un minimo presentabile per il fratello che
l’avrebbe accompagnata al suo alloggio. Era stata informata che avrebbe
convissuto con altre due donne, una più vecchia di lei di un anno e una
straniera. Ma per ora l’unica cosa che voleva fare era dormire, e lasciò
scivolare le sue ansie nel dolce cullare della corriera in viaggio verso il
lungomare.
«Jasper! Ti prego, esci da lì!» una
donna avvolta da un asciugamano sbraitava davanti alla porta di un bagno chiusa
a chiave, in uno dei nuovi alloggi dell’università. Un giovane ragazzo dai
capelli scuri completamente spettinati e con delle occhiaie da paura aprì la
porta con lentezza, grattandosi la barba. Puzzava di alcol e fumo.
«Dio Jasper, sono due ore che sto
aspettando per farmi la doccia!» e con quelle parole Raven, la giovane donna
dai capelli castani, scansò l’amico per entrare in bagno, sbattendo in malo
modo l’uomo fuori dalla stanza.
Grattandosi la testa il giovane
cantante si avviò alla sua camera per completare il suo pisolino, anche se la
sua vista venne bloccata da una schiena nuda. Sogghignò, pieno di nuova vita, prendendo
di sorpresa il ragazzo che si stava cambiando.
«Murphy…» mormorò con voce roca,
iniziando a baciare il collo del compagno mentre gli sfiorava con le mani il
petto e il cavallo dei pantaloni. Un sospirò di piacere uscì dalle labbra del
ragazzo, gli occhi azzurri dilatati dal piacere.
«Jasper…» si girò, sogghignando
malizioso. «Lo sai vero che sono le undici di mattina…?».
Il cantante non ascoltò quello che
diceva, era troppo preso da osservare quelle labbra fruste che amava tanto
baciare piegarsi in quel ghigno che lo aveva fatto innamorare.
«Chissene.» e gli saltò addosso,
baciandolo con foga, spingendolo con modo rozzo sul letto matrimoniale
disfatto. «Io ti scopo a tutte le ore.» e con quella frasi gli abbassò la zip
dei pantaloni, incominciando a leccare il pene già in erezione del compagno,
che aveva iniziato a mugugnare per il piacere.
«Almeno chiudete la porta!» Sbraitò
Raven, appena uscita dal bagno, sbattendo con forza la porta della camera dei
due. Si diresse alla sua camera, sentendo già suoni strani provenire dalla
camera.
«Che palle, sti piccioncini…» disse
sbuffando, passando davanti allo specchio in corridoio. Si soffermò per pochi
istanti ad osservare il tatuaggio che portava al braccio: un corvo nero in
volo. Lo sfiorò con una mano, ancora bagnata.
“Sei
indomita e libera, come questo uccello.” Bellamy le mormorava all’orecchio
dolci parole d’amore mentre lei sopportava con forza il dolore dell’ago che le
trapassava la pelle più e più volte.
“Ti
amo.”.
Distolse lo sguardo, camminando con
espressione ferita verso l’armadio. Doveva smetterla di tuffarsi nel passato e
dimenticare quel coglione tutto impettito. Anche se ancora pensando al suo
petto virile diventava tutto un bollore.
Clarke sollevò con forza le porte
in ferro dell’officina del padre, già con le mani sporche di olio di motore,
vestita della solita salopette e maglietta scollata. Si asciugò il sudore sulla
fronte, sporcandosi se possibile ancora di più. Era una giornata come tante,
per Clarke: alla mattina i corsi, al pomeriggio si divideva tra l’officina e il
tutoring all’infermeria del campo, e alla sera studio e recupero dei corsi in
cui era stata assente al pomeriggio.
Quel giorno era più stanca del
solito, non era riuscita a dormire per la tensione ed emozione insieme del
trasloco nel nuovo alloggio che le avevano – finalmente – rilasciato. Suo
padre, morto in un incidente un anno fa, era il motivo per cui le avevano
rilasciato una borsa di studio che così le permetteva di continuare i suoi
studi che altrimenti avrebbe dovuto sospendere. Sua madre faceva fatica a stare
nei conti, e la retta dell’università sarebbe stata una stangata troppo grande
da attutire con tutti i conti in rosso. Già faceva due lavori per poter
mantenersi e pagare i debiti lasciati dal padre. Sin da piccola il padre gli
aveva insegnato le basi della meccanica, facendola giocare a smontare un due
tempi invece che divertirsi con le bambole, e quegli insegnamenti adesso
stavano diventando utili alla figlia per potersi mantenere all’università.
Iniziò a lavorare su un motore che
non ne voleva sapere di partire quando sentì una voce provenire dalle sue
spalle.
«Mi scusi…?» Clarke sobbalzò,
sbattendo la testa sul metallo della macchina.
«Ahi!» e si girò, tenendosi una
mano sulla testa. «Mi dic…» e si zittì. Davanti a lei una bellissima donna
dagli occhi verdi e i capelli castani raccolti sulla spalla destra, lasciando
il collo scoperto. La osservava con bisogno, e Clarke rimase affascinata dai
movimenti sinuosi delle sue labbra.
«Ha capito…?».
«Eh?»
«Le ho chiesto se mi può aiutare
con la mia moto…»
Clarke si ricordò di respirare.
«Ah? Oh, sì! Moto. Dove?».
La giovane donna si girò
dirigendosi verso la strada secondaria dove sbucava l’officina. Clarke perse un
battito, quella donna aveva una camminata provocante.
«Vede? Non parte!» disse, mentre
provava ad accenderla col pedalino. Clarke perse un colpo al movimento del suo
petto.
«Ci penso io, non si preoccupi!» si
avvicinò per afferrare il manubrio, sfiorandole di poco le mani. Alzò lo
sguardo, imbarazzata e rossa in volto. Bloccandosi per un secondo notando che
quella donna non si era allontanata, rimanendole a distanza ravvicinata. il
cuore iniziò a battere all’impazzata.
«Ci tengo a questa moto, la tratti
bene per piacere…» e lasciò la presa. Clarke spinse la moto all’interno
dell’officina, per poi dirigersi verso l’ufficio dentro un piccolo gabbiotto.
«Mi dica nome e cognome per
registrarla, e un numero dove contattarla quando avrò finito il lavoro.» disse
la bionda, cercando di sembrare professionale. Penna alla mano.
«Lexa Woods.»
«Ok, numero?»
«Non lo so ancora, mi sono appena
trasferita qua.» si stava torturando le mani, nonostante mantenesse una postura
rigida e composta. Era nervosa.
«Ah, davvero?»
«Sì, sono venuta a studiare
medicina all’università di Arkadia Bay.» Clarke rimase per un secondo
spiazzata. Sbiancò.
«Ma guarda il caso pure io studio
medicina, è già un anno che ho iniziato!» Lexa la guardò di sbieco, come per
cercare di capire un quadro.
«E allora perché fai il
meccanico…?» domandò, con fare sprezzante. Clarke sorvolò sul tono, e ignorò la
domanda.
«Alloggi al dormitorio per caso?
Posso chiamarti lì, una volta finito il lavoro.»
«Sì, va bene.».
«Ok. Allora ci sentiamo!» disse,
sorridendole. Noto un leggero rossore sulle sue guance.
«Ehm…» sembrava in difficoltà a
chiederle una cosa, infatti non si era avviata per andarsene e stava lì a
guardare Clarke con quello sguardo bisognoso di prima.
«Hai bisogno di qualcos’altro…?» e
chissà come mai, nella mente della bionda, quella frase detta in quella maniera
ricordava tanto l’incipit di molte pellicole di bassa lega.
«Ecco, io…» iniziò a giocherellare
con un ciuffo dei capelli, guardando altrove mentre diventava sempre più rossa.
«…mi sono persa.».