*Mia: pron. Maia; Bea: pron. Biia
Memories
of a Toxicdoll and of a Broken Dream
Mi chiamo Mia* e vivo in una tranquilla e composta cittadina
irlandese vicino Dublino.
La mia realtà quotidiana rispecchia quella dell’esistenza
della classica teenager con alle spalle una famiglia perfetta: papà, mamma, un
fratello maggiore. Ed io, la figlia minore.
Se ora doveste prendermi in esame, scoprireste in me una
persona completamente nella media. Tutto di me è nella media.
Voti scolastici nella media, quasi tutte B; altezza nella
media, 1.65 m; peso nella media: 58 kg.
Potrei andare avanti per ore.
Esteticamente ho un fisico ben proporzionato, il mio viso è
quadrato, con zigomi e mascella molto pronunciati, naso abbastanza dritto e
minuto, labbra sottili, occhi blu scuro, sopracciglia leggermente arcuate e
fronte bassa. Ho i capelli biondo grano, né ricci né lisci, sottili, sempre
acconciati in una lunga treccia come prevede l’uniforme scolastica.
Mi vesto in una maniera…nella media: né appariscente, né
sciatta; al mattino indosso la divisa e al pomeriggio se devo uscire metto
jeans e maglietta bianca. Un classico.
Il mio trucco consiste in una passata di rimmel, un
leggerissimo strato di ombretto giallo pallido, poco lucidalabbra trasparente e
due generose spolverate di fard sull’arancio sotto gli zigomi per evidenziarli.
Vado in una scuola privata gestita dalle suore e in famiglia
sono tutti profondamente credenti.
E oggi, come tutti gli altri giorni, scendo dall’autobus per
andare a scuola con il lettore mp3 nelle orecchie ascoltando i miei idoli:
Carrie Underwood, Hilary Duff, Christina Aguilera e JoJo.
Arrivo in classe con i miei soliti 5 minuti di anticipo e
vado a sedermi al mio posto in fondo all’aula accanto alla finestra. Preparo
ordinatamente i libri sul banco e saluto la mia migliore amica, Beatrix, detta Bea*.
“Hey, Bea, alla fine ti ha telefonato?”
“Sì, usciamo Sabato pomeriggio. Posso dire a mia madre che
sono con te?”
“Certo, non c’è problema!”
Ormai è sempre la stessa storia da cinque anni: lei abborda
i ragazzi e quando ha bisogno di essere coperta mi chiama e mi chiede questi
piccoli favori. Io devo farlo: lei è la mia unica amica ed è piuttosto
popolare, perciò non voglio trovarmela contro.
Per me sarebbe la fine.
E poi rivelerebbe a tutti il mio segreto di sempre…non posso
permettermelo assolutamente.
Suor Gemma entra e batte due volte le mani per richiamare
l’attenzione, poi quando ci siamo tutti seduti ai nostri posti e siamo
composti, prende la parola.
“Miei giovani figlioli, gioite e lodate il signore con canti
e pensieri di gloria oggi che una nuova studentessa si unisce alla nostra
comunità. Salutate ed accogliete con tenerezza Shelly Thucker.”
Nel frangente in cui entra in classe le nostre venti facce
si contorcono ognuna in una smorfia di disappunto o di schifo diversa: con quel
nome ci si aspetta la sorellina più piccola di Barbie e invece ci ritroviamo
davanti un incrocio malriuscito tra Amy Winehouse e Kelly Osbourne.
Una ragazza imbronciata che mastica rumorosamente una gomma
da masticare facendo palloncini e conciata alla ben’e meglio con la nostra
uniforme.
Ha la camicia mezza aperta e il maglioncino legato in vita,
un piercing all’ombelico si fa vedere
con prepotenza sulla sua pancina piatta, la gonna corta è calzata a vita
bassissima mostrando un paio di mutande nere, le sue gambe muscolose, lunghe e
magre percorrono con incedere sicuro lo
spazio che separa la cattedra verso il banco accanto al mio. Ai piedi ha un
paio di anfibi neri e dei calzettoni raggomitolati a metà polpaccio.
Lascia cadere pesantemente la sua borsa piena di borchie e
di scritte per terra, poi attira a sé la sedia con un veloce movimento del
piede e si siede accanto a me scomposta.
La fisso sconvolta mentre la lezione inizia.
“Che cosa vuoi, paperella?”
“Da te proprio niente.”
“Io invece voglio sapere come ti chiami, Paperina
Perfettina.”
“Mia. Contenta?”
“Sì.”
Schiocca la gomma da masticare, poi apre un quadernetto nero
e comincia a disegnare, impugnando la penna con la sinistra. Pure mancina,
oltre che a dir poco ributtante.
Occhi castani bardati di ombretto nero e eyeliner, ciglia
lunghissime piene di mascara, colorito bianco cadaverico, labbra rosa
pallidissimo, capelli corti, acconciati ad arte con della lacca in un caschetto
arruffato e disordinato, neri, dai quali sfugge qualche ciocca rosa acceso.
In una parola, inguardabile.
Se la vedesse mia madre…Ma mia madre dovrebbe parlare poco
visto ciò che ha fatto a me.
La figlia indesiderata, concepita in una notte di follie con
il suo ex ragazzo delle superiori, rincontrato per caso. Già, peccato che lui
nel frattempo ha fatto pagare i suoi errori a me e a mia madre.
Grazie a lui, io ora sono in queste condizioni, mi devo
nascondere, mi devo sentire tagliata fuori, mi devo vergognare di colpe non mie
che comunque mi macchiano e che mi precludono a certe cose…Mi precludono ad
amare.
E anche oggi, come ogni giorno, mi accingo a tornare a casa
dopo scuola con il mio solito senso di pesantezza addosso, la sensazione della
mia colpa.
La mia colpa di nome HIV.