Ringrazio la collaborazione di Sarhita
(date un'occhiata al suo profilo)
Il
campo dell’epilogo
Era
quasi surreale, l'odore di tutti quei fiori. Ma allo stesso tempo
così vero da invadergli i sensi.
I
colori accesi della primavera lo circondavano come macchie brillanti…
un caleidoscopio indistinto che lo assuefaceva. A sovrastare ogni
colore, vi era il tenue rosa dei petali di ciliegio che, fluttuanti,
volteggiavano in un ultima danza.
Faceva
caldo. Forse troppo, si trovò a pensare, per essere appena l'inizio
della stagione in cui la vita inizia a rinascere, come ogni anno.
Il
dolce tepore del sole sulla pelle lo rilassava, così come il
cinguettio lontano dei piccoli uccelli che concedevano tregua alle
loro ali, sui grandi e accoglienti rami.
Osservava
la propria ombra muoversi lungo la strada, placida e rilassata.
Sembrava quasi un fantasma, da quanto ella lo faceva appariva sottile
e deformato.
Si
sentì quasi leggero, come privo di ogni preoccupazione, e lasciò
libero di apparire sul suo volto un bellissimo sorriso. Bellissimo,
certo, ma non era più lo stesso sorriso di un anno prima. Vi era una
velata malinconia, un male di vivere, che riusciva a sfuggire,
rimanendo celato agli sguardi meno attenti e disinteressati.
Si
fermò solo quando fu giunto alla fine di quella via di campagna,
rendendosi conto che la stava percorrendo senza neanche una meta
precisa.
Si
accorse di essersi fermato proprio davanti a un grande campo, pregno
di fiori. Lo osservò, apprezzandone la tavolozza variegata di
decine, forse centinaia di sfumature diverse. Non si era accorto di
dove i suoi piedi e la sua mente vagante lo stessero portando finché
non lo riconobbe. E fece male.
Portava
con sé tanti ricordi, quel luogo. Le sensazioni erano le stesse di
allora, almeno in parte. La pelle bruciava, la mente era pesante, ma
l’animo leggero. Il profumo… quel profumo delicato invadeva ogni
cosa.
Eppure,
il suo cuore, non era più lo stesso.
Non
vi era più quell’amore travolgente, rosso, come rossi sono i
papaveri. Quell’amore che faceva battere il suo cuore più forte,
scaldandolo internamente, liberando così un morbido tepore in tutto
il suo corpo.
Invece
adesso… adesso sentiva freddo.
Era
così freddo, dentro di sé.
In
tutta la sua vita aveva compreso che per lui vi erano solo due modi
di scacciare quel gelo assassino, per far sì che la vita tornasse a
scorrere, almeno nelle sue vene.
Il
primo? La danza.
Non
sentiva il bisogno di farsi accompagnare dalla musica. Non questa
volta, almeno. Non in quel luogo.
Ballò.
Ballò come non aveva mai fatto prima... o forse come faceva sempre,
con quel suo sorriso perenne e il cuore infranto, con l’energia di
un ragazzo allegro e la tristezza di un animo morto.
Ballò
per lui, anche se lui non era lì per guardarlo.
_
I
muscoli gli dolevano. Le ossa stavano per cedere. I passi erano
terminati. Il cielo stava salutando la sera, con i caldi colori del
tramonto. Non voleva smettere. Non gli erano mai piaciuti i finali.
Non voleva porre una fine, non in quel luogo, non di nuovo.
Il
campo dell’epilogo poteva aspettare.
“Mi
manchi.” sussurrò, e la sua voce si perse nel vento, il quale
portò le sue parole lontano, nell’atmosfera, forse anche nello
spazio più profondo. “Mi manchi.”
Due parole che nessuno
mai si sarebbe immaginato di sentirlo pronunciare, riferite a lui. Le
persone comuni non riuscivano a capire il loro amore. E come
avrebbero potuto? Non sapevano di loro, o della loro storia. Loro non
conoscevano il suo dolore.
“Mi
manchi.”
Quelle
parole sarebbero arrivate sino a lui?
C'era
un unico piccolo fiore che riuscì a catturare la sua attenzione, in
quell'immensa distesa colorata. Aveva grandi petali color arancio,
che assumevano una posizione lievemente arcuata verso il basso, ai
lati, quasi come a rappresentare delle lacrime, illuminate da righe
dorate. Sentì con quel fiore come un legame particolare, come se
questo avesse potuto capirlo. Era un nucleo che aveva rubato i colori
del sole, e che sembrava voler attirare l'attenzione su di sé,
brillante ed egocentrico.
Ad
Hoseok ricordò sé stesso. Il sé stesso del passato, quello pieno
di vitalità, e non quel relitto che sentiva di essere diventato,
lasciato andare alla deriva nel bel mezzo di un campo.
Si
chinò, osservandolo meglio.
Quel
piccolo fiore portava con sé il sapore dell'estate. Come se fosse un
assaggio della calda stagione, nel tiepido aprile di Busan.
Avvicinò
le dita nel gesto di cogliere quella bellezza, ma si fermò subito.
Gli
ricordava maggiormente il suo dongsaeng,
notò,
guardandolo meglio,
e
immediatamente non ebbe più il coraggio di strapparlo dal suolo, e
di privarlo della sua vita.
“Hyung”.
Si
riscosse, con un fremito, al sentire quel
sussurro, così
flebile da credere quasi
di esserselo soltanto
immaginato.
Un
sorriso amaro gli macchiò il volto. Era diventato più trascurato,
segnato dalla stanchezza, quasi arreso alla atroce sorte di respirare
ancora, sì, ma da solo.
Trovava
ironico che la sua mente gli recasse tali bassezze, che dopo tutto
quel tempo portasse con sé ancora le illusioni di una voce che non
avrebbe dovuto più sentire, anche se desiderava così tanto
riudirla.
Eppure
si dovette ricredere quando delle dita sfiorarono il suo braccio,
prima di afferrarlo con una presa insicura.
Quelle
mani… quelle sole mani erano in grado di scaldargli il cuore.
Chiuse
gli occhi, ma ebbe troppa paura di girarsi, sicuro che se lo avesse
fatto vi avrebbe trovato solo il vuoto, e non quegli occhi
innamorati.
Si
beò del ricordo di quelle dita sulla sua pelle, tra i suoi capelli.
Godette e soffrì al medesimo tempo di quello scherzo della memoria
che riusciva a fargli sentire di nuovo quei polpastrelli che vagavano
liberi.
Poi
pianse. Pianse piano. E senza far rumore.
Fu
un pianto macchiato dal dolore, composto di scarse lacrime solitarie
che attraversano silenziosamente le valli di carne del viso. Non era
il pianto infantile di chi vuole essere consolato, ma quello di un
uomo maturo che ha tenuto troppi segreti in un angolo nascosto del
proprio animo spezzato, senza tenere in considerazione che il dolore,
prima o poi, deve tornare a galla.
E
allora si girò, stanco di quella situazione, stanco di se stesso e
della vita. Stanco del sorgere del sole e del suo tramontare. Stanco
di vedere la terra girare da solo.
Jimin
era lì, con un sorriso preoccupato e lo sguardo triste. Ma era lì.
Era
lì.
Era
lì.
Era
lì.
“Cosa
ci fai qui?”, chiese sconcertato Hoseok, non riuscendo a trattenere
quel pianto, per quanto ci provasse.
“Ti
cercavo.”, rispose il minore con un'insicurezza che Hoseok non era
abituato a vedere su di lui, da molto tempo.
Esitò,
infatti, terrorizzato dall’idea di vederlo scomparire sotto i suoi
occhi. Non sentiva di avere nulla da dire, la sua mente era persa
nella nebbia. O, forse, erano troppe le emozioni per riuscire a
metterle in ordine nella sua testa e riuscire a esprimerne anche
soltanto una.
Così
iniziò a concentrarsi su ogni cosa, per i primi attimi. Su tutto
fuorché il viso dell'altro ragazzo.
Sulla
pelle poteva sentirsi il vento pizzicare, ancora marchiato da
quell'inverno che andava scomparendo…
Come
temeva facesse Jimin.
Il
vento scuoteva lievemente l’erba, e faceva muovere i sottili
filamenti verdi come fossero onde del mare, e il cielo sfumato
di arancio riscaldava il suo cuore.
Amava
quel cielo, quando i colori caldi e i colori freddi si fondevano
insieme, nonostante le apparenti divergenze, per creare un colore più
caldo ancora, passionale, tingendo dapprima ogni cosa del colore dei
mandarini, per poi lasciare spazio al buio apparentemente freddo
della notte. Gli piaceva perdersi nell'osservare come quella luce
particolare tingesse il suo mondo, ed era bello vedere tutto
brillare.
Quel
cielo lo riscaldava, lo calmava, lo faceva sentire vivo, ma allo
stesso tempo leggero come se il suo corpo non esistesse più.
Finalmente
riuscì a controllarsi, e a posare i suoi occhi su di lui.
I
suoi capelli, quei capelli del medesimo colore di quel cielo che
aveva ammirato fino a quel momento, lo rendevano più bello che mai.
Un
anno. E lui... era esattamente come l’ultima volta che lo aveva
visto.
Una
parte dentro di sé, in fondo, era conscia che quella visione era
solo un gioco della sua mente masochista, e che quello che vedeva non
era reale... Eppure quel sorriso gli sembrava troppo “il suo
sorriso”,
e
scegliere di seguire la mente e non il cuore, improvvisamente
gli sembrava la scelta sbagliata.
Hoseok
attese ancora che delle parole uscissero da quelle labbra. Si preparò
ad ogni tipo di frase, fremeva dalla voglia di sentire la sua voce…
ma niente. Il suo cuore scalpitava, colto dall'ansia, e la sua mente
gridava di non sperare, di non battere in quel modo per quel ragazzo,
che era tutta finzione… follia… amara, dolorosa, follia.
Non
aveva mai imparato a controllarsi, lui. Mai.
Aspettò
a lungo.
Aspettò
invano.
Nessuna
parola, infatti, riempì quel silenzio teso.
La
vista però gli bastava, se la fece bastare. Jimin era così reale.
Una presenza fin troppo vivida, lì, di fronte a lui. Quelle labbra
carnose e lievemente rosate, che migliaia di volte aveva baciato, e
che in quel momento erano piegate in quel sorriso timido che lo aveva
fatto innamorare per la prima, e sola volta, in tutta la sua fottuta
vita. Quei denti perfetti che mordevano piano il labbro inferiore,
mostrando il lato timido e insicuro del ragazzo che amava.
“Jimin.”
disse solo, dopo tutto quel tempo.
Quel
nome valeva più di ogni altra parola, infondo. Era il suo
nome. Il nome della persona più bella, della persona più gentile...
della sua cazzo di fottuta anima gemella.
Park
Jimin. Il nome inciso sul suo cuore, marchiato a fuoco in un’ustione
dolorosa e cocente, che tutt’ora bruciava.
Aveva
bisogno di quelle fottute labbra sulle sue per non incenerire o
congelare. Aveva bisogno di quelle loro fottute dita intrecciate e le
loro anime collegate.
Hoseok
aveva sempre amato l’unione delle loro mani. Lui aveva le dita
lunghe e sottili, mentre quelle di Jimin erano più corte e spesse,
ma riempivano così bene gli spazi vuoti tra le sue, che si sentiva
sempre come se gli mancasse qualcosa quando quest’ultime non erano
lì, a colmare quel divario.
Ne
avevano superate così tante, loro due insieme. Avevano affrontato
gli sguardi di disprezzo, tutte le conseguenze di una società
omofoba, che non era ancora pronta al loro amore. Avevano dovuto
lottare a lungo per il loro amore e per realizzare i loro sogni. Si
erano sempre impegnati in tutto, arrivando a spezzarsi la schiena.
Ma,
evidentemente, tutto quello non era bastato.
E
alla fine, non aveva più importanza.
La
vita aveva riservato loro molte sofferenze, e molte prove da
superare. Ingiusta, a tal punto da diventare persino spietata.
Hoseok
una volta ci credeva. Credeva che la vita la smettesse, prima o poi,
di manovrare crudelmente le loro vite. E con tutta questa fede nel
cuore, e con quel sorriso allegro di una volta, aveva sempre detto al
più piccolo che, prima o poi, dopo tutti i loro sacrifici, avrebbero
ottenuto un po’ di quella pace che tanto bramavano.
Eppure,
a un passo dal realizzare i loro sogni, proprio quando erano
finalmente riusciti a trasferirsi in quella piccolissima casetta, ma
perfetta per loro due, la vita gli aveva giocato un brutto scherzo.
Lo scherzo peggiore di tutti.
Lo
aveva preso.
Se
lo era portato via.
La
vita di Jimin era stata spezzata.
E
con lei, un po’, anche la sua.
“Ti
amo, Jimin.”
“Ti
amo anch’io,
Hobi-”
Quel
soprannome portava con sé altri
ricordi, altrettante notti passate
ad amarsi, come il più puro e innocente
degli amori.
Fu
involontario quel
portare le dita in avanti, verso di
Jimin.
Fu
un involontario,
sciocco, stupido, incosciente
errore. Sentì per un istante, un solo
fuggevole istante, il calore e la morbidezza di quelle guance che
amava accarezzare e pizzicare.
Subdola, masochistica
illusione.
Nemmeno
il tempo di assaporare quella sensazione, e l’altro, semplicemente,
sparì.
Lasciando
solo il dolore di quell’ennesimo pugnale conficcato nel suo
petto.
L’ennesimo tra tanti.
Sparito,
come fumo, come se non fosse mai stato lì.
Semplicemente,
andato.
Di
nuovo.
Ancora.
Quel
dolore.
La
mente di Hoseok aveva vinto. Quel continuo farsi del male aveva
prevalso.
Ormai il fiume era inarrestabile.
I
ricordi della sua morte.
La
morte di Jimin.
E
anche la sua.
Hoseok
voleva davvero illudersi. Voleva davvero potergli dire ancora “ti
amo”, ancora, ancora e ancora. Per l’eternità.
Poterlo
ancora stringere tra la proprie braccia, fare l’amore con lui in
quel campo un’altra volta.
Ancora,
e ancora e ancora. Per l’eternità.
Voleva
vederlo ancora mangiare, in quel suo modo carino, per poi sentirlo
lamentarsi di una dieta di cui in realtà non aveva mai avuto
bisogno.
Voleva
ballare di nuovo con lui, farsi le coccole sul divano guardando
qualche anime.
Voleva
litigare con lui, discutere, per poi fare la pace, nel modo più
dolce possibile. Trovare modi per farsi perdonare.
Restare
insieme.
Ancora,
e ancora e ancora. Per l’eternità.
Voleva
tante cose. Tutte cose che gli mancavano.
Gli
mancava Jimin.
Quella
voce. Quanto gli mancava quella voce che cantava per lui, nel buio
della notte, sotto il candore pallido di una luna ormai spenta.
Gli
mancava così tanto Jimin.
Gli
era mancato ogni giorno di quell’ultimo orribile anno. Ogni ora,
ogni minuto, ogni secondo. Ogni respiro.
La
loro piccola casa, a Busan, sembrava troppo grande ora. E vuota. Il
mare, invece, gli sembrava troppo vasto e profondo, senza Jimin che
faceva il bagno nudo nelle notti d’estate.
Un
giorno, un giorno semplice e uguale agli altri, Hoseok sparì, senza
lasciare traccia.
Sparito,
come fumo, come se non fosse mai stato lì.
Forse
nessuno se ne accorse... o forse, in realtà, se ne accorsero tutti,
senza però arrecare al fatto nessuna importanza.
Quelle
pillole... sembravano una scelta così comoda e logica in quel
momento.
Era
lucida, la sua mente. Questa volta lo era davvero. Non lo era mai
stata dalla morte di Jimin, ma in quel momento… mentre se le
versava tutte in una mano sentì, finalmente, di fare la cosa giusta.
Quali ragioni aveva per restare in quella casa da solo? In
quella vita da solo?
Molte
caddero nel lavandino bianco. Lo stesso lavandino che aveva sorretto
il suo peso più volte nei momenti in cui Jimin, affamato, gli
suggeva il collo con le labbra.
Si
voltò, pronto a uscire dalla stanza, ma lo sguardo, crudele, si
soffermò sulla grande vasca che li aveva accolti stretti insieme,
tra risate bassi e gemiti soffocati da labbra gemelle.
La
stanza principale, composta da una piccola cucina con un tavolo e un
grande futòn che ne occupava metà portava ricordi in ogni singolo
angolo.
Gli
sembrava quasi si rivederlo, il corpo del suo amato, contorcersi tra
le coperte e sussurrare il suo nome, pervaso dal piacere. Ogni angolo
parlava di lui. Aveva vissuto con quei ricordi per troppo tempo… si
chiese come fosse riuscito a non impazzire…
C’era riuscito,
no?
Uscì
senza preoccuparsi di chiudere la porta.
Ormai
non ce ne era più bisogno.
Il
mare di Busan sembrava cantare.
Le
onde placide che si muovevano lente, per via di un vento che portava
con se centinaia di voci e sussurri rubati.
Sembrava
una bella immagine.
Perfetta,
per essere l’ultima, no?
Si
chiese cosa gli avrebbe detto Jimin, in un momento come quello.
Probabilmente
niente.
Gli
avrebbe sorriso, però.
Di
quel sorriso dolce.
E
Dio quanto la amava.
Quanto
gli mancava.
Non
avrebbe più sofferto, mai più, lo stava per rivedere.
Il
suo Jimin.
Sarebbero
stati insieme.
Ancora,
e ancora e ancora. Per l’eternità.
Un
ultimo sussurro, mentre stringeva tra le dita quel fiore di campo
ormai privo
di vita. Un pensiero al
suo amore, e un pensiero
alla danza. Mentre la vita lo
abbandonava, il sorriso di Jimin diventava sempre più reale, come
l’odore di salsedine che
gli riempiva le narici, fondendosi con il profumo della pelle di
Jimin e dello
shampoo profumato che usava sempre.
Un
sorriso felice apparve sul suo volto. Quel sorriso innamorato che
cercava sempre di
trattenere, senza mai riuscirci,
quando guardava quel ragazzo ai suoi occhi bellissimo. Quel sorriso
di pura felicità, privo di ogni preoccupazione o dolore che non
mostrava più da tempo.
Sorrise.
E
chiuse gli occhi per l’ultima volta.
Siamo
come quei petali caduti,
di
quel fiore senza vita.
Eppure,
insieme.
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