Dies Irae – Nobody expects the
Spanish Inquisition
*
« Dies Irae, dies illa
solvet saeclum in favilla »
« Gilbert, ricordami da
quanto tempo stiamo insieme? »
« Ehm, sei mesi circa,
no? »
« Esatto. E… stavo
pensando, non ti sembra il caso di… insomma… anche lui ha il diritto di sapere,
no? »
« Pulcino, lui chi? »
« Eh, ‘sto cazzo!
Secondo te?! »
« Oh… OH! Lui Lui? »
« Esatto. »
« E… e come intendi
fare? Non voglio morire, sono troppo magnifico, insomma!»
« Tranquillo. Ho un
piano. »
« E chi sei, Austria? »
*
«
Antonio, ti devo parlare. » Così aveva esordito Romano davanti alla soglia di
casa Carriedo non appena l’allegro spagnolo aveva fatto capolino dalla porta di
ingresso, un sorriso a quarantadue denti incastonato nel volto e il solito
sguardo raggiante. A quelle parole, però, l’espressione allegra di Spagna vacillò
e ne prese il posto una confusa, accompagnata a un “Eh?” somigliante in tutto e
per tutto a una pessima imitazione di una foca monaca. E il fatto che fosse
monaca, la foca, era quasi scontato, trattandosi di Spagna.
Antonio
– praticamente svestito, fatta eccezione per un paio di orripilanti boxer di un
arancione stinto che fecero accapponare la pelle di Italia – scosse poi la testa, decidendo saggiamente di
non farsi domande – quando si trattava di Romano, o dei fratelli Italia in
generale, era sempre bene tenere conto di quanto certi atteggiamenti potessero
sembrare illogici. L’onnipresenza del bidet nei bagni italici, tanto per dirne
una, ne era un lampante esempio; che Antonio non avesse mai capito fino in
fondo a cosa servisse quel buffo sanitario, poi, era un altro discorso.
Spagna
si riscosse da quei pensieri fuorvianti solo quando Romano non lo afferrò per
il braccio, trascinandolo quasi letteralmente in cucina e spintonandolo verso
una sedia, il tutto senza che Antonio ebbe tempo anche solo di formulare un
pensiero coerente su ciò che stesse accadendo. Si ritrovò quindi seduto al
tavolo di legno scuro con Romano che, postosi davanti a lui, lo fissava
insistentemente, sopracciglia corrugate ed un’espressione così assatanata che,
per un istante, Antonio fu tentato di afferrare il crocifisso appeso al muro e
di puntarlo contro di lui a mo’ di scudo con tanto di “Vade retro” incorporato.
«
Devo parlarti. » Ripeté di nuovo il sud Italia con voce spettrale, incrociando
le braccia. Antonio aggrottò di rimando le sopracciglia e piegò la testa di
lato come un gatto, alquanto perplesso e confuso da quel siparietto:
«
Romano, mi sto preoccupan—
«
Ho deciso di convertirmi all’Islam. »
L’espressione
di Spagna cambiò così repentinamente che Romano, per un attimo, ebbe seriamente
paura gli svenisse davanti. Come biasimarlo! Insomma, doveva essere uno shock
bello e buono per una nazione come Spagna: dopo aver faticosamente cacciato via
i musulmani dal suo territorio durante la Reconquista,
era palese che ricordi più che spiacevoli affiorassero al solo udirne il nome!
E sapere che il suo Romanito – il suo piccolo bimbo innocente, luce dei suoi
occhi, cresciuto secondo l’univoca legge del Dio cristiano ed educato secondo
la Bibbia da lui e da Vaticano in persona – volesse addirittura convertirsi ad una religione dove vigeva
la convinzione che, una volta morti, si venisse accolti da settantadue vergini
dalla pelle semitrasparente col midollo osseo in bella vista, gli aveva fatto
venire un attacco cardiaco bello e buono!
Si
abbandonò sulla sedia – e con quegli gli occhi sbarrati e fissi nel vuoto e la
bocca schiusa sembrava avesse appena
visto la Madonna apparire da un punto indefinito del soffitto. Romano continuò
a fissarlo, mordendosi il labbro inferiore a sangue perché, cazzo,
l’espressione da ebete che il suo ex boss aveva stampata in faccia doveva
assolutamente finire su Facebook! Quatto quatto, tirò fuori dalla tasca dei
pantaloni il cellulare e, in un batter d’occhio, il trauma di Spagna era finito
sui social, con allegato una frase di piccante umorismo made in Romano Vargas.
Antonio
parve resuscitare grazie al miracoloso flash che Italia del sud si era
dimenticato di disattivare: batté confusamente le palpebre ed un gorgoglio di
dubbia entità grattò contro la sua gola, come se stesse cercando in qualche
modo di spiccicare parola. Dopo interminabili minuti in cui intanto l’Italiano
aveva continuato a sputtanarlo per bene su ogni piattaforma internet esistente
e a scompisciarsi internamente dalle risate – doveva pur sempre mantenere una
certa serietà in quel momento cruciale –, finalmente Antonio ebbe la forza di
deglutire e di proferire verbo:
« D-dime que estás tomando el pelo, por favor... »*
E
a quel punto, nel vederlo pallido come un crucco e con un’espressione tale e
quale all’Urlo di Munch e sentirlo pigolare con una vocetta così tremula e
spaurita, Romano non riuscì a contenere il classico grugnito che sfugge sempre
quando si tenta di trattenere una risata. Si morsicò di nuovo il labbro, ma fu
tutto inutile: un suono singhiozzante rimbalzò fuori dalla sua gola e aumentò
di intensità alla vista di Spagna che, paralizzato sul posto, non accennava a
cambiare minimamente faccia. Riuscì a riprendersi con qualche colpo di tosse e,
quasi impietosito dall’aria bastonata di Spagna, si decise a passare alla
seconda parte del piano – che, ricordiamo a tutti, non è quello di Austria:
«
Sto scherzando, Antò! » Esclamò, sogghignando appena. Carriedo parve quasi
sciogliersi in un sospiro di sollievo e, rincuorato che l’innocenza del suo
bimbo fosse ancora in salvo, riprese subito colore:
«
Diòs, che spavento che mi hai fatto prendere! »
«
Già, la verità è che mi scopo Prussia da sei mesi, però l’importante è che non
mi converta, giusto, Antò? » Romano era furbo. Molto furbo. Sorrise sornione
quando Spagna non si scompose alle sue parole:
«
Ah, menomale, guarda! Ed io già che pensavo al peggio! » Affermò con allegria,
non rendendosi pienamente conto di ciò che Romano avesse detto. L’italiano in questione,
rapido e vittorioso, gli diede un paio di pacche sulle spalle, salutò e, come
se non fosse successo nulla, se ne andò via alla chetichella prima che Antonio
realizzasse il fattaccio.
Uscì
fuori dalla casa dello spagnolo tirando un sospirone e sorridendo fieramente:
per quella volta la sfuriata sarebbe stata rimandata!
Intanto,
ancora seduto sulla sedia di paglia in cucina, Antonio stava lentamente
elaborando l’ultima frase di Romano. Socchiuse gli occhi: c’era qualcosa che
non anda—¡Oh mierda!
«
Lui e Prussia COSA?! » Avvampò di rabbia, digrignando i denti al pensiero di
come era stato bellamente raggirato – poi da lui! Dal suo bambino! Ma come
aveva potuto fargli una cosa del genere!
Spalancò
gli occhi già iniettati di sangue e in un attimo era su per le scale, diretto
in soffitta; ah, ma di certo era stato quel bastardo di Gilbert ad obbligarlo!
Già, un vero e proprio bastardo! Prima si spaccia per migliore amico e poi cosa
fa?! Si scopa le colonie altrui! Oh, il suo Romano, il suo piccolo Romano deflorato
e seviziato da quell’albino pugnalatore di spalle! Ma la sua vendetta sarà
impietosa, il flagello divino si sarebbe schiantato dritto dritto in mezzo alla
fronte – o in mezzo alle gambe, ancora non aveva deciso per bene – di quel
lanzichenecco privo di melanina.
Giunto
in soffitta, ancora in boxer, con il volto tanto serio e tenebroso che sarebbe
riuscito a far scappare Russia in persona, non esitò ad agguantare la sua
fedele alabarda, compagna di mille avventure. Sorrise, un sorriso malefico:
Prussia non l’avrebbe passata liscia, oh no, per niente.
Perché nessuno si aspetta
l’Inquisizione spagnola.
*
Era
una giornata piuttosto noiosa e accaldata in casa Beilschmidt: Germania,
sfidando l’afa estiva e incurante del rischio di prendersi un’insolazione, era
andato a fare una passeggiata coi cani e aveva lasciato Prussia a fare la muffa
sul divano, con solo Austria – tirchio com’era, non esitava a scroccare vitto e
alloggio a spese dei due fratelli tedeschi – a fargli compagnia e a
martellargli le orecchie a colpi di note – era la quarta volta di fila che,
piantato col culo seduto al piano, ricominciava a suonare il Notturno di
Chopin, melodia che, sì, era bella e tutto, ma se ripetuta in loop riusciva a
diventare estremamente
irritante.
In
più faceva fin troppo caldo per poter solamente pensare di alzarsi dal divano
ed andare a infastidire il damerino, nonostante l’idea lo allettasse alquanto.
Sbuffò, stiracchiandosi e alzando al massimo il volume della TV – solo per
irritare il caro, vecchio Roddy – dove lampeggiavano le colorate immagini dei
dolci di Ernst Knam. Si stropicciò gli occhi, prestando improvvisamente
ascolto: chissà, magari quando lui e Romano avrebbero fatto sette mesi poteva
improvvisare una tortina di quelle piccole e graziose di cui andava tanto matto!
Certo, Romano lo avrebbe preso per il culo per almeno due settimane ma,
andiamo, quei coniglietti di zucchero erano semplicemente l’apoteosi dell’adorabilità
e già fantasticava su come decorarla – chissà, magari ci avrebbe aggiunto un
piccolo Gilbird assieme ai conigli.
Stava,
insomma, perdendosi nel suo magnifico mondo di zucchero e creaturine tenere –
mondo che, per carità, sarebbe dovuto rimanere ben segregato nella sua mente.
Solo in pochi lo avevano visto in modalità “Ommioddioquantoècarino”
e ci teneva che la cifra rimanesse invariata, sia mai che la propria magnifica
reputazione venisse incrinata da sciocchezzuole del genere.
Proprio
in quell’istante, il suono di notifica del suo cellulare lo riscosse dai suoi
rosei vaneggi: era di Romano. Lo aprì e per poco non si strozzò la saliva
all’idilliaca vista di Spagna in stato comatoso – l’immagine era accompagnata
da un messaggio: “È KO, l’Islam colpisce ancora” e Gilbert ci mancò poco che
soffocasse, perché quella frase era troppo anche per lui. Non poté però
astenersi dal prorompere in una gracchiante risata da cornacchia bruciacchiata,
così acuta e penetrante da far pigolare di terrore il povero Gilbird e farlo
svolazzare via, lontano dal suo padrone degenere – dall’altra stanza si udì una
stonatura seguita da una serie di improperi in austriaco stretto.
Si
riprese dalle risate dopo qualche minuto, senza fiato, e subito si sbrigò a
rispondere al messaggio, da bravo fidanzato quale era. Come al solito, aveva un
sorriso ebete e intenerito al tempo stesso mentre si scriveva con Romano –
chiunque dall’esterno, solo osservandolo, avrebbe potuto capire quanto quel
coglione di un albino adorasse il sud Italia.
Chiunque, tranne
Antonio.
«
¡Buenos días, mi amigo! » Una risata
acuta e agghiacciante si levò nell’aria, seguita da un frastuono pazzesco, dirompente
come non mai; polvere e calcinacci si sparsero ovunque e Gilbert, nell’udire
quella voce ben conosciuta parlare con quella
intonazione – la stessa che aveva mentre, nel lontano millecinquecento,
costruiva la sua Armada per “Detronizzare
quell’arpia e potermi finalmente legare indissolubilmente al mio querido
inglese – che rimane uno stronzo traditore ma che amo tanto” – si sentì
ripetutamente mancare.
La
cosa che, però, gli fece accapponare ancora di più la pelle non fu tanto la
consapevolezza che Antonio – sorriso alla Jack Torrance di Shining e con
addosso solo dei boxer sdruciti di un colore osceno – avesse appena sfondato il
muro con una testata da guinness, quanto il fatto che Spagna avesse addirittura
scomodato la sua alabarda. E tutti sapevano che, se era arrivato a disturbare
la cara e vecchia Dolores, voleva dire principalmente due cose: la prima era
che l’inquisitore che era in lui scalpitava per mietere eretici; la seconda era
che la povera vittima che doveva subir la sua ira era essenzialmente fottuta.
Gilbert
deglutì, desiderando ardentemente di venire risucchiato dai cuscini del divano.
Percepì distintamente il proprio sangue defluire dal suo volto, facendolo
sembrare ancora più slavato del solito, e brividi di puro terrore zampettare
lungo la sua spina dorsale. Bene, a quel punto c’erano solo due opzioni:
calmare la bestia assetata di sangue o levare rapidamente le tende e prendere
il primo volo per il Messico – scelta decisamente più sensata, considerato con
chi si aveva a che fare. Purtroppo, però, quel povero Cristo di Gilbert, oltre
ad avere un recondito lato masochista, mancava di raziocino – era, in parole
spicciole, un emerito deficiente:
«
Oh, ehm, hallo Antonio, come mai questa entrata in scena… particolare? » Il
sorriso di Prussia, in quel momento, ricordava più la smorfia di uno stitico
che altro – stille di sudore imperlavano il viso del tedesco avente il medesimo
colorito di un lenzuolo lavato con la candeggina. Spagna alzò lo sguardo su di
lui – due occhi verdi e penetranti da bimba dell’esorcista – e lo fissò,
sorridendo sornione:
«
Como hai osato… » Sibilò l’ispanico, facendo vibrare la s in un modo
innaturalmente eccessivo – tale e quale a Banderas col suo “Rrrrossssita”, pensò Gilbert, e si
dovette trattenere dallo scoppiare a ridergli in faccia quando nella sua mente
comparve uno Spagna che, sorridente, mostrava fiero le proprietà del biscottone della Mulino Bianco. Antonio
strinse l’alabarda tra le mani e le nocche sbiancarono per lo sforzo. La lama
scintillò cupa nella luce della stanza. E rise, rise Spagna, alzando l’arma
sulla testa, caricando il colpo fatale che si sarebbe abbattuto su Gilbert,
annientandolo – l’albino era paralizzato sul posto dalla paura che, perfida,
gli stringeva il cuore e gli avvelenava il sangue. Dimentico di possedere un
paio di gambe, fece l’unica cosa che gli era rimasta da fare.
Prese
un respiro profondo, il Magnifico. Gonfiò i polmoni, pronto a gettare il
classico urlo di guerra capace di destabilizzare il nemico:
«
Gilbert, vuoi abbassare il fottuto volume oppure—Cosa diamine sta accadendo qui?! »
L’urlo
da donnina di Prussia si sgonfiò subito e dalle sue labbra fuoriuscì un verso
inumano, simile al gracchiare di un’aquila ubriaca appena andata a sbattere
contro un albero.
In
tutto questo, Austria si ergeva fiero sulla soglia della camera da pranzo,
ritrovandosi davanti a una scena che aveva in sé dell’epico: a incominciare
dall’enorme buco nel muro che, ora che ci faceva caso, aveva una forma
vagamente umana, per poi passare a guardare Antonio che, in mutande e con un
filo di pancia strabordante dai boxer che lo rendeva adorabile in modo quasi
inquietante, si era cristallizzato nell’atto di sfracassare l’alabarda in
faccia a Gilbert, ed infine giungere a Gilbert, raggomitolato sul divano in una
posa da prima donna, il volto deformato nell’atto di cacciare un urlo che,
Austria ne era sicuro, avrebbe come minimo sfracassato tutti i vetri della casa.
Quell’apparizione
divina fu come manna dal cielo per la povera e candida – letteralmente –
vittima che, commossa dalla prontezza di quel damer—ehm, paladino della
giustizia altresì noto come Roderich Edelstein, non esitò a balzare con uno
scatto da centometrista verso di lui, rotolando giù dal divano e nascondendosi
in modo molto virile dietro ad Austria, il quale, con una pokerface che Lady
Gaga gli faceva un baffo, se ne stava fermo impalato, osservando il proprio ex
marito desnudo mulinare come una majorette la fida Dolores per poi piantarne il
pesante manico nel pavimento. Per Spagna era arrivato il momento di chiudere i
conti una volta per tutti. Grugnì, fissando i due con gli occhi iniettati di
sangue, e, Rod avrebbe potuto metterci la mano sul fuoco, si intravidero
distintamente due sbuffi di fumo dipartirsi dalle sue narici, a mo’ di toro
pronto a caricare.
Un
silenzio tombale calò nella stanza, interrotto dallo sbuffare di Antonio che,
era il caso di dirlo, si stava letteralmente imbufalendo. Ci mancava solo
strusciasse il piede contro il pavimento ed era un bovino fatto e finito; in quanto
alle corna, beh, quelle metaforiche ce le aveva già da secoli, considerate le
scappatelle di quelli che definiva “mariti
fedeli et casti”, aggettivi decisamente inadatti se accostati a persone del
calibro di Inghilterra e Austria.
Gilbert,
tremulo come una foglia al vento, si affacciò dalla spalla di un Roderich in
procinto di colpirsi da solo per la confusione e scelse il momento meno
opportuno per aprire la boccuccia e dargli fiato:
«
T-Tonio, se è per Romano, ecco… io pensavo che, siccome sono il tuo migliore
amico, a-avresti accettato la nostra relazio—
«
COME HAI OSATO DEFLORARE IL MIO BIMBO VIRGINEO?! » Muggì lo spagnolo,
snudando i denti bianchi e dritti, così splendenti da accecare per un attimo la
patata candeggiata – Austria, il più etero (si fa per dire) dei tre, era immune
a quegli sporchi trucchi da latin lover e perciò non fu colpito dal raggio “Mentadent-mi-fa-una-sega”
di Antonio.
Gilbert
indietreggiò, la sua magnifica vista danneggiata per sempre, ed emise un
pigolio sconsolato che non fece altro che aumentare l’ira di Carriedo che,
alabarda alla mano e testa bassa, si lanciò – letteralmente, nessuna menzogna:
saltò in stile Naruto nella sua direzione – all’inseguimento di Prussia, il
quale, gettando un gridolino da donnicciola spaurita, schizzò via per la casa:
«
Antonio, posso spiegare! »
«
COME HAI OSATO INSUDICIARE IL CANDORE DEL MIO PUPILLO, VILE ERETICO?! » Un
colpo e la lama si scagliò contro le tende, un attimo prima dove vi era il
tedesco.
«
Antonio, abbiamo la stessa religione! »
«
MENZOGNE, LO HAI MACCHIATO CON LE TUE MANACCE PRIMA DEL MATRIMONIO, BRUTTO FIGLIO DI— » E addio anche all’argenteria.
«
AUSTRIA FA QUALCOSA CAZZO! »
L’austriaco
in questione, intanto, dopo aver percepito distintamente lo spostamento d’aria
dovuto a causa di un Antonio infuriato passatogli a tre millimetri di distanza
e ripresosi dallo shock, si era lentamente voltato all’interno dell’oramai irriconoscibile
sala da pranzo, osservando con sguardo i cocci a terra e le tende lacerate
appese al lampadario. Un altro spostamento d’aria e il suo occhio attento notò
Prussia sfrecciare in scivolata proprio sotto al suo pianoforte.
Spalancò
gli occhi con orrore e un’espressione di terrore si impresse sul suo viso
quando Spagna menò l’ennesimo fendente. L’alabarda scintillò nella luce
pomeridiana, malvagia.
Il
resto accadde al rallentatore. Le pupille si restrinsero come capocchie di uno
spillo quando Dolores si abbatté impietosa sul lucido legno laccato di nero. Il
pianoforte stridette – un canto di morte – mentre schegge di ogni dimensione
impattarono tristemente il pavimento.
Un
urlo si levò in casa Beilschmidt e rimbombò e riecheggiò per tutte le stanze.
I
vetri si creparono. Spagna, che era riuscito ad agguantare Gilbert, si paralizzò
sul posto. Entrambi, raggelati da quel trillo disumano da sopranino, si volsero
lentamente verso Roderich, sul baratro della crisi isterica. Deglutirono in
sincrono e due sole parole si fecero spazio tra i loro pensieri, pregne di
significato:
Oh cazzo.
*
«
E poi, cosa è successo? » Un Germania abbrustolito dal sole, con braccia e gambe
color gambero arrosto, se ne stava seduto su una poltroncina, severo e
impietoso. Davanti a lui, ricoperti di lividi e graffi di svariate dimensioni,
sedevano Prussia, con la testa fasciata e dei tamponi nel naso, e Spagna, una bistecca
congelata premuta sulla mascella e una guancia incerottata; sdraiato sul
pavimento, distante da loro e prontamente legato con i rimasugli delle tende,
ancora rantolante e in preda alle convulsioni – con tanto di bava alla bocca –
vi era Austria nella sua versione da Terminator.
«
Ci ha sbranati. » Borbottò Antonio, tutto imbronciato, mentre occhieggiava tentato
la povera Dolores, prontamente sequestratagli da Germania prima che potesse
sfasciargli l’altra metà casa.
Il
biondo in questione prese un profondo – molto profondo – respiro, ricercando la
pazienza necessaria per non sbraitare contro a quei due perfetti idioti che si
ritrovava davanti:
«
Ora vado a farmi una doccia. » Sancì, spostando lo sguardo prima dal fratello,
poi da Antonio; « Mentre io sarò via, voi
due – e qui calcò il tono di voce – rimettete a posto questo bordello. » E
l’occhiata che lanciò loro li fece ammutolire prima ancora di aprire bocca e
protestare.
«
E se non lo facessimo…? » Azzardò Gilbert, allontanandosi per precauzione da Antonio.
A quel punto, Ludwig sfoggiò un piccolo sorriso bastardo, di quelli che
preannunciano un ricatto coi fiocchi:
«
Romano verrà a sapere tutto. E voi di certo non volete mica che si arrabbi, no?
» I due impallidirono:
«
N-no! Preferisco che sleghi Austria piuttosto! »
«
Si, si, meglio Austria che Romanito! »
Germania
si alzò, trionfante:
«
Allora pulite tutto. » Ordinò. « E
questa viene con me! » Agguantò all’ultimo l’alabarda di Antonio; « Sotto
sequestro » Asserì, per poi sparire al piano superiore. I due amici
sospirarono, rassegnati:
«
Beh, a quanto pare dovremo collaborare… » Mormorò Gilbert; « Tregua? » Porse
poi la mano verso Antonio che, diffidente, se lo squadrò da capo a piedi. Alla
fine sbuffò e gliela strinse.
«
Tregua! » Si sorrisero appena, quasi riappacificati.
E,
pian piano, le acque si calmarono e tutti vissero felici e contenti—
«
MIERDA, AUSTRIA SI È SLEGATO »
«
OH PORCA—»
…Un
paio di ossa rotte a parte.
*
« Dimmi che mi stai prendendo in giro, per favore… »
Note
dell’Autrice:
ABBIATE
PIETÀ DI UNA POVERA SCRITTRICE DEMENTE.
Allora,
parto dal fatto che l’idea mi è venuta in mente per colpa del requiem di Verdi.
Il Dies Irae (da cui ho tratto quelle due frasette in lingua arcana) è tanta
robbba, andate ad ascoltare che è bello— ma comunque, perdonatemi per questa
cagatina nosense ad alto tasso di demenzialità, ‘ché era da tempo che volevo
scriverla e solo oggi son riuscita a terminarla-
Spero
vi sia piaciuta eeee niente, se volete lasciate pure un commentino su quanto
sono tarda LOL-
Bacini,
La
Tigre Blanche
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