Le luci della sera si
riflettevano sul finestrino della macchina della polizia. Lily si
vergognava, era ridotta in condizioni assurde e non voleva appestare la
bella macchina con i sedili in pelle che la stava portando al St.
Barth’s. Aveva rifiutato la giacca di John, il cappotto di
Sherlock, e si era accontentata di una coperta ruvida e che pizzicava
della polizia. Ma in quel momento le importava ben poco;
l’importante era essere salva, fuori di lì.
Kaleb era morto. All’improvviso un’ondata di dolore
mista a sollievo le aveva mozzato il respiro. Lui non c’era
più, non sarebbe mai più esistito, ora la sua
anima forse stava attraversando i sette Cieli, verso Dio. Sarebbe stato
perdonato, lei sapeva che in fondo era buono. E versò
qualche lacrima per lui, perché alla fine l’aveva
amato come si ama raramente, come si ama quando si è
innocenti. E lui, Lily era sicura, per un periodo l’aveva
ricambiata con lo stesso ardore, con la stessa dolcezza. Ma poi era
cambiato, si era trasformato e il buio aveva ingoiato la sua anima. Con
la testa appoggiata al finestrino, pensava a tutto ciò,
mentre piccole lacrime le scendevano per le guance. Riusciva a pensare
solo:
“addio
Kaleb, addio”.
Nella macchina c’era un silenzio denso, carico di domande e
sottintesi. Cosa avrebbe fatto ora? Era libera sul serio, adesso.
Avrebbe raccontato tutto alla Polizia, poi si sarebbe fatta visitare,
poi si sarebbe fatta una doccia e mangiato.
Sì, certo. Ma poi.
Automaticamente si era voltata verso John e Sherlock, i suoi due punti
di riferimento. Chiacchieravano sottovoce tra di loro, come le persone
che si conoscono da anni. Le facce assorte e attente allo stesso tempo,
e Lily per una frazione di secondo si era sentita fuori da
lì, estranea. Come se non ci fosse. Come se si fosse
intrufolata in qualcosa di privato, di segreto. Sherlock,
all’improvviso l’aveva guardata, distratto.
“Stai bene?” aveva chiesto, piano. John si era
girato a sua volta, con aria interrogativa.
Lily aveva annuito, con un sorriso tirato: “Sì,
sto bene, grazie” si era stretta nella coperta , in imbarazzo.
Ma il suo cuore era pesante come piombo. Sherlock continuava a
guardarla, mentre John parlava al telefono. La fissava e il cuore di
Lily aveva aumentato i battiti. Cosa voleva da lei; perché
mi guardi così, perché mi devi mettere a disagio
anche ora; perché il mio cuore ora batte, mentre prima
sembrava fermo;
Erano pensieri che si susseguivano rapidi, dentro la mente di Lily.
Ti prego, almeno per
stasera, cerca di non leggermi dentro. Almeno stasera.
Aveva pensato intensamente, serrando la mascella fino a farsi
scricchiolare i denti.
E come se un flusso di pensieri caldo e luminoso si fosse incrociato in
quell’istante, aveva sentito la sua stessa voce, dentro la
sua testa:
tutto
è andato bene, è sicuro, quindi per ora
starò zitto.
Lily aveva trattenuto il respiro per qualche istante; la voce nella sua
testa aveva detto “zitto”. Ma la voce era la sua.
Che fosse stato un incrocio di pensieri tra lei e Sherlock? Lily aveva
distolto subito lo sguardo, rabbrividendo leggermente. Si sentiva
scombussolata, il cuore continuava a martellarle nel petto, non poteva
sostenere un secondo di più il suo sguardo. Aveva
ricominciato a guardare la strada, sperando di arrivare il prima
possibile al St. Barth’s.
Finalmente arrivati, non aveva parlato con nessuno. L’avrebbe
fatto con Lestrade, per aggiungere più particolari e
soprattutto perché John e Sherlock erano lì e lui
era l’unico a saperlo. Mentre un’infermiera
amorevole le disinfettava le ferite sul viso sorridendole materna, da
dietro la porta della stanza aveva sentito voci concitate.
Fai finire almeno le
medicazioni…almeno quelle.
Non ci penso proprio!
In quel preciso istante la porta si era spalancata, facendo comparire
Mary, gli occhi pieni di lacrime mentre si strattonava dalla presa di
John.
“Lily!” aveva esclamato con voce flebile e stridula
“Lily, allora è vero!”
Era corsa verso di lei, spostando l’infermiera e
stritolandola in un abbraccio da boa constrictor, piangendo come una
bambina. Dopo due minuti, Lily aveva guardato John da sopra la spalla
di Mary aggrottando leggermente le sopracciglia, chiedendo aiuto.
“Mary, tesoro…forse dovresti farla respirare
per un attimo”.
Lei si era staccata immediatamente, prendendo il viso di Lily tra le
mani: “Santo cielo, Lily. Ma cosa ti ha fatto?” un
lampo di odio aveva attraversato i suoi occhi
“com’è possibile? Come sta?”
era scattata verso l’infermiera, che era indietreggiata
leggermente intimorita.
“Sta
bene,
nei limiti del possibile. Ora fai finire il lavoro
all’infermiera, manca poco” aveva incalzato John.
“Ma scusa, non potresti farlo tu? Sei medico!”
aveva fissato la povera ragazza, che aveva teso tutto il necessario al
“dottore” ed era scappata dalla stanza. John aveva
rivolto uno sguardo di rimprovero a Mary, che aveva alzato le spalle.
All’improvviso, aveva spalancato gli occhi: “Ho
lasciato i tuoi vestiti puliti in macchina! Torno subito!” ed
era corsa via, il rumore dei tacchi che echeggiava per i corridoi
dell’ospedale.
John aveva scosso la testa, cominciando a disinfettare il piccolo
taglio sulla guancia di Lily: “Un abitudinario, eh? Lividi e
tagli sempre negli stessi posti” aveva sussurrato
concentrato, osservando il livido che aveva sulla guancia sinistra.
Aveva il maglione schizzato di sangue, gocce microscopiche.
Lily non aveva risposto, non sapeva cosa dire. Aveva incrociato lo
sguardo di John, i suoi occhi blu che alla luce del neon sembravano
neri. Lui le aveva sorriso, le rughe agli angoli degli occhi
accentuate: “sei silenziosa, ti aveva detto che avresti
potuto parlare fino a farci sanguinare le orecchie”. Aveva
alzato le sopracciglia, perplesso.
“Non so esattamente cosa dire” aveva sussurrato
Lily scrollando le spalle e sedendosi meglio sul lettino, in evidente
imbarazzo.
“Se vuoi, puoi pure non parlare. Nessuno ti
rimprovererà per questo”. John aveva proseguito
con le medicazioni, il suo tocco leggero e delicato rassicurava Lily in
parte.
Aveva arricciato le labbra, nervosa: “È solo che
credevo mi sarei sentita diversa”.
John si era fermato, e aveva appoggiato il disinfettante e la garza sul
lettino: “Lo so, il senso di sollievo è
temporaneo. Cosa provi esattamente?” aveva stretto gli occhi,
attento.
“Io…non lo so. Ho molta paura e ansia di quello
che succederà adesso. Sono dispiaciuta per la morte di
Kaleb, e ho paura anche che non riuscirò mai più
a dormire”.
John aveva sospirato leggermente: “penso sia normale, sai? Ma
non c’è nulla che non si possa risolvere con un
po’ di buona volontà “le aveva messo una
mano sulla spalla, richiamando la sua attenzione “Lily,
guardami per favore”. John, che aveva sempre bisogno del
contatto visivo per parlare alla gente, con il suo piglio da ex soldato.
Povera Rose,
aveva pensato Lily.
Lui continuava a esaminarla, con il più rassicurante degli
sguardi: “ci vuole tempo, il tempo guarisce tutto. So che
è una frase a dir poco scontata, ma è vero.
Guarda me. Dopo essere rientrato dall’ Afghanistan,
anch’io pensavo bene o male le stesse cose.”
Lei aveva alzato gli occhi su John, in imbarazzo. Come poteva
paragonare la sua esperienza a quella di Lily? Quella di John era
estremamente più grave, e lui in Afghanistan c’era
stato tre anni, prima di rientrare per la ferita alla spalla.
Lily aveva annuito, non del tutto convinta. Ma si fidava ciecamente di
quello che diceva, della sua saggezza innata, che sembrava scaturire
sempre al punto giusto e sapeva sempre dove lenire, dove curare, dove
incoraggiare.
Aveva riabbassato lo sguardo sul lettino, tracciando piccoli cerchi con
il dito sulla carta.
“Sherlock dov’è?” aveva
chiesto piano, puntando di nuovo lo sguardo su John.
Lui l’aveva guardata, e un accenno di sorriso si era aperto
sulla sua bocca.
“È al telefono con Lestrade, tra poco
arriverà”. Aveva uno sguardo divertito, che aveva
messo Lily in imbarazzo: “Smettila” aveva
borbottato verso John, non riuscendo a trattenere un sorriso.
“Io? Cosa ho fatto?” aveva riso di nuovo
“i cavalieri non abbandonano mai le principesse, stai
tranquilla.”.
Lily era diventata rossa, suscitando un’altra risata di John.
“John, ho detto basta!” aveva riso anche lei,
tirandogli un rotolo di garza “che stronzo!”
John aveva ripreso contegno ed era diventato serio tutto a un tratto:
“Ora sei qui, e noi siamo con te. Nessuno ti lascia sola,
Lily. Sappilo. Quello che è successo è stato un
errore di calcolo, una sfortunata coincidenza, chiamala come vuoi. Ma
ora, più che mai, devi capire una cosa: tu una famiglia ce
l’hai e siamo noi. Dicci sempre tutto,
com’è giusto che sia”.
All’improvviso aveva spalancato gli occhi, alzando un dito in
aria: “Ah, quasi mi scordavo!” si era frugato in
tasca “avrei voluta dartela subito, ma poi mi è
passato di mente”.
Le aveva preso la mano delicatamente e ci aveva posato dentro qualcosa.
Al contatto con la sua pelle, Lily aveva trattenuto il respiro. Aveva
aperto piano la mano e sul suo palmo c’era il ciondolo del
giglio, con la sua catenina aggiustata. Era più bello,
splendeva.
“L’abbiamo fatta riparare e lucidare”
aveva detto piano John sorridendo, mentre Lily si rigirava la catenina
tra le mani, mordendosi piano il labbro inferiore “ora
è di nuovo con te, l’avevi sempre addosso, sembra
essere importante. Un giorno mi racconterai anche la storia di questo
bel ciondolo” le aveva strizzato il polso leggermente, e lo
teneva con delicatezza. Si erano guardati per un momento e Lily aveva
sorriso, piena di gioia: “Grazie” aveva sussurrato,
e si era fermata “io…non..”
“Tranquilla” aveva risposto John in fretta
“un grazie è più che sufficiente,
l’importante è che sia tornata dal legittimo
proprietario” le aveva fatto l'occhiolino.
Lily avrebbe voluto tanto abbracciare John, ma era troppo lontano e
sinceramente, erano conversazioni troppo intime, troppo confidenziali.
Per ora andava bene così, non erano in uno sceneggiato
americano, questa era la vita vera.
“Quando potrò farmi una doccia?” aveva
chiesto lamentosa Lily per alleggerire l’atmosfera
“non ce la faccio più ad avere questa roba
addosso. Puzzo e mi sento sudicia”. Intanto si era allacciata
la catenina al collo e sentiva come la sensazione che almeno una cosa
fosse tornata al suo posto.
“Le docce sono in fondo al corridoio, non dovrebbe esserci
nessuno a quest’ora. Vai a lavarti, e manderò Mary
a portarti biancheria e vestiti puliti”. John le aveva indicato la direzione.
Lily aveva sorriso e si era incamminata verso le docce, un ambiente
bianco, sterile. Illuminato da luci calde, non era proprio accogliente,
ma per Lily andava bene lo stesso. Bastava che ci fossero acqua calda e
sapone. Per il resto, poco male.
//
Si era spogliata in fretta, mentre faceva scorrere l’acqua.
All’improvviso il suo riflesso nello specchio sopra ai lavabi
aveva attirato la sua attenzione, facendola bloccare. Era troppo magra,
le costole le si vedevano una a una, e il torace era cosparso di lividi
violacei. Dove non c’erano ematomi aveva la pelle bianca,
tendente al giallastro per il poco nutrimento e il buio perenne. Le
braccia erano minuscole, piene di lividi a forma di dita e il suo seno
quasi non si vedeva più. Le erano salite le lacrime agli
occhi, fino a quando la sua immagine le era apparsa sfocata allo
specchio. Era brutta, era orribile. Aveva la faccia tormentata da
lividi e tagli, le guance erano incavate e facevano risaltare ancora di
più gli occhi, che già erano grandi per natura.
Le labbra erano quasi bianche, screpolate, e un taglio rosso vivo
attraversava il labbro inferiore, come uno sfregio. Sembrava un alieno,
o una persona che stava per morire. C’era mancato poco,
certo. Ma la sua adesso era mera, stupida, semplicissima
fisicità.
Non
riusciva a guardare la sua immagine allo specchio.
Come avrebbe potuto un uomo volerla, prima o poi? Come avrebbe potuto
un uomo amarla sinceramente, vedere il suo corpo nudo, pieno di
cicatrici scure e reputarlo bello. Si sentiva un frutto ammaccato
caduto dall’albero, che stava marcendo al sole. Era sicura
che puzzasse anche dentro. Era brutta, era orribile. Come faceva la
gente a sorriderle? Forse per pietà. Come poteva far
interessare qualcun altro a lei, quando era guasta dentro e fuori? Come
poteva amare e farsi amare di nuovo? Come poteva pensare a una cosa
così insignificante, in quel momento? Era viva, era salva.
Ma non riusciva a farne a meno. Il suo aspetto esteriore rifletteva
esattamente come si sentiva dentro. Triste, ridotta in macerie, brutta,
dilaniata. Aveva nascosto il viso tra le mani, piena di vergogna.
“Lily?” una voce maschile, fuori dalla porta,
attutita dalla porta
“Chi è?” aveva risposto Lily, con la
voce che tremava per le lacrime, il freddo e la tristezza.
“Sono Sherlock” aveva aggiunto la voce attutita dal
legno, con tono ovvio.
“Non entrare!” aveva esclamato lei subito, nel
panico più assoluto.
“
Immagino
tu abbia chiuso la porta…o no?” aveva chiesto
perplesso.
A Lily sembrava di sì, adesso non ricordava accidenti, cosa
voleva Sherlock adesso?
“Mi pare di sì, ma tu tieni la porta
chiusa” aveva ribadito.
Silenzio.
“Ehm…sì. Ma perché, sei
nuda?”
Oh mio Dio
aveva pensato Lily, guardando il soffitto esasperata: “La
doccia non la faccio vestita sai??!”
Altro silenzio. Lily avrebbe cominciato a urlare tra
3….2….
“Comunque Mary mi ha detto di portarti i vestiti, come
facciamo?”
“Lasciali fuori dalla porta!” aveva risposto Lily,
sempre più imbarazzata e infreddolita.
“Ma potrebbero rubarli, è possibile sai? Una
volta, in un caso che seguivo…”
No. No. NO.
Lily si era precipitata verso la porta e l’aveva aperta
leggermente, facendo spuntare solo la testa, e subito dopo un braccio
nudo, facendo intravedere la curva esterna del
“seno”: “Dammi i vestiti” aveva
aperto e chiuso la mano, per enfatizzare il concetto.
Sherlock l’aveva guardata, confuso: “Ma scusa, sei
nuda, ma ce l’hai un minimo di decenza??”
Lily l’aveva guardato, sgranando gli occhi.
Sherlock continuava a guardarla, la sua domanda persa negli occhi
spalancati di Lily. Rendendosi poi conto della situazione, aveva prima
guardato per aria, poi per terra, poi di nuovo Lily, la cui faccia non
faceva presumere nulla di buono: “Oh beh sì certo,
ecco i vestiti” glieli aveva passati, poi l’aveva
guardata di nuovo e con tono saccente, guardandola dall’alto
in basso, aveva esordito “non dovresti stare così
tanto senza vestiti, sai. Fa freddo”.
Con un gemito esasperato, Lily aveva chiuso la porta in faccia a
Sherlock, non potendo più sopportare un secondo di
più quella conversazione senza senso. Lei era
piena di pudore.
Sprizzava
pudore
da tutti i suoi stramaledettissimi pori. Era talmente tanto che si
sarebbe messa un lenzuolo addosso, tipo i bambini che si travestono da
fantasmi a Halloween.
Altro silenzio, ma Lily non sentiva passi allontanarsi.
“Beh….
PREGO
COMUNQUE!!!” aveva urlato Sherlock da dietro la
porta, facendo sobbalzare Lily.
“
GRAZIE
SHERLOCK, SCUSA MA ORA VADO A FARE LA DOCCIA, O IL MIO SENSO DEL PUDORE
POTREBBE PRENDERE FREDDO!!” aveva urlato di
rimando. A quel punto aveva sentito il sospiro sdegnato di Sherlock e i
passi allontanarsi.
Lily aveva quasi scaraventato i vestiti puliti per terra, ma si era
fermata in tempo. Un uomo impossibile, veramente senza speranza. Una
persona la doccia se la fa nuda. Lui se la faceva vestito forse?
Scuotendo la testa si era finalmente diretta sotto il getto della
doccia, sospirando di sollievo e piacere, mentre si insaponava i
capelli. Preoccupata si era guardata la mano: parecchi le erano caduti
solo facendo lo shampoo.
Pensava ancora a Sherlock; ma che razza di persona. Mister Pudicizia.
Ma aveva mai visto una donna nuda? Pensava proprio di sì,
almeno lo sperava per lui. Chissà se faceva le cose che gli
uomini nudi normalmente fanno davanti allo specchio: gonfiare i
muscoli, osservare se avevano messo su pancia, fare le facce ridicole,
e altre cose sconvenienti che Lily trovava veramente stupide.
Perché pensava a Sherlock nudo? No. Lei non pensava a
Sherlock nudo, lei pensava che faceva le stesse cose che fanno tutti i
maschi. O forse no, si spogliava solamente e si infilava sotto la
doccia, sapendo già di essere perfetto, non aveva bisogno
del riflesso dello specchio per la conferma.
Perfetto poi,
aveva pensato Lily strofinandosi vigorosamente le braccia
forse piacente, ma non perfetto.
Certo era in forma, lei lo aveva visto senza cappotto e giacca e le
camicie che metteva facevano comunque risaltare un fisico asciutto,
scolpito. A volte i bottoni tiravano un pochino, perché
forse era troppo muscoloso. O forse perché era un narcisista
e si comprava le camicie più strette per fare bella figura.
A colazione aveva sempre una maglietta sdrucita e un paio di pantaloni
della tuta che non si curava di stringere in vita; pensava di
nascondere tutto con la vestaglia, ma i peli della pancia che sbucavano
dai pantaloni abbassati Lily li aveva visti eccome. Assumeva sempre
pose strutturate, eleganti, che lo facevano apparire affascinante anche
senza parlare. Mai un capello fuori posto, le mani sempre curate, mai
un filo che pendeva, un bottone allentato, le scarpe sporche o non
lucide. Ci teneva all’aspetto, forse per facilitare anche il
suo lavoro. Ecco perché all’inizio Lily aveva
pensato fosse gay. Ma poi l’aveva visto fare domande alle
testimoni donne e tirava fuori uno charme e un atteggiamento
rassicurante che le faceva diventare creta morbida tra le sue mani, e a
quel punto poteva anche farsi rivelare il loro numero di conto corrente
o la combinazione di una cassaforte.
Lily aveva pensato a tutto ciò sotto il getto caldo della
doccia, non accorgendosi del tempo che passava. Aveva aperto
all’improvviso gli occhi, vergognandosi di essersi soffermata
così tanto sui particolari di Sherlock Holmes, lo snobbone
pudico, ed era uscita dalla doccia. Mentre si asciugava davanti allo
specchio, aveva sbuffato, scocciata. Ora si sarebbe dovuta sorbire il
broncio di Sherlock. L’aveva appena salvata da una situazione
mortale e già faceva polemica? Ma che noia!!
//
Sherlock proprio non capiva Lily, proprio non ci riusciva. Era pur vero
che non aveva visto nulla, se non un braccio nudo, ma insomma! Sapeva
già che se lo avesse raccontato a John, lo avrebbe preso in
giro, accusato di esagerare come al solito e di essere misogino. Ma che
ci poteva fare se lui era così? Le
donne….perlopiù esseri volubili, senza offesa.
Erano così malleabili a volte. Lo sapeva bene lui, bastava
niente per farsi dire cose importanti. Eppure non faceva
chissà che, se n’era accorto da solo. Sorrideva un
po’, usava un tono basso di voce, qualche complimento
insincero buttato a caso e loro si aprivano come margherite a primavera
nella loro frivolezza, e il gioco era fatto. Questo non voleva dire che
lui non rispettasse il genere femminile, solo che lo trovava
così intuitivo. Quando si trattava di lavorare, era fin
troppo facile.
Lily invece era… era così pacata ma allo stesso
tempo aggressiva, e sempre pronta a rispondere a tono. Non si faceva
incantare da nulla, se le chiedevi un favore in maniera normale ed
educata era ben felice di accontentarti. Ma se provavi la lusinga, su
di lei non attaccava. Si imbarazzava con uno schiocco di dita, o
perché ci si soffermava troppo con lo sguardo su di lei,
salvo poi aprire la porta consapevole di essere nuda, anche se
c’era una lastra di legno a separarli. Bastava una sguardo
per farla balbettare, ma alla prima parola fuori posto o che non le
andava a genio, era pronta a balzare in avanti come una leonessa
inferocita. Era un vortice di contraddizioni. I suoi pensieri dovevano
rimanere puri, razionali. Ma diamine, lei gli faceva saltare i nervi
come il dottor Watson. Povero lui, aveva trovato
l’equivalente di John in gonnella.
E poi quello sguardo. Quello sguardo che le aveva lanciato da sopra la
spalla di John, poche ore prima. Quegli occhi che lo avevano tirato
fuori dalla sua zona sicura, pieni di buio ma allo stesso tempo
luminosi. Cosa volevano dirgli? Grazie, forse? La storia del cavaliere.
Sherlock aveva scosso la testa, frustrato. Quella Lily. Gli stava dando
filo da torcere, ne era consapevole. Ma era anche consapevole del fatto
che lo faceva senza accorgersene, era lo specchio del suo sentirsi a
suo agio con lui. Ogni persona ha il suo modo di porsi con le altre. E
quello di Lily era quello di esasperarlo, semplicemente. O era lui che
esasperava lei?
“
Non
c’è niente che non vada in me”
aveva pensato, come al solito.
//
Lily si era asciugata alla bell’e meglio i capelli, che si
rivoltavano verso di lei come serpi ammattite; li aveva lisciati con le
mani, ottenendo un po’ più di disciplina. Ma
sembrava comunque una pazza. Aveva le guance rosse per
l’acqua calda e per essersi strofinata troppo con la spugna.
Si era infilata i jeans, che le calavano sui fianchi. Ed erano i
più stretti che aveva; poi aveva preso quello che doveva
mettersi sopra ed era trasalita: era il maglione di Natale, quello blu
oltremare che le aveva regalato Mary. Se l’era infilato e per
poco non ricominciava a piangere. Addosso le stava largo, le maniche le
arrivavano sotto le nocche, per via delle spalle smagrite. Le stava
addosso come un palloncino sgonfio, ed era terribile. Quel maglione,
che lei amava così tanto, che aveva considerato un regalo
bellissimo, una nuova possibilità, si stava ribellando a
quello che ora era il suo corpo. Lo specchio della paura. Aveva sentito
le lacrime salirle in gola, ma le aveva ricacciate indietro: avrebbe
sorriso, nonostante tutto.
Era uscita dai bagni, mettendo i vestiti vecchi in una busta; non
sapeva se buttarli o lavarli. La felpa che le aveva dato Kaleb
l’aveva già gettata in un cassonetto per strada.
Aveva percorso il corridoio, piano, molto lentamente. Ripensava alla
sua immagine nello specchio, al maglione che sembrava un brutto
scarabocchio su di lei. Non aveva mai prestato troppa attenzione al suo
aspetto esteriore. Ma quello che aveva visto riflesso non era il suo
essere, non si era mai vista così. Forse era stata pure
peggio, ma non c’era mai stata una superficie riflettente a
sbatterglielo in faccia. Si vergognava, non voleva essere brutta.
“
Che
ragionamenti infantili” aveva pensato tra
sé, ma non riusciva a fermarli. Era arrivata davanti alla
porta della stanza, dove sentiva le voci di John, Sherlock e Mary. Entrando, si erano tutti girati contemporaneamente verso di lei. E
là Lily l’aveva visto: il lampo di paura e
sorpresa negli occhi di Mary, con un leggero accenno delle
sopracciglia. Lo aveva visto a rallentatore. Lo sguardo di John che si
era abbassato per pochi secondi, in maniera non del tutto casuale. Ma
sorridevano leggermente, per non far vedere quello che Lily aveva
chiaramente osservato. Sherlock invece l’aveva guardata dal
basso verso l’alto, scrutandola come al solito. Lily aveva
oscillato le braccia, dondolandosi sui talloni in visibile imbarazzo
esclamando: “Ed ora entrino gli scheletri
danzanti!” aveva riso forzata, alzando le braccia e
agitandole.
Mary e John avevano riso subito dopo di lei, impacciati a loro volta.
Lily si era fermata, guardando il pavimento, cercando di trattenere le
urla e le lacrime che lottavano per uscire da lei. Sherlock continuava
a guardare, guardare, guardare. Ma cosa diavolo voleva da lei? Un
rigurgito di rabbia dal sapore amaro le era salito in bocca.
Mary era avanzata verso di lei, mettendole una mano sulla spalla:
“Vuoi mangiare qualcosa, tesoro? possiamo fermarci dove vuoi,
ci sono ancora tanti posti aperti. Un bel pasto sostanzioso, che
dici?”
Sherlock aveva detto con molta calma e con un’aria
indecifrabile: “Ce ne vorranno più di uno, questo
è sicuro”
un leggero sorrisetto era apparso al lato sinistro della bocca, poi
aveva aggiunto “ma quello è lo stesso maglione che
avevi a Natale?” aveva strizzato gli occhi, dubbioso.
In quell’istante, qualcosa dentro Lily si era rotto e lei ne
aveva sentito la vibrazione, nettamente. Come un osso, come un pezzo di
legno. Qualcosa dentro di lei era andato in pezzi, in quel preciso
momento. Aveva alzato lo sguardo, gli occhi lampeggianti di lacrime.
Senza dire niente, si era avvicinata e senza pensarci aveva tirato la
mano dietro la sua testa e l’aveva fatta atterrare sulla
guancia di Sherlock, provocando un vigoroso schiocco secco.
Nella stanza aleggiava un silenzio pesante come un asciugamano bagnato.
John aveva allacciato le mani dietro la schiena e guardava per terra,
muovendo la bocca impercettibilmente. Mary si era portata le dita della
mano sinistra davanti la labbra, ed era ancora lì immobile,
lo sguardo che saettava da Lily a Sherlock e viceversa.
“Tu…” aveva cominciato Lily con voce
tremante e flebile “dimmelo…
TU ce
l’hai un maledetto cuore? Mi sono già vista. So
già che sono orribile. Non c’è altro da
aggiungere, ma te devi sempre avere l’ultima parola,
giusto?” aveva alzato la voce “proprio non ci
arrivi,
giusto?”.
Lily non voleva piangere, non per una cosa del genere. Ma non sapeva
come, non riusciva a fermare la pioggia di lacrime che le rigavano il
viso. Una vera pioggia di lacrimoni che le rotolavano lungo le guance,
che cadevano a terra facendo rumore. L’avesse detto Kaleb,
l’ avesse detto l’infermiera, l’avesse
detto Dio in persona, non le sarebbe importato. Ma Sherlock no, proprio
no. Non poteva spingersi così oltre, non ne aveva il
diritto. Non aveva il diritto di calpestare così il suo
cuore, le sue emozioni. Perché lui l’aveva
salvata, lui era il cavaliere. E non poteva, non doveva comportarsi
così. Lo guardava, mentre lui lentamente riportava la testa
alla sua posizione iniziale. Stranamente rivolgeva lo sguardo in basso,
e si era portato la mano alla guancia schiaffeggiata dove facevano
bella mostra cinque impronte di dita rosso acceso. Si massaggiava la
guancia senza dire una parola, con le sopracciglia corrugate, sempre
con lo sguardo per terra, fisso sul pavimento di finto parquet beige.
Lily si era allontanata da lui, senza proferire parola. Già
si era pentita di averlo schiaffeggiato. Lei non poteva arrogarsi il
diritto di mettergli le mani addosso. Ma era stato tutto automatico, un
grido di amarezza, tramutato in forza fisica. Ma stavolta non avrebbe
chiesto scusa subito. Forse domani, forse tra una settimana, non lo
sapeva. Ma
sicuramente
non quella sera.
Si era asciugata il viso, e si era rivolta a John e Mary:
“Effettivamente ho una bella fame da lupi. Dove si
può andare?”
Mary, risvegliata dalle parole di Lily, aveva cominciato a elencare una
miriade di posti, prendendola sottobraccio e portandola fuori dalla
stanza parlando senza sosta.
John continuava a guardare per terra, stavolta con le mani in tasca.
Dondolava piano sui talloni, come aveva fatto Lily poco prima, ma lui
non lo faceva per l’imbarazzo. Lo faceva per contenere la
rabbia. Aveva alzato il viso e lo aveva rivolto a Sherlock, che
continuava a massaggiarsi la guancia stretto nel suo cappotto, come un
pipistrello avvolto nelle sue ali rigide.
“Dovevi proprio?” erano state le prime parole di
John “non sei proprio riuscito a resistere”.
Sherlock lo aveva guardato: “Forse è meglio che
vada a casa”.
John in tre passi lo aveva raggiunto, mettendo il suo viso a pochi
centimetri da quello di Sherlock e aveva sibilato: “No, tu
verrai invece. Così potrai osservare come mangia una persona
digiuna da
giorni”.
Il suo tono non ammetteva repliche, e Sherlock lo sapeva bene.
“Chi tace acconsente” aveva mormorato John
“ma tacere non sempre è così facile,
vero?” lo aveva guardato a lungo, poi scuotendo la testa si
era avviato fuori dalla stanza, fermandosi sulla soglia, aspettandolo.
Sherlock aveva tirato su il bavero del cappotto e si era avviato verso
l’uscita insieme a John.
//
Alla fine erano andati in un fastfood, niente di particolarmente esoso
e particolare. Lily stava morendo di fame, e mentre addentava il suo
doppio hamburger, John le aveva raccomandato di mangiare piano,
sennò si sarebbe sentita male. Ma aveva troppa fame, e senza
tanta eleganza aveva azzannato il suo panino, mugolando al primo
boccone. Il cibo, che cosa straordinaria. Sherlock era seduto di fronte
a lei ma spostato di una sedia; davanti c’era Mary, e John
era accanto a lei che la guardava divertito mentre mangiava come una
bambina entusiasta. John aveva lanciato un’occhiata a
Sherlock, che continuava a guardare il tavolo con le mani incrociate,
come in preghiera. Non sapeva cosa pensare. Era arrabbiato? Si
vergognava? Cosa diavolo gli passava per la testa? La sua
capacità di moderazione pari a zero non smetteva mai di
stupire John.
Guardava Mary che parlava con Lily, mentre sorseggiava un
caffè, e si sarebbe sentito sereno se lui non se ne fosse
uscito con l’ennesima sparata da bastardo. Lily mangiava con
gusto, forse troppo veloce, forse troppo euforica per sembrare un
sentimento genuino e reale; il sorriso le era tornato in viso mentre
guardava le foto di Rose sul telefono di Mary. Poi, chissà
cosa passava per la testa pure a lei. Come si sentiva, come stava. Si
sentiva ferita, questo era ovvio. Ma poi cos’altro? Se lei
non avesse chiesto aiuto a nessuno di loro, avrebbe dovuto lavorare su
tutta questa situazione, su tutti i suoi demoni, da sola. E questo
spaventava parecchio John.
“Lily, così ti verrà il mal di stomaco,
vai piano!” aveva riso di nuovo, scacciando per un momento
quei cattivi pensieri.
“Ma è così buoooonoooo”
diceva Lily lamentandosi “dai, non fare il
guastafeste!” aveva fatto una linguaccia a John, che aveva
risposto a sua volta.
“Non dire che non ti avevo avvertito, poi”
l’aveva ammonita, sorridendo.
Sherlock sentiva tutto, e vedeva anche grazie alla sua vista
periferica. La guancia bruciava ancora, le impronte della dita erano
sfumate in un rosa chiaro, ma diavolo se bruciava. Gli aveva assestato
un ceffone a regola d’arte. Non voleva essere lì,
voleva solo andare a casa, bere un the e andare a dormire. Era John,
era sempre lui a farlo sentire così. Ma cavolo, lo sapevano
che non aveva peli sulla lingua, ancora non aveva imparato nessuno? Ma
forse c’era qualcosa di più profondo stavolta,
qualcosa che lui stranamente non era riuscito a carpire. E rifletteva
su quello in quel momento,sui modi di ferire le persone portando a
galla ricordi suoi, ricordi di altre persone, ricordi di John. Pensava,
pensava e non si fermava mai. Sembrava che gli andasse in fumo il
cervello. Sentiva le loro voci, ma non quello che dicevano, che
esprimevano. Era troppo concentrato.
“Aaaah ora mi sento molto meglio” aveva detto Lily
stiracchiandosi e portando le braccia sopra la testa “ci
voleva proprio” aveva annuito soddisfatta, massaggiandosi la
pancia con aria buffa. Mary aveva riso, seguita da John.
“Devi rimettere su peso” aveva detto John
“ starai bene presto, vedrai”.
Lily aveva abbassato lo sguardo sul tavolo, nella sua testa sprazzi del
suo corpo nudo riflessi nello specchio; aveva semplicemente annuito,
sorridendo leggermente.
Mentre uscivano dal fastfood, John le si era avvicinato e aveva detto
piano: “Vuoi dormire da noi stasera? Sai che non ci sono
assolutamente problemi” le aveva sorriso.
Lily aveva stretto piano il braccio di John: “Ti ringrazio,
ma non ce n’è bisogno. Sto bene; arrivata a Baker
Street, mi lavo i denti e vado a letto; ho bisogno di dormire un
po’”.
“Va bene, se lo vuoi tu. Noi prendiamo la macchina, tu e
Sherlock tornate in taxi”.
Lily aveva alzato gli occhi al cielo, scherzosa. John le aveva dato la
buonanotte, Mary pure e si erano divisi. Il taxi aspettava, Sherlock
già posizionato sul sedile. Lily era salita, e il tassista
aveva detto: “dove si va, signorina?”
Lily aveva guardato Sherlock per una frazione di secondo, poi aveva
riferito al tassista: “221b di Baker Street,
grazie”.
//
Il viaggio in taxi era stato silenzioso. Sia Lily che Sherlock sedevano
dalla parte opposta del sedile, ognuno a scrutare fuori dal finestrino.
Lily, attraverso il riflesso del vetro, osservava Sherlock. Il viso
poggiato su una mano, la postura rigida. Ogni volta che si fermavano a
un semaforo, guardava avanti a sé, finché non
ridiventava verde; a quel punto, tornava alla posizione iniziale. Lily
aveva guardato le sue gambe per qualche secondo sentendosi, nonostante
tutto, in colpa. Non le piaceva trattare male le persone; non le
piaceva essere irrispettosa. Guardava l’ammasso di riccioli
neri di Sherlock e si chiedeva perché, però, lo
scrupolo se lo facesse solo lei. Era la prima volta che schiaffeggiava
una persona. Aveva malmenato, e pure parecchio a causa della droga, ed
era stata a sua volta picchiata. Dagli spacciatori, dai ladri. Ma lei
di proposito non aveva mai alzato una mano su nessuno, se non per
difendersi. Ma nel momento in cui aveva schiaffeggiato Sherlock era
riuscita a pensare solo a quello, era stato uno stimolo irresistibile,
forse un modo di proteggere se stessa, e se ci pensava ancora sentiva
il bruciore sulla mano, la sensazione della pelle di Sherlock sulla
sua. Era fredda, glaciale, come l’anima che vi risiedeva
dentro. Aveva sospirato piano, e aveva pensato che chiedere scusa non
sarebbe servito. E sinceramente, non voleva neanche. Non pretendeva che
Sherlock sapesse esattamente come si sentiva, ma lui che si vantava di
dedurre tutto, era stato inopportuno su un argomento così
delicato, così fragile. Soprattutto a poche ore dal suo
salvataggio, a poche ore dalla fine dell’inferno che avevano
provato tutti quanti, non solo lei. Scuotendo la testa, era tornata a
guardare fuori dal finestrino, facendosi andare in fumo il cervello per
trovare un appiglio, una giustificazione a quello che era successo
quella sera.
Nel frattempo, erano arrivati a Baker Street e Sherlock, dopo aver
pagato di gran fretta il tassista, era sceso dalla macchina con in mano
già le chiavi di casa. Voleva sbrigarsi, voleva tornare a
casa e rinchiudersi in camera probabilmente. Voleva rifugiarsi dietro
quella porta chiusa, che era la sua mente e il suo cuore. Lily si era
sorpresa di pensarla allo stesso modo. Voleva chiudersi dentro la sua
stanza, dentro sé stessa, mettere un qualcosa di fisico e
materiale tra lei e Sherlock. Pensare a quello che era successo e a
quello che sarebbe successo, soprattutto. Saliva le scale dietro a
Sherlock, fissando l’estremità del suo cappotto
che oscillava ogni volta che saliva un gradino. Arrivati dentro casa,
aveva appeso il soprabito dietro la porta e si era diretto subito in
corridoio, verso la sua camera, senza proferire verbo. Lily era rimasta
al centro della stanza osservando bene l’appartamento, tutto
ciò che aveva lasciato e aveva ritrovato. Aveva sorriso
leggermente, sentendosi sollevata. L’odore era sempre lo
stesso: legno, polvere, e un piccolo accenno di formaldeide che
Sherlock usava per preservare i suoi esperimenti. Si era girata verso
la cucina, e il microscopio era lì. Senza vetrini, senza
niente attorno. Come se fosse stato sospeso, fermo. A quel punto, aveva
cominciato a farle male lo stomaco. Avrebbe dovuto dare retta a John,
decisamente. Man mano che il tempo passava, il dolore era sempre un
po’ più forte, così Lily si era lavata
i denti e stesa sul letto, sperando che il dolore si affievolisse un
minimo. Guardava il soffitto, e il lampadario, e sentiva le palpebre
sempre più pesanti; se fosse riuscita a dormire, forse il
dolore sarebbe passato da solo.
Siringhe. Polvere bianca
e cucchiai riscaldati; limone e poi..poi era finito tutto, bisognava
trovare i soldi. Il negozio di liquori, la crisi di astinenza, il
taglierino smussato in una mano. Le minacce, il rifiuto, la rabbia e un
sapore metallico in bocca. Il salto sul bancone,
l’atterraggio sul proprietario e poi la sua mano che sferrava
un colpo netto alla laringe troppo profondo, forse aveva preso anche le
corde vocali, non sapeva. Vedeva solo sangue e gli occhi sbarrati
dell’uomo che si teneva la gola con una mano, mentre tendeva
l’altra verso di lei. Kaleb aveva preso i soldi, gridando
guarda che hai combinato, stupida troia. Scappiamo, la polizia
starà già arrivando. E lei era coperta di sangue,
e ci era scivolata sopra, ed era scappata nel buio della notte. Poi
l’acquisto, e la droga e le botte per quel gesto
sconsiderato, la violenza. Vedeva le stelle dentro i suoi occhi; ma non
sapeva se erano quelle vere su nel cielo, o quelle nate dai colpi. Il
viso di Kaleb deformato dalla rabbia, un coltello puntato alla gola, la
prossima volta che ci esponi così io ti ammazzo, ti ammazzo
hai capito? Aveva la schiuma alla bocca, come un cane rabbioso, le
pupille piccole e nere. Non si muoveva, mentre Kaleb le iniettava il
veleno nelle vene. Adesso starai meglio, anche se non te lo
meriteresti. Schiaffo. Urlo. Urla! Urla! Non sente nessuno!!
Lily aveva spalancato gli occhi, nell’oscurità di
Baker Street, un bagno di sudore, le lenzuola attorcigliate intorno al
suo corpo. Si era seduta sul letto senza neanche accorgersene. Aveva
tirato su le ginocchia abbracciandole, appoggiando la testa sulle
braccia e gemeva piano, spaventata e tremante.
Aveva sentito un cigolio e la luce fievole del corridoio era entrata
nella sua stanza, somigliava a una lama. Aveva aperto leggermente gli
occhi e aveva riconosciuto l’ombra di Sherlock, la sua
vestaglia e i suoi ricci disordinati.
“Stavi urlando” aveva detto con tono ruvido
“incubi?”
Lily aveva annuito, senza alzare il viso dalle sue braccia. Non voleva
guardarlo, non poteva farcela ora. Quegli occhi grigi
l’avrebbero trapassata e ora non ce la faceva proprio, non
avrebbe potuto resistere a quella colata di acciaio bollente.
“Stai male?” aveva continuato a chiedere, sempre
calmo, sempre profondo, sempre Sherlock.
Di nuovo sì, con la testa. Poi un fantasma di voce, un
lamento che proveniva dalla sua gola “Ho mal di
stomaco”.
“Vuoi un the, o una camomilla? Potrebbe farti bene”
quella voce apriva il cuore di Lily in due.
“No, grazie” aveva sussurrato
“passerà da solo, ho mangiato troppo”.
La testa sempre lì,
Lily si era intimata da sola,
non
guardarlo. O i pezzi saranno troppo piccoli da raccogliere, dopo.
Un momento di silenzio, l’ombra di Sherlock immobile, la mano
appoggiata sulla maniglia della porta. Troppo silenzio, che
però faceva un baccano infernale.
“Ti chiedo scusa” aveva mormorato Sherlock
“dal più profondo del cuore”.
Lily aveva sbarrato gli occhi, il fiato sospeso. Le stava chiedendo
scusa, non poteva crederci. Sentiva formarsi un nodo alla gola, sempre
più stretto.
“E non sei orribile, Lily. Non dirlo
più” aveva aggiunto, con tono monocorde.
A quel punto il nodo si era sciolto e Lily aveva cominciato a piangere
forte, con singhiozzi sconquassanti, che le facevano tremare il corpo
da cima a piedi. Si lamentava e piangeva e singhiozzava, come non aveva
mai fatto. Era come buttare fuori tutto lo schifo, il dolore, una
specie di materia nera e viscosa che si era appiccicata al suo corpo.
Quanto buio vedeva ancora davanti a sé. Ma forse, se avesse
pianto per giorni interi così, sarebbe tornata normale. Ma
non si poteva. Non poteva. Sarebbe stato come dimenticare tutto. Era un
palliativo, ma per adesso andava bene.
Sherlock era ancora lì, immobile. Era pietrificato dalla
potenza del pianto di Lily, dal fatto di averlo scatenato con poche
parole che in quel momento reputava veramente sincere,
perché un uomo che si rispetti deve chiedere scusa quando
è necessario. E le sue gambe non si muovevano, non ci
riuscivano. Le sembrava così piccola su quel letto, un
pulcino bagnato. Quel corpo fragile che veniva scosso dai singhiozzi
come scariche elettriche. Sherlock aveva visto poche volte questo tipo
di dolore. Pochissime, anzi. E non voleva riportarle a galla. Lei non
poteva vedere la sua faccia ma era immobile anche quella,
l’espressione scolpita nei suoi tratti. Se non avesse smesso,
cosa avrebbe potuto fare? Neanche John sarebbe stato d’aiuto,
ora. O forse sì. Perché John sapeva abbracciare
le persone, sapeva circondarti le spalle con un braccio e cullarti
finché non ti addormentavi stremato. John sapeva
cos’era un contatto umano. Sherlock aveva stretto la maniglia
della porta, e voleva imporre al suo corpo di provare a toccare Lily,
ad abbracciarla, rassicurandola. Capire cosa si poteva provare a
consolare una persona, a essere mentalmente aperto per una volta sola.
Ma non si muoveva, il suo corpo rimaneva immobile. Poteva solo
assistere a quella scena di disperazione e lacrime, senza poter dire o
fare niente.
Lily sentiva la testa leggera, mentre continuava a piangere, sempre
più piano, come un giocattolo che lentamente esaurisce le
batterie. Lo stomaco la stava facendo impazzire, era come se tanti
coltelli le trafiggessero il ventre. Si era chiesta se vomitare sarebbe
stato utile, ma non riusciva a muoversi. Voleva stare lì, un
pezzo di carne tremante, finché non fosse finito tutto. La
lama di luce era ancora lì, e Sherlock anche. Era il suo
modo di consolare, quello? Continuava a non volerlo guardare in faccia.
Sarebbe stato troppo bello, troppo rigido, troppo Sherlock per lei,
ora. Non poteva guardare quel viso perfetto, senza un graffio o un
livido, con la pelle bianca e liscia e gli zigomi alti. Non poteva, non
poteva proprio.
Ma allo stesso tempo, avrebbe voluto le sue braccia intorno a lei, la
sua voce profonda nei suoi capelli, che la rassicurava. Se lei era in
questo letto, in questa casa finalmente, era merito suo e di John.
E allora perché sentiva questo tira e molla infernale dentro
la testa, come se due Lily litigassero tra di loro.
Consolami!
No, non farlo.
Abbracciami!
No, non farlo.
Guardami!
No, non farlo.
Fai qualcosa!
Non saprei. Non ci
riesco. Ho paura.
“Puoi andare Sherlock” aveva mormorato Lily
“scusami, non volevo farti preoccupare, ora sto
bene”.
Sentiva l’esitazione di Sherlock, il suo non crederle.
“Sei sicura?” aveva risposto lui, titubante.
“Sì” Lily aveva annuito, sempre con gli
occhi fissi sul materasso.
“Va bene. Hai il telefono, qualsiasi cosa mandami un sms o
vieni a cercarmi”.
Libero
arbitrio, aveva pensato.
Lily aveva sorriso impercettibilmente: “Grazie Sherlock, sul
serio”.
Un attimo di silenzio: “Di nulla” aveva concluso.
E la lama di luce era sparita.
Lily finalmente aveva tirato su la testa, gli occhi gonfi di pianto, e
il naso che colava. Aveva cercato un fazzoletto e si era asciugata il
viso come meglio poteva. Si era stesa di nuovo sul letto, le braccia
sopra la testa, lo stomaco che le faceva ancora male.
Ti chiedo scusa dal
più profondo del cuore.
E non sei orribile.
Lily aveva sospirato profondamente, sentendo il cuore più
leggero.
Forse Sherlock contava di più di quello che lei pensava. Lo
scambio di pensieri dentro la macchina, i confronti, le litigate, le
cattiverie. Erano tutte cose che formavano un unico nucleo che erano
lei e Sherlock. Un legame che nessun’altro poteva avere,
proprio perché siamo tutti diversi. Ferendola, lo aveva
indebolito. Chiedendole scusa, lo aveva rafforzato. Era
un’altalena, ma non era forse questa la natura
dell’essere umano? Intrecciare rapporti, spezzarli,
mantenerli?
Sentiva lo stomaco scaldarsi, in un moto dolce. Non poteva innamorarsi
di Sherlock; troppo pericoloso e sicuramente con un rischio pari al
99,9999999%.
Ci avrebbe pensato con lo scorrere dei giorni, con più calma
e raziocinio, ora era estremamente vulnerabile. Poteva innamorarsi
anche dell’autista del taxi che li aveva riportati a casa.
Aveva deciso di dormire, così aveva rimesso a posto il letto
e guardando le luci fuori dalla finestra, era caduta in un sonno
profondo e senza sogni.
//
Il mattino era arrivato. Troppo presto, secondo Lily. Voleva rimanere a
letto tutto il giorno, o perlomeno chiusa nella sua stanza per non
vedere Sherlock dopo la strana situazione della notte stessa.
Era sdraiata sulla schiena e fissava il soffitto bianco. La sola idea
di alzarsi e guardare Sherlock negli occhi la mandava in tachicardia.
Si sentiva imbarazzata e se provava a pensare a qualcosa da dire, la
sua mente rimaneva vuota. Non che Sherlock fosse un gran interlocutore,
ma anche un semplice “buongiorno”
l’avrebbe fatta arrossire fino alle orecchie. Si era premuta
il cuscino sul viso, sospirando. Non poteva stare in camera tutta la
giornata, e poi doveva fare pipì, merito della Coca Cola XXL
che si era scolata al fastfood.
Aveva tirato un bel respiro profondo e si era alzata dal letto, non
sapendo neanche che faccia avesse. Si era specchiata nella toletta che
aveva in camera. Il viso era gonfio, soprattutto sotto gli occhi, che
erano arrossati; ma pensava peggio. I lividi e il taglio sul labbro
erano sempre lì, ma su quello proprio non poteva farci nulla.
Si era infilata i pantaloni della tuta e una felpa. Lentamente aveva
aperto la porta, e lo scatto della serratura le era sembrato uno sparo.
Aveva chiuso gli occhi, nervosa, e aperto la porta. Sarebbe scesa al
piano di sotto e andata al bagno. Non ce la faceva più.
Mentre scendeva le scale, sentiva dei rumori impercettibili ma non
sapeva se attribuirli a una persona o ai normali scricchiolii che si
sentono dentro le case. Magari Sherlock era uscito e questo
l’avrebbe aiutata non poco. Avere l’appartamento
per sé e rilassarsi un attimo, senza il timore di incappare
nella sua presenza. Arrivata all’ingresso, si era affacciata
lentamente sul salone. I rumori erano cessati.
“Lily?” la voce di Sherlock era risuonata per tutta
la stanza. Lily aveva chiuso gli occhi, strizzandoli sconfitta. Era a
casa, e ora cosa faceva. Il cuore le batteva forte e sentiva il sangue
affluire alle guance e al viso.
“Lily, sei tu?” continuava a chiedere Sherlock.
A quel punto si era fatta coraggio e aveva fatto capolino in cucina,
mormorando: “Sono io, Sherlock. Scusa, non ti avevo
sentito”.
Lui era in cucina, seduto davanti al microscopio e la guardava. Era
nella sua “tenuta notturna”, con una tazza di the
accanto.
“Buongiorno” le aveva sorriso, timidamente
“come ti senti stamattina? Lo stomaco?”
Lily aveva trattenuto il fiato: cos’erano tutte queste
parole, di prima mattina poi. Di solito era intrattabile. Aveva le
occhiaie e Lily sperava che non fosse rimasto sveglio tutta la notte
per colpa sua.
“Meglio, grazie. Mi è passato del tutto. Mi sento
bene, grazie Sherlock” aveva accennato un sorriso, ma il
taglio sulla bocca le aveva tirato e le aveva fatto male
“ahi”
aveva mormorato, premendosi una mano sul labbro.
Sherlock continuava a guardarla e al suo lamento di dolore aveva mosso
leggermente le sopracciglia.
“La ferita ti fa male? Ma sei sicura che non ci andassero dei
punti?” si era alzato, leggero come una piuma, facendo
sventolare la vestaglia e in meno di due secondi era davanti a lei:
“fammi vedere” aveva mormorato, con voce roca.
Lily non aveva avuto il tempo di dire “non
preoccuparti” che le mani di Sherlock le avevano circondato
il viso, tenendolo fermo. Si era avvicinato, e con il pollice della
mano destra le aveva sfiorato il labbro inferiore, tirandolo
giù leggermente. Il cuore di Lily stava per esplodere. Non
si era nemmeno lavata i denti, quindi cercava di non respirare in
faccia a Sherlock. Ma tratteneva comunque il fiato, sentendosi
estremamente in imbarazzo. Quel contatto era inusuale e Lily era
sinceramente sorpresa. Ma non perché le mani di Sherlock le
sfioravano il viso, ma proprio perché una
fisicità così improvvisa l’aveva
spiazzata. Aveva gli occhi più aperti del solito, per la
sorpresa. E guardava il viso di Sherlock, la sua pelle,
l’arco superiore della bocca che si increspava leggermente
mentre le esaminava il taglio, i suoi occhi grigi che la scrutavano.
Mormorava mentre le guardava le labbra, qualcosa che non era riuscita a
carpire. Poi i suoi occhi color metallo si erano fissati nei suoi, per
un momento. Le mani erano sempre lì, ma erano fredde: un
piacevole contatto con la pelle calda di Lily, che pensava di impazzire
in quel momento, e aveva sbattuto velocemente gli occhi. Non voleva
perdersi un secondo di Sherlock Holmes, di quell’attimo di
intimità che probabilmente sarebbe stato unico.
“Guarda questo livido qui, accidenti” le aveva
sfiorato con l’altro pollice la guancia opposta, dove
sbocciava un bel livido violetto. Lily si stava auto imponendo di non
cominciare a tremare, o di chiudere gli occhi. Cercava di essere
normale, come se fosse in visita dal dottore. Come se quelle mani che
la toccavano fossero mani estranee e non quelle di Sherlock. La
guardava nuovamente, e poi un leggero sorriso era apparso
all’angolo della sua bocca: “Niente che non si
possa risolvere”. Aveva visto i suoi denti per una frazione
di secondo, fare capolino dalle sue labbra. Lei aveva annuito
leggermente: “Meno male” la voce ridotta a un
mormorio. Sherlock era diventato serio tutto a un tratto. Lily aveva
guardato la guancia dove lo aveva schiaffeggiato: la pelle era intatta,
lattea, perfetta come sempre. Ora la stava semplicemente scrutando,
senza interessarsi alle sue ferite di guerra. Era un momento diverso,
molto teso e carico di sottintesi non necessariamente romantici, solo
molto strani. Non era disagio, non era eccitazione. Semplicemente una
cosa nuova. La esaminava come si studia qualcosa di sconosciuto. Lily
cercava disperatamente qualcosa di intelligente da dire per rompere
quel silenzio assurdo, ma la sua mente era completamente bianca e non
riusciva a trovare una frase di senso compiuto. Un lampo le era passato
per la mente: e se fosse una forzatura, un gesto che secondo lui era
doveroso fare. In
quel momento magari si sentiva anche a disagio per il contatto che
stava avendo con Lily, pensando
guarda
cosa mi tocca fare, per essere definito essere umano.
E se fosse stato quello?
Lily sperava ardentemente di no, sennò quel minimo che
pensava di aver capito di Sherlock sarebbe andato in fumo, insieme a
tutto quello che John Mary e altre persone le avevano raccontato di
lui. Non era tipo da gesti spontanei, lo sapeva bene. Sembrava quasi lo
facesse per farsi perdonare ulteriormente. Ma non serviva, non serviva
assolutamente. Andare contro natura era insensato. Spersonalizzarsi per
piacere a una persona, cosa che era decisamente capitata a lei e di cui
si era pentita amaramente, era una mossa assolutamente sbagliata e lei
non voleva in nessun modo far provare agli altri una sensazione del
genere.
Poi lo squillo del telefono l’aveva tratta in salvo. Sherlock
aveva fatto scivolare via le mani dal suo viso e si era diretto in
cucina dove si trovava il cellulare.
Lily aveva ricominciato a respirare e il primo pensiero che era
riuscita ad articolare era stato “
Wow Holmes, così
uccidi la gente”.
Mentre lui parlava al telefono girando per il salotto, Lily si era
rifugiata in bagno e una volta chiusa la porta aveva sospirato
platealmente, appoggiandosi al lavandino. Aveva fissato la ceramica
bianca e sussurrato: “Accidenti Sherlock, non nascondere la tua vera
natura, torna lo stronzo che sei sempre stato, ti scongiuro”.
Con quella preghiera si era resa immediatamente conto che aveva dato
per certo il suo ragionamento di pochi minuti prima. Aveva strizzato
gli occhi, in disappunto.
Razza di stupida
frignona, guarda cos’hai combinato.
Si era guardata allo specchio e senza pensarci aveva alzato
un pugno, agitandolo rabbiosa verso la sua immagine riflessa.
Sbuffando si era lavata la faccia e data una sciacquata alla bocca.
Continuava a darsi della stupida sottovoce, poi
all’improvviso si era fermata.
Forse era il caso di parlarne con il diretto interessato.
Sì, ma come? Al diavolo, sarebbe venuto spontaneo e
buonanotte al secchio. Era uscita dal bagno, e aveva trovato Sherlock
con una tazza di the fumante in mano.
“Tieni, è per te” le aveva sorriso,
facendo rabbrividire Lily.
Un automa, un
fottutissimo automa. Sherlock robot. Aiuto.
Lily aveva sorriso tirata e aveva preso la tazza sporgendo la testa in
avanti: “Grazie, Sherlock”. Poi l’aveva
posata sul tavolo. Lui aveva seguito tutti i suoi movimenti, confuso:
“Oh, forse volevi del caffè? Dovevo chiedertelo
scus…”.
“Sherlock”
aveva esordito Lily, forse a voce un po’ troppo alta,
guardandolo fisso “Sherlock” aveva ripetuto
più piano, con voce tenera. Aveva portato le mani davanti al
viso, sfregandolo. Sospirando, le aveva abbandonate lungo il corpo,
salvo rialzarle poco dopo per afferrare i lembi della vestaglia di
Sherlock e tirandolo verso di lei, aveva poggiato la testa sul suo
sterno. Guardava il pavimento e i piedi di Sherlock, nudi come sempre.
Sentiva la tensione nel suo corpo, e aveva anche sentito la sua testa
che si era abbassata: “Ti senti bene? Stai per
svenire?”
Lily aveva cominciato a ridere di gusto: “No, io sto bene.
Sei tu che stai male. Smettila per favore.”. Sorrideva,
mentre guardava per terra “questo Sherlock non mi piace,
torna la canaglia che eri, ti preferisco così” si
era fermata per un momento, pensosa “a meno che tu non sia
inopportuno, naturalmente. Mi hai chiesto scusa ieri sera e va bene
così. Smettila di comportarti come se non fossi tu.
È stupido” aveva alzato la testa guardandolo in
maniera preoccupata, e alzando un sopracciglio aveva aggiunto
“e un pelino inquietante”.
Sherlock la guardava, confuso. Poi aveva stretto le labbra, guardato di
lato e scuotendo la testa aveva detto: “Volevo essere
gentile” aveva storto la bocca, in disappunto; “
canaglia”
aveva sussurrato.
Lily aveva riso: “Lo so, e ti ringrazio. Ma così
mi fai sentire strana, o meglio mi fai sentire come quando interroghi
qualche donnetta da strapazzo. E io non sono il tipo. So incassare, e
ne sei ben consapevole” lo aveva guardato, strafottente
“con le lusinghe non attacca, Holmes” aveva riso di
nuovo.
Sherlock aveva sgranato gli occhi, per una frazione di secondo; era lo
stesso identico ragionamento che aveva fatto la sera prima, quando
aveva portato i vestiti a Lily ai bagni del St. Barth’s. Si
sentiva un po’ spiazzato. Aveva guardato oltre la spalla di
Lily, sul tavolo del salone.
“Ora berrò il mio the, grazie” aveva
sospirato Lily, soddisfatta, liberandolo dalla sua stretta.
Sherlock si era diretto verso il tavolo afferrando un’agenda
rilegata in pelle nera. L’aveva accostata al petto, mentre
Lily lo osservava.
“Cos’è? l’agenda con i numeri
delle tue amanti?” aveva chiesto con fare complice.
Lui aveva sbuffato, sarcastico: “Figurarsi, sprecare una
così bella agenda per cose così insulse. Sono
appunti sui casi e sulle indagini, niente di che. Noiose per te,
interessanti per me. Cioè, ci sono ragionamenti talmente
complessi che…”
“Eccolo qui, il mio Sherlock” aveva sussurrato
Lily, guardandolo divertita “bentornato.”
Lui aveva alzato gli occhi al cielo: “Ecco cosa si ottiene
quando si prova a essere gentili. Si viene presi in giro! Ma non vi
sentite strani, voi tutti?”
“Per
voi
tutti intendi le persone cortesi?” aveva
chiesto Lily, soffiando sul the bollente.
“Sì esatto. Siete tutti così distratti
tra tutti i “
grazie”
e i “
prego”.
È bello non essere me. Deve essere rilassante”
aveva guardato in alto pensoso, portandosi l’angolo
dell’agenda sotto il mento.
Lily aveva sbuffato una risata: “Sì sua
maestà, una noia
terribile”
aveva continuato a bere il suo the lentamente “chi era al
telefono? Un caso?”
“No, veramente era John. Ci ha cordialmente invitati a
pranzo, dove ci saranno un paio di suoi amici
dell’università e non so chi altro. A malincuore,
ho detto sì. Ho pensato che un po’ di sana
frivolezza ti avrebbe fatto bene, dopo tutti, sai… gli
avvenimenti”
aveva mimato le virgolette con le dita.
“Beh, a noi gente frivola piace stare in gruppo e scambiarci
opinioni e storie divertenti nel nostro linguaggio
incomprensibile” aveva risposto Lily, scuotendo la testa in
maniera esagerata, alzando gli occhi al cielo.
Sherlock aveva sorriso, mettendo l’agenda sotto il braccio:
“Ci aspettano per mezzogiorno, quindi…”
aveva guardato l’orologio in cucina
“sarà meglio che ti prepari”.
Lily, aveva messo una mano sulla fronte mimando un saluto militare e
aveva detto: “Agli ordini! Vado!” e si era diretta
in bagno. Si era fermata, di botto: “comunque grazie per il
the. La nostra conversazione fa presumere che certi gesti possano
essere apprezzati anche in futuro” aveva aggiunto alzando un
sopracciglio.
Sherlock aveva soffocato una risata ironica: “Tu non hai ben
capito che con questa conversazione ti sei di nuovo arrogata il diritto
di prepararmi il the per sempre!” aveva alzato i pollici, in
segno di vittoria e con un’aria stupida sul volto
“non sei
felice?”
“Come chi ha vinto la lotteria!!” la voce di Lily
si era affievolita, mentre andava in bagno.
Rimasto solo, Sherlock aveva guardato l’agenda sporgendo le
labbra in fuori. Poi aveva guardato verso la cucina, fissando la tazza
di the di Lily, aveva avuto un flash della notte appena passata. Lily
che piangeva, scossa dai singhiozzi. Aveva strizzato leggermente gli
occhi, muovendo la testa leggermente di lato. Poi si era ricomposto ed
era andato in camera sua.
Lily, chiusa in bagno, si guardava allo specchio.
“Ti sei
cacciata in un bel guaio, cara Lily. E il problema è che non
c’è speranza. Lascia perdere, prima che faccia
troppo male”.