N.d.A. Consiglio la
lettura con questa
in
sottofondo.
il gioco
dell’acchiapparella
“
She
said, I was seven and you were nine
I
looked at you like the stars that shined
In
the sky, the pretty lights ”
Due bambini, un
maschio e una femmina, giravano
attorno senza mai staccarsi gli occhi di dosso, fronteggiandosi e
tenendo le
loro spade di legno ben sguainate l’uno contro
l’altra. Le erbe alte della
campagna solleticavano le loro gambe scoperte mentre il sole caldo di
metà
luglio tramontava, proiettando le loro ombre sul terreno. Ma nonostante
la sera
cominciasse a inoltrare, i due non si azzardavano ad abbassare le armi.
«Ti
farò mangiare la polvere» dichiarò
Courtney, più piccola d’età e
più bassa di
una spanna, eppure con una convinzione smisurata per una bambina di
sette anni.
Mirò
con forza alla sua spalla, ma lui evitò il colpo con estrema
facilità,
spostandosi di lato.
«Non
ci
conterei più di tanto, principessina»
la derise Duncan, dall’alto dei suoi nove anni, con un ghigno
stampato in
volto. «Come speri di vincere, se non riesci neanche nei tiri
più facili?»
Lei,
irritata dall’ultima affermazione, sferrò un altro
colpo alla cieca, ancora più
potente del primo. Nessuno poteva prenderla in giro. Peccato che anche
questo
venne parato, andandosi a scontrare contro l’altra spada con
un colpo secco.
Continuarono
così per un po’, con lei che cercava di colpirlo
con tutte le mosse possibili
ed inimmaginabili e lui che sghignazzava sommessamente ogni volta che
falliva.
Amava
più di qualunque altra cosa farla innervosire, solo per
vedere la sua faccia
assumere quel patetico colorito rosso e sentirla rivolgergli
qualsivoglia tipo
di insulto contro - e, molto spesso, i suoi insulti risultavano
talmente
assurdi e poco offensivi che erano ancora più esilaranti
della sua espressione.
E poi, anche se non l’avrebbe mai e
poi
mai ammesso, era così carina quando si arrabbiava.
Alzò
le
mani, incitandola a fermarsi, ma non ottenne l’effetto
sperato: Courtney,
approfittando del momento di distrazione, picchiò la sua
mano con abbastanza
forza da fargli mollare l’arma e, prima che potesse
accorgersene, era a terra,
con lei addosso e una spada di legno puntata contro il naso.
«Dì
le
tue ultime preghiere»
sussurrò, con un sorrisetto stampato in viso a dir poco
inquietante. Era così
vicina che poteva sentire il respiro irregolare uscire dalle sue labbra.
Sebbene
la situazione non fosse
esattamente dalla sua parte, Duncan non poté fare a meno di
continuare a
ridacchiare.
«Non
vale» si limitò a dire. «Stavo per
dichiarare un “cessate il fuoco”».
«Niente
scuse, avanzo di discarica» lo
liquidò lei impassibile, premendo un poco di più
la spada.
E
probabilmente sarebbe stato sconfitto
- anche quella volta -, se la cena non fosse stata pronta e non gli
fosse
venuta la brillante idea di indire una gara a chi arrivasse per primo a
casa.
Il
piacevole tepore della sera era
intriso di scalpiccio di piedi e di risate di infanti; qualche lucciola
illuminava gli alberi e il sentiero brecciato.
E loro
correvano, sempre più forti,
sempre più veloci, disposti a tutto pur di trionfare. Ogni
tanto lui gridava
«Prendimi, se ci riesci!», e lei rispondeva
«Sto arrivando». Ma, anche se arrivava,
non riusciva mai ad acchiapparlo, era troppo veloce.
E allora
continuava, aumentando un po’
di più la velocità, cercando di migliorarsi e
senza mai arrendersi, perché lo
sapeva: un giorno l’avrebbe raggiunto.
«Direi
che hai perso anche stavolta, principessa»
annunciò Duncan, superando con un salto la staccionata.
«Ti
ero praticamente dietro. Hai vinto
solo perché porti i pantaloni» ringhiò,
evitando di far impigliare la stoffa
della gonna a qualche vite dello steccato in legno.
«Certo,
come no» commentò, per poi
cambiare subito argomento. «Chissà cosa
c’è per cena».
Ma prima
che potessero fare un altro
passo, si ritrovarono il percorso sbarrato dalle loro madri, che
avevano uno
sguardo a metà tra lo sconvolto e l’accigliato.
«Cos’hai
sulle guance?» quasi urlò la
signora Nelson, strofinando via alla meno peggio alcune tracce dal viso
del
figlio, che si limitò a dire: «Pittura da
guerra».
«E
siete tutti sudati!» enfatizzò la
signora Barlow. «Andate subito a darvi una sciacquata, tutti
e due, altrimenti
niente cena».
«Ma
mamma!» esclamò Courtney, mettendo
su il broncio, col tono di qualcuno che ha da replicare; basto
un’occhiata
furente per farla zittire.
«Ma
abbiamo fame!» diede manforte
Duncan, incrociando le mani al petto.
«Sicuramente
tu non mangi, se non ti
levi quello schifo dalla faccia» gli rispose sua madre.
I due
bambini, rassegnati, si avviarono
verso casa; nel frattempo, dal barbecue poco distante, si
levò la voce gioiosa
del signor Nelson, che li fece voltare: «Finalmente siete
tornati, bricconcelli!
Dove siete stati? E soprattutto, cosa avete combinato?»
«Credo
sia quasi arrivato il momento di
fare un bel discorsetto, giovanotto» commentò il
signor Barlow, trattenendo una
risata.
Usciva
dall’ingresso con in mano un
piatto di costolette e, attraversando il vialetto, si fermò
a scompigliare i
capelli mori del bambino, che, a quel tocco, arricciò il
naso e cercò di
rimetterli nel loro usuale ordine.
Mentre i
papà scherzavano sul fatto che
loro due, crescendo, sarebbero potuti innamorarsi, le mamme sorridevano
e
ruotavano gli occhi, dicendo qualcosa - o forse la intonavano? - che
nessuno
dei due bimbi percepì. Questi comportamenti, tuttavia,
infastidirono molto
Courtney che, con una smorfia in viso, si trascinò dentro.
Ricordava
come si erano conosciuti, lei
e Duncan, circa due anni prima: i suoi genitori, che erano soliti
accogliere i
loro nuovi vicini, avevano invitato i coniugi Nelson e il loro
figlioletto,
appena arrivati nel quartiere, ad una cena - a cui ne sarebbero
conseguite
tante altre - finalizzata a conoscersi meglio. La prima frase che le
aveva
rivolto era stata «Vuoi vedere come faccio esplodere una
bottiglia di
coca-cola, usando solo delle mentine?»; lei aveva
semplicemente risposto: «Sei
un essere ripugnante». Da lì era nata la loro
amicizia.
Andavano
nel campo vicino un giorno sì
e l’altro pure, giocavano a nascondino o con le spade di
legno, oppure si
arrampicavano sino alla loro casetta sull’albero. Sebbene
bisticciassero in
continuazione, stava bene con lui.
Vedendo
che andavano così d’accordo, i
loro papà avevano cominciato a prenderli in giro con strane
supposizioni riguardo
loro due. A Duncan la cosa divertiva non poco e il più delle
volte stava al
gioco, ma lei non riusciva a tollerarlo e nemmeno a riderci su.
Era
semplice da capire: non si
sarebbero mai e poi mai messi assieme, lui non era decisamente il suo
tipo e
loro due erano solo amici. E baciare un amico era strano.
«Davvero
credono che tra noi potrà
esserci qualcosa di più di questo?»
gli chiese di colpo, mentre apriva il rubinetto del lavello e metteva
le mani
sotto l’acqua corrente.
«Forse»
rispose lui, con un ghigno,
mentre lavava via gli ultimi residui di fango. «Ma una cosa
è certa: sei una
schiappa nella corsa».
C’era
una strana luce nei suoi occhi,
uno scintillio che, col tempo, avrebbe imparato a ricollegare alle
stelle che
splendevano in cielo.
«E
tu lo sei con le armi» ribatté,
ripensando alla vittoria schiacciante di poco prima.
«Avrei
potuto batterti anche con le
mani legate dietro la schiena,» disse con una scrollata di
spalle, «solo che ho
preferito lasciarti vincere. È così che si fa,
è un gesto cortese verso chi è
più debole e più piccolo di te».
Non era
vero, non l’avrebbe battuta
comunque. Non
l’aveva mai
fatto.
“ Take me back to the house in the backyard tree
Said you'd beat me up, you were bigger than me
You never did, you never did ”
•
• •
“
And
our daddies used to joke about the two of us
They never believed we'd really fall in love ”
Courtney ricordava quanto le desse
fastidio da piccola quando suo padre faceva battute a tavola,
insinuando in
un’improbabile storia tra lei e Duncan. Si tappava le
orecchie e correva dritta
in camera, pur di non sentirlo più.
Semplicemente, la trovava un cosa
impossibile, innamorarsi del suo vicino di casa, specie per un punto
fondamentale: per portare avanti una relazione seria bisognava andare
piuttosto
d’accordo e avere almeno qualche punto in comune; loro due,
non solo erano
l’uno l’esatto opposto dell’altra, ma
finivano per battibeccare, anche per le
cose più patetiche e futili, con un’estrema
facilità. Una volta, ad esempio, se
l’era presa con lui solo perché le aveva dato
della permalosa - dimostrandogli,
tra l’altro, che aveva ragione.
Quindi, in conclusione, non avevano
alcuna chance.
E poi si ritrovò ad avere di colpo
sedici anni e a pensare che forse quella bambina si sbagliava, forse
c’era una
piccola possibilità.
Quel giorno sedevano insieme sul divano
in salotto: lui ripassava la lezione di scienze, sdraiato a pancia in
su e il
libro sospeso sulla testa; lei tentava di svolgere una complicata
espressione
di algebra, col quaderno poggiato sul bracciolo. Stavano in religioso
silenzio,
quando lui lo ruppe con una delle sue affermazioni idiote.
«Mi chiedevo,» cominciò, chiudendo il
libro e rimettendosi seduto, «tu che sai sempre tutto, sai
cosa succederebbe se
mandassimo un lupo mannaro sulla luna?»
Vedendo che scuoteva la testa, come per
autoconvincersi che non avesse veramente detto una cosa del genere, si
affrettò
ad aggiungere: «Dai, è un grande
quesito!»
«È la cosa più stupida che abbia mai
sentito» sillabò, alzando gli occhi dal foglio e
puntandoli nei suoi. «Invece
di porti certe domande
insensate, perché non pensi a ripassare per
l’interrogazione di domani?»
«Stai deviando
il discorso, quindi devo supporre che tu non lo sappia»
disse, avvicinandosi
pericolosamente al suo volto e portando una mano dietro la sua nuca.
«Stai
cadendo in basso».
E poi posò le
labbra sulle sue in un bacio delicato, accarezzandole i capelli e
attorcigliandoli attorno alle dita, mentre lei, titubante,
poggiò le mani sul
suo viso. L’unica cosa che riusciva a realizzare era che il
suo vicino di casa
la stava baciando e le piaceva da impazzire.
Di punto in
bianco, il divano del salotto di casa sua era diventato il posto
più romantico
del mondo.
La cosa più
divertente di tutta la situazione era che, alla fine, i loro
papà non ci
avevano creduto, al fatto che si erano davvero innamorati. Ci avevano
scherzato
una vita, eppure non si erano trovati pronti, quando
gliel’avevano detto.
Durante una
delle loro solite cene, proprio mentre veniva servito il dolce, Duncan
aveva
avuto la brillante idea di alzarsi e, di conseguenza, far piombare la
stanza
nel più completo silenzio. Come se fosse stata la cosa
più scontata al mondo,
aveva annunciato con la più completa nonchalance:
«Ad ogni modo, ci tenevo a
farvi sapere che io e Courtney stiamo assieme».
Servirono
esattamente tre secondi per assimilare la notizia, dopodiché
il signor Barlow
sbiancò e cominciò a boccheggiare, balbettando
parole a caso, mentre il signor
Nelson per poco non collassò, rischiando di far finire la
sua faccia nella sua
porzione di tiramisù. In tutto ciò, le mamme
scoppiarono in una fragorosa
risata, alimentata sia dalla reazione dei loro mariti, sia dalla
notizia appena
appresa: evidentemente, se lo aspettavano già da tanto tempo.
Courtney,
sebbene in quell’occasione rimase completamente attonita e,
in un certo senso,
la prese anche un poco sul personale, ripensandoci a distanza di mesi
non
poteva fare altro che riderci su.
Anche perché,
all’inizio tutto quello era così strano,
così inusuale. Erano amici da una vita
e, di punto in bianco, era cambiato tutto. L’amicizia e
l’affetto si erano
tramutati in un sentimento più profondo, più
intimo, e avevano lasciato spazio
all’amore. Ed era anche imbarazzante manifestarlo: carezze,
abbracci, baci in
pubblico.
Poi col tempo
alcune azioni erano divenute così quotidiane che ci aveva
preso l’abitudine.
Sembrava che lo fossero sempre state, in qualche modo. Come le lunghe
passeggiate
alle due di notte in mezzo alla campagna.
Quell’estate,
infatti, Duncan aveva avuto la brillante idea di prendere la macchina
di suo
padre e di guidare fino alla periferia della città, dove la
vegetazione di
estendeva a perdita d’occhio. All’inizio vi
andò da solo; successivamente, dopo
averla pregata per tre interi giorni, era riuscito a portare anche
Courtney.
E così almeno
due volte alla settimana prendevano la macchina e lasciavano la
città,
giungendo a quello che divenne il loro posto
segreto. Si toglievano le scarpe e camminavano, mano nella
mano, con l’erba
che accarezzava loro i piedi. Talvolta si sdraiavano e guardavano le
stelle in
perfetto silenzio. E bastava solo quello.
«Sei troppo
lenta, principessa».
«Questo lo
credi tu».
Quella notte di
inizio agosto, invece, avevano deciso di giocare a rincorrersi,
così quando
erano dei bambini. E, come allora, lui la provocava e lei cercava di
migliorarsi e di
acchiapparlo. E, sempre come allora, ogni volta che si avvicinava,
lui sgusciava via veloce.
«Okay, può
bastare così per oggi» annunciò Duncan,
fermandosi e afferrando Courtney per i
polsi, impedendole di schiantarsi contro di lui.
«Perché hai
capito che si era messa male per te?» domandò lei
con un sorrisetto.
«Perché
comincia a farsi tardi» rispose, scuotendo la testa.
«E poi, sinceramente, non
riuscirai mai a battere il maestro».
Courtney passò
una parte del viaggio di ritorno in silenzio, ad ammirare la cresta
verde del
suo ragazzo. Aveva quasi quattordici anni, quando aveva deciso di
tingersi il
ciuffo di quel colore. Lei aveva sempre detestato quel taglio assurdo e
più
volte gliel’aveva ricordato, eppure adesso cominciava a
piacerle.
Come
cominciavano a piacerle i piercing sparsi sul suo volto. Il primo,
quello sul
naso, l’aveva fatto a sedici anni e, nel giro di due anni, ne
erano seguiti
tanti altri. Ognuno di loro era stato causa un anno in meno da vivere
per i
genitori e di almeno una settimana di mutismo selettivo da parte sua.
Quando
incominciarono ad intravedersi le prime luci della città, si
azzardò a
proferire parola.
«Stavo pensando,»
cominciò, guardando dritto davanti a sé,
«che ho bisogno di pratica per
sconfiggere il “maestro”»
E qui si
fermò un attimo per mimare delle virgolette, mentre lui
sghignazzava. «Quindi, che
ne diresti se andiamo nel nostro posto segreto anche domani?»
«Mi ‘spiace»
disse Duncan improvvisamente serio. «Ho promesso a Gwen che
domani sarei uscito
con lei e il resto della compagnia».
Sentì
improvvisamente la rabbia ribollirle dentro.
Duncan e Gwen
si conoscevano dai tempi delle medie e subito avevano istaurato un buon
rapporto, avendo molti punti in comune. Erano diventati migliori amici
nel giro
di due settimane. Avevano anche provato ad avere una relazione in primo
superiore, ma in seguito avevano capito che si volevano bene
più come fratelli
che come fidanzati e avevano lasciato perdere.
A Courtney non
era mai particolarmente andata a genio, sarà forse per il
suo carattere duro e
scontroso, o per i vestiti da gotica, oppure perché lei la
considerava una
bambinetta viziata. Ma il motivo principale, anche se non
l’avrebbe mai
ammesso, era che andava fin troppo d’accordo con Duncan, e
questo non le andava
particolarmente giù.
All’inizio
della loro relazione, lui le aveva gentilmente chiesto di provare a
legare con
la sua migliore amica, ma aveva deciso di sorvolare quando, alla prima
uscita,
le aveva rovesciato addosso la coppa di gelato, dopo una provocazione
non
troppo velata.
Duncan si
accorse del silenzio astioso e, con molta precauzione, provò
a romperlo.
«Ho per caso
detto qualcosa di sbagliato?»
«Gwen» mormorò
lei come se si trattasse di un insulto pesante.
«Potresti
essere più chiara?»
E mezzo secondo
dopo gli stava urlando contro tutto il suo disappunto.
«Ogni volta che
ti chiedo di uscire, c’è sempre di mezzo lei! Non
ne posso più di essere messa
in secondo piano rispetto ad un cadavere ambulante!»
Duncan si fermò
a riflettere per un secondo.
«Provo ad
azzardare un’ipotesi» partì, cercando di
scegliere le parole più adeguate. «Non
è che sei, non so… gelosa di Gwen?».
Lei scoppiò in
una risatina di scherno.
«Io dovrei
essere gelosa di Gwen? Hai voglia di scherzare?» chiese con
tono isterico,
ridendogli in faccia. «Dimmi, cosa dovrei invidiare ad una
gotica pallida e con
un pessimo gusto nel vestirsi?»
In qualche modo,
quelle parole cominciarono ad urtarlo.
«Basta»
borbottò.
«Cos’è, ti dà
fastidio sentire la verità? Ti dà fastidio che io
le dia della sciattona, della
vampira e magari anche della drogata?»
Non si era mai
sentita così piena di rancore. Avvertiva un lacerante
bruciore al petto. Si era
tenuta dentro quelle cose per troppo tempo.
«Court, stai
esagerando» disse, alzando appena la voce e stringendo
più forte il volante,
fino a che le nocche non diventarono bianche.
Stava per
esplodere, se lo sentiva.
«Io esagero!»
esclamò ironica. «L’ho visto come ti
guarda, come si comporta con te quando non
ci sono. Con quel sorriso da vipera velenosa e quegli atteggiamenti da
troietta…»
Fu la goccia
che fece traboccare il vaso.
«Taci» ringhiò
furioso, facendola ammutolire di colpo. «Invece di criticare
Gwen, perché non
pensi al tuo carattere insopportabile? Lei potrà anche
essere una vipera, ma
perlomeno non è uno schifoso essere sputasentenze, o
un’acida viziatella del
cazzo, oppure una perfettina rompipalle con le manie di
perfezionismo».
Si pentì mezzo
secondo di quello che aveva detto, quando intravide dallo specchietto i
suoi
grandi occhi neri sgranarsi e riempirsi di lacrime e sentì
il singhiozzo che le
morì in gola. Aveva
rovinato tutto,
aveva sprecato l’unica possibilità che gli aveva
dato.
Nessuno aprì
bocca fino a quando Duncan non parcheggiò lungo il viale.
Dopodiché lei si
limitò a dire: «Okay, mi sembra chiaro che
preferisci lei».
E, senza
aggiungere altro, scese dall’auto e si avviò verso
casa sua.
Si sentiva
umiliata, tradita, profondamente ferita da quelle parole piene di
collera.
L’aveva perso a causa di Gwen, le aveva permesso di rovinare
la loro splendida
relazione.
Non aveva mai
sentito Duncan così distante. Era come se stessero giocando
ancora al gioco
dell’acchiapparella: lei lo rincorreva ma, più
cercava di raggiungerlo, più lui
si allontanava, facendo sì che il gioco continuasse
ininterrottamente. Ma
adesso le era chiaro che quel gioco, per quanto bello fosse stato, era
finito
per sempre: non l’avrebbe mai preso.
«Courtney,
aspetta!» le gridò dietro Duncan, attraversando il
cancelletto con un balzo.
«Che diamine
vuoi adesso?» gli chiese urlando, la voce che le
tremolò per un istante, voltandosi
di scatto e lottando contro le sue lacrime.
«Io… mi
dispiace, davvero…» cercò di dire,
grattandosi la nuca.
«Risparmiati le
scuse» lo fermò con un gesto della mano.
E, prima che
potesse scoppiare a piangere davanti a lui, percorse velocemente il
vialetto e
si richiuse la porta di casa alle spalle con un tonfo sordo.
Non provò
nemmeno a fermarla, non avrebbe risolto niente. Doveva aspettare che si
calmasse, che si sfogasse.
Era la prima
volta che loro due litigavano seriamente. Non erano mai andati
d’amore e
d’accordo, ma non erano mai arrivati a tanto, non era mai
arrivato ad apostrofarla
con termini del genere.
Era stato un
imbecille, un perfetto stronzo, e di certo non si sarebbe sorpreso, se
Courtney
avesse deciso di rompere ogni tipo di contatto con lui.
Il flusso dei
suoi pensieri fu interrotto da un tuono improvviso e, successivamente,
da
un’incresciosa pioggia.
Allora si
accomodò sotto il porticato di casa Barlow, il
più al riparo possibile. Avrebbe
aspettato la mattina e le avrebbe chiesto scusa, senza muoversi di
lì finché
non le avesse ottenute.
Chiuse gli
occhi, inconsapevole del fatto che, l’indomani, Courtney
l’avrebbe ritrovato lì
per terra, infreddolito e fradicio, e l’avrebbe fatto
entrare. E, dopo essersi
entrambi scusati, lei gli avrebbe dato il bacio più bello
che avesse mai
ricevuto.
“
Take me back to the time we had our
very first fight
The slamming of doors instead of kissing goodnight
You stayed outside till the morning light ”
•
• •
“
And you looked at me, got down on
one knee ”
Courtney
ricordava quel giorno come se fosse
ieri.
Si era appena
laureata in giurisprudenza con il massimo dei voti e, dopo la
cerimonia, Duncan
l’aveva strappata via dai parenti e da tutto il giro di baci,
abbracci e
congratulazioni. Aveva preso la macchina e aveva guidato fino al loro
posto
segreto, come quando erano due ragazzini.
«Perché siamo
qui?» gli chiese fissando la linea dell’orizzonte,
mentre il vento le
scompigliava i capelli e le rovinava l’acconciatura
impeccabile.
«Ti ricordi quando
ti ho chiesto di infiltrarti illegalmente con me a quel concerto e tu
hai
rifiutato, dicendo che era un’idea folle e
stupida?» domandò, la voce un po’
roca perché era stato in silenzio a lungo.
Lei annuì. Quella
storia era diventata ormai leggenda nel loro quartiere.
Quell’estate
uno dei gruppi preferiti del ragazzo veniva in tour in una
città a poco più di
mezz’ora da lì e la tappa era andata sold out nel
giro di poche ore. Duncan,
all’epoca quindicenne, aveva raccontato una balla colossale
ai suoi genitori ed
era salito sul primo autobus diretto in città, intenzionato
ad andare al
concerto senza però avere il biglietto.
Una volta
davanti al palazzetto, aveva oltrepassato la recinsione facilmente e
aveva
cominciato a correre verso il parterre, seminando la guardia che gli
stava alle
calcagna. Si era goduto lo spettacolo, ma era stato beccato fuori
dall’ingresso.
Verso
mezzanotte e mezza il vicinato fu svegliato da una macchina della
polizia e si
riversò in strada, dove trovarono il figlio dei Nelson
affiancato da due sbirri,
impegnati a raccontare ciò che era successo ai suoi genitori
sotto shock. Una
delle cose che nessuno dei presenti potrà mai dimenticare fu
la successiva
sgridata colossale da parte del padre.
«Bene, perché
ho qualcosa di ancora più folle e stupido da
proporti» annunciò, tormentando
con le dita della mano un piccolo rigonfiamento
all’altezza della tasca dei
pantaloni. Sembrava vagamente nervoso. Fece un respiro profondo e
farfugliò: «Che
ne dici di sposarmi?».
Le ci volle un
attimo per realizzare ciò che avesse detto e, in un primo
momento, pensò di
essersi sbagliata, di aver sentito male; ma, quando si girò
verso di lui per
domandare spiegazioni, lo trovò inginocchiato ai suoi piedi
che stringeva una
scatoletta di velluto blu, con dentro uno splendido anello
d’argento con un
diamantino incastonato.
E allora capì
che quello che aveva sentito non era frutto della sua immaginazione,
che non
era uno scherzo di pessimo gusto, che Duncan voleva sul serio passare
tutta la
sua vita con lei.
Si lasciò
sfuggire un gridolino di gioia e si gettò contro di lui, con
una forza tale da
farlo cadere sull’erba. E, a giudicare da come lo stava
baciando, anche lei
voleva passare tutta la vita con lui.
Nei mesi
successivi alla proposta, a Courtney parve di vivere dentro ad un
bellissimo
sogno e temeva che, da un momento all’altro, tutto potesse
finire e che lei si
sarebbe risvegliata nel suo letto. Ma non era così, era
tutto reale e lei se ne
rese conto solo il giorno del suo matrimonio, quando entrò
in chiesa con il suo
lungo abito bianco a braccetto con suo padre e tutti si girarono a
guardarla
con un’espressione radiosa in volto.
Tra alcune
vecchie amiche del liceo, scorse anche il caschetto nero e il sorriso
di Gwen,
mano nella mano con il suo fidanzato storico Trent. Le sorrise di
rimando.
Negli anni, le due avevano imparato ad andare d’accordo e,
sorprendentemente,
erano diventate anche buone amiche.
In prima fila,
le loro mamme piangevano di gioia e il signor Nelson, che ogni tanto
accarezzava la spalla della moglie per confortarla, le
strizzò l’occhio.
Suo padre le
diede un bacio sulla fronte e, lasciando il suo braccio, si
andò a sedere
vicino a sua madre, passandole un braccio dietro la schiena.
Salendo
sull’altare, intercettò Bridgette, la sua
testimone, che la salutava con un
sorriso a trentadue denti stampato in faccia così bello che
non poté non
ricambiare.
E poi c’era
lui, il suo sposo: la cresta verde era sparita sotto la tintura nera,
ma i
piercing, anche se ad occhio sembravano di meno, erano sempre
lì. Aveva
un’espressione inebetita e al contempo gioiosa. E doveva
ammettere che in
smoking era da mozzare il fiato.
Non appena lo
raggiunse, gli rivolse un delizioso sorriso timido e gli
afferrò la mano.
E nessuno
sapeva che quel gesto voleva dire tanto. Sanciva la sua vittoria a quel
gioco
dell’acchiapparella che si protendeva insistentemente da
quando erano bambini.
Se l’era ripromesso, negl’anni: lo avrebbe preso,
fosse stata anche l’ultima
cosa che avrebbe fatto nella vita. E ora era certa di avercela fatta.
La cerimonia
procedette velocemente e Courtney era talmente stordita dalla
felicità che,
quando riuscì a darsi un contegno, era già
arrivato il momento tanto atteso.
«Vuoi tu,
Duncan Nelson, prendere come sposa la qui presente Courtney
Barlow?» chiese la
voce leziosa del sacerdote.
«Dannazione,
certo che lo voglio!» esclamò lui, riuscendo a
strapparle una piccola risatina,
che mascherò prontamente con un colpo di tosse.
«E vuoi tu,»
continuò leggermente spazientito, alzando la voce,
«Courtney Barlow, prendere
come sposo il qui presente Duncan Nelson?».
Lei si voltò in
sua direzione e incrociò il suo sguardo, quei meravigliosi
occhi azzurri.
Brillavano come le stelle che illuminavano la notte nel loro posto
segreto.
E, senza che se
ne rese conto, le sue labbra si incurvarono nell'ennesimo sorriso. Ora
che l’aveva
finalmente catturato, di certo non l’avrebbe lasciato andare
così facilmente.
«Sì, lo voglio».
“
Take me back to the time when we walked down
the aisle
Our
whole town came and our mamas cried
You said «I do» and I did too
”
Taylor
Swift, Mary’s Song (Oh My My My)
Angolo
dell’autrice
Finalmente
sono
riuscita a pubblicare. Se non avessi avuto problemi di connessione,
l’avrei
fatto molto prima.
Ultimamente
tutto ciò che pubblico o è una song-fic, o un
vecchio ritrovamento di qualche
anno fa. In questo caso, questa one shot è entrambe le cose.
L’ho iniziata
ad aprile dello scorso anno, in un periodo in cui ero ossessionata
dalla
canzone a cui si ispira il racconto, con l’intenzione di
scrivere qualcosa di
romantico su questi due e l’ho conclusa adesso,
perché mi dispiaceva lasciarla
incompleta. E perché meditavo da tempo di scrivere una
song-fic con una canzone
di Taylor Swift.
All’inizio,
avevo progettato di scrivere anche un’ultima parte, in cui
erano dei vecchietti
con prole e nipoti al seguito, riprendendo così
l’ultima strofa del brano, ma
alla fine ho lasciato perdere, c'entrando poco con l’argomento
cardine della fan
fiction.
A proposito,
non chiedetemi il perché del gioco
dell’acchiapparella, so solo che in quel
periodo ero ossessionata da figure retoriche di ogni genere. Ho cercato
di
rendere il paragone il più sensato e meno fuori luogo
possibile.
Oh, un piccolo aneddoto
prima di chiudere: ho letto che il nome di questo gioco cambia di
regione in
regione; mi piacerebbe sapere come viene chiamato nella vostra zona -
ad
esempio, da noi è acchiapparello.
Spero vi
piaccia e che vi faccia intenerire almeno un po’.
Vi mando un
grosso abbraccio e ci vediamo presto.
Hayle xx
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