I sepolcri

di General_Winter
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L'ebreo errante



Strinse di più le dita sottili attorno all’asta dell’ombrello che usava per ripararsi dal sole, che quel giorno aveva deciso di abbattersi implacabile sulle lapidi, sui muri delle case e sulle fronde dei rari alberi a Saint Paul de Vence. Gli unici salvi da quella insopportabile calura erano i gatti acciambellati sulle finestre e i pochi turisti e abitanti che non si erano mossi dagli intricati vicoli all’ombra delle costruzioni.
Voleva dell’acqua; la sete le seccava la gola, ma avrebbe dovuto aspettare di uscire dal cimitero per recarsi in uno dei piccoli negozi. Almeno non sarebbe rimasta lì ancora al lungo.
Sospirò piano, quasi infastidita, mentre raccoglieva un ciottolo rotondo da terra e cercava nella borsa una penna: se l’era portata.
All’inizio non le era piaciuto. Trovava le sue opere sghembe e prive di senso, dai colori troppo accesi e poco uniformi. Non capiva quell’arte astratta, come mai certe figure fossero più alte di altre.
« Di questi tempi l’arte deve rappresentare le emozioni dell’artista e la realtà del mondo in cui vive e dire che ciò che ci accade attorno è abbastanza confusionario come i miei dipinti. ».
I caratteri cirillici sembravano sul punto di sbiadire da un momento all’altro sulla pietra. Probabilmente, nel giro di qualche soleggiata e di qualche violenta pioggia si sarebbero cancellate sul serio.
Posò la pietra sulla lapide, come era usanza nella cultura dell’artista: una tradizione strana, Natalja lo ammetteva a se stessa, ma per qualcosa di così minimo non si sarebbe limitata.
Chiuse gli occhi, del tutto svuotata da quell’aura sprezzante che era solita avere con tutti: « Non era così male la tua arte, dopotutto. ».
Tornò in paese. Aveva ancora sete.




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