E i migliori se ne
vanno...
“Tom…
ho fatto un brutto sogno.”
Mi
sveglio sentendo le sue
manine sul braccio, che mi scuotono. Lo guardo a gattoni accanto a me,
sbadiglio e poi gli sorrido.
“Davvero?
Tanto brutto? Tanto brutto da svegliarmi
alle…” guardo veloce l’ora sul comodino,
“Alle quattro di notte?” scherzo, per
lui mi alzerei a qualsiasi ora della notte. “Vuoi un
bicchiere di latte?”
Lui
annuisce con la testa, sorridendomi. Che bel sorriso, tutto sua madre.
Mi alzo
e lo prendo in braccio, tenendolo forte, rassicurandolo,
rassicurandomi,
proteggendomi da quel ricordo ormai lontano, ma che ferisce ancora.
Andiamo
in cucina. Apro il frigo e gli verso il latte nel
bicchiere. Glielo do e lui beve. Va a finire come sempre che ne beve
metà
neanche, quindi devo finirlo io. Lo guardo come per dire:
“Siamo alle solite…”,
poi butto giù il latte da lui avanzato. Ridacchia, cercando
di non farsi
vedere, coprendosi la bocca con la mano. Quando finisco di bere, metto
il
bicchiere nel lavandino e mi siedo sul divano con lui tra le braccia.
Si accoccola
e accarezzando un mio rasta si addormenta. Lo guardo dormire, sento il
suo
respiro e il suo battito regolare.
Decido di alzarmi e di portarlo di nuovo in
camera. Sorrido passando davanti alla camera di Bill, al buio. Lo vedo
tutto
storto nel letto, le coperte che toccano per terra, mentre la pioggia
picchietta contro il vetro della finestra, qualche lampo attraversa
l’oscurità,
per poi far ritornare il buio della notte. Passo oltre e metto Daniel
nel mio
letto, dov’era prima, gli rimbocco le coperte e poi mi siedo
nella mia parte
del letto. Mi prendo il viso tra le mani, poi lo guardo ancora dormire,
il suo
petto che si alza e si abbassa tranquillo, sereno. Guardo fuori dalla
finestra
e i ricordi mi travolgono, mi trafiggono il cuore ancora, ancora una
volta.
Anche quella notte pioveva.
Eravamo
tutti nel nostro camerino, dopo un concerto, come
sempre. Solo che, mentre parlavamo come sempre, ancora con
l’adrenalina a
mille, la porta venne sbattuta sulla parete e tre tizi con
passamontagna e
pistole in mano entrarono facendoci spaventare.
“Mani
in alto, e che nessuno gridi.”
Il tizio
che aveva
parlato rimase fermo in mezzo alla porta e con un cenno del capo diede
il via
agli altri due, che corsero subito davanti a me e a Bill. A noi due.
Inseparabili come sempre. In quel momento avrei dato di tutto
perché non
fossimo così inseparabili, così uniti dal
destino. Destino che a volte poteva
essere maledettamente stronzo.
“Non
muovetevi” disse ancora il tizio fermo alla porta,
quello che dirigeva il tutto, a Gustav e Georg.
Sentii
qualcosa di freddo alla
tempia, un brivido mi percorse lungo tutta la schiena, facendomi
guardare
subito verso Bill. Anche lui mi stava guardando, terrorizzato con la
pistola
puntata alla tempia. Io annuii con il capo, cercando di rassicurarlo,
di dirgli
che sarebbe andato tutto bene.
Il tizio
che mi teneva fermo aveva una presa
forte, quasi non mi faceva respirare con il braccio che avevo intorno
alla
gola. Guardai anche Gustav, poi Georg. Nei loro occhi si leggeva
chiaramente la
paura. Ma anche io ne avevo, e tanta.
Mi
sentii trascinare indietro dal tizio,
mentre il capo diceva: “Non vi preoccupate per i vostri
amici, se farete ciò
che vi diremo non si faranno nulla. Ma se non sarà
così…” si passò il pollice
intorno alla gola. Io mi sentii mancare l’aria, il tizio
aveva stretto ancora
intorno al collo.
“Ci
faremo vivi noi, ma vi ricordo che se non farete i bravi…
potete anche scordarvi di rivedere i vostri amichetti, ok?”
Indietreggiò non
abbassando mai la guardia, tenendo la pistola puntata.
Indicò ai due di andare,
che li avrebbe protetti lui.
I tizi
ci strattonarono e ci fecero camminare fino
a fuori dall’arena, da un’uscita secondaria. Mentre
attraversavamo i corridoi,
vidimo tutte le guardie, le persone che c’erano
lì, anche per le semplici
pulizie, tutte a terra, addormentate. Si sentiva ancora
l’odore del gas nell’aria.
Ecco come hanno fatto ad
arrivare fino a qui, ‘sti bastardi…
pensai.
Non
potevo
smettere di guardare Bill ogni volta che potevo, per vedere se stava
bene, se
quel tizio lo trattasse male. No, il tizio sembrava meno robusto di
quello che
avevo io. Forse Bill se la passava meglio di me.
Non mi
ero nemmeno accorto che pioveva. Me ne accorsi appena
usciti dall’arena, sbucati in un vicolo buio. Pioveva,
pioveva forte. Gocce
grosse che colpivano, che mi bagnavano.
Possibile che ancora
nessuno sia venuto qui? Già, quando
Gustav e Georg saranno usciti dal camerino avranno visto anche loro la
strage
che hanno fatto ‘sti stronzi con il sonnifero. Ma porca
troia…
Ci
scaraventarono
sul furgone posteggiato lì di fronte, già pronto.
Nulla era improvvisato. Il
sonnifero, il furgone… Tutto era stato premeditato in
precedenza. Chissà quanto
tempo prima. Ore, giorni, mesi… E tutto questo
perché?
Guardai
Bill mentre mi
legavano i polsi con una corda, che quasi me li segò da
quanto il tizio aveva
stretto forte. Aveva gli occhi lucidi, era spaventato da morire.
Ho paura
anch’io, fratellino.
“E
ora andiamo a farci un bel giretto, eh?” disse il
capo.
Erano
tutti e tre davanti, noi dietro. Quando partimmo, sentii le ruote
girare
sotto di noi e il metallo vibrare. Mi spinsi verso Bill, mi misi
appoggiato
alla fiancata in metallo accanto a lui.
“Come
va?” gli chiesi sottovoce. Era
tutto bagnato, i capelli che gocciolavano sulle spalle, il trucco
sbavato sotto
agli occhi.
“Come
credi che vada?” mi rispose, sull’orlo del
pianto.
“No,
Bill,
non piangere, ti prego.”
Si mise
con la faccia tra la mia spalla e il mio
collo, soffocando i singhiozzi nella mia felpa. Lo sentivo tremare al
mio
fianco, e mi sarebbe piaciuto poterlo abbracciare, stringerlo forte, ma
tutto
questo non era possibile. Avevamo entrambi i polsi legati, che facevano
male.
Ma il dolore non era niente in confronto alla paura che avevamo.
I tre
davanti non parlavano, stavano in silenzio. Era tutto
così preparato che non avevano bisogno di chiedersi niente.
Bill aveva smesso
di piangere, le righe tracciate dalle lacrime sulle sue guance
però erano
rimaste, si erano trascinate dietro anche un po’ di
matita.
“Tomi
ho paura…”
tremolò, stringendosi di più al mio
fianco.
“Anch’io,
anch’io.”
Cazzo. Cazzo e ora? Che
si fa? Dove ci portano? Cosa
vogliono da noi? Perché noi? Cos’hanno in mente?
Il
furgone si fermò, io e Bill cercammo subito di guardare
fuori dalla finestrella che ci divideva dai tre malviventi, ma non ci
riuscimmo. Sentimmo due scendere, il capo e uno dei complici.
L’altro era
rimasto nel furgone per partire subito dopo. Dopo circa due minuti, la
portiera
in fondo al furgone si aprì di colpo e il tizio grosso
lanciò dentro un’altra
persona. Le porte si chiusero e i due tizi ritornarono seduti ai loro
posti,
non parlando. La persona che avevano lanciato dentro era una ragazza,
castana,
con i capelli raccolti in una coda, gli occhi scuri.
“Avete
visto? Ho pensato di portarvi un po’ di compagnia, se
magari vi sentiste soli. E poi non dite che non sono bravo,
eh.”
Crede di essere
spiritoso? Stronzo. Che vuoi da noi?
La
ragazza si tirò su a fatica e si appoggiò sulla
fiancata
di fronte a noi, chiudendo gli occhi e respirando profondamente. Era
anche lei
tutta bagnata e le si vedeva il reggiseno nero sotto la camicetta
azzurra che
indossava, sotto una giacca blu slacciata, coordinata alla gonna lunga
fino
alle ginocchia. Chiuse le gambe e le tenne di lato.
“Tutto
bene?” le chiesi. Lei
aprì gli occhi e ci guardò.
“Si,
più o meno. Che ci fate qui?”
“Penso
per il tuo stesso motivo. Comunque io mi chiamo Tom,
lui è Bill, mio fratello.”
“Piacere,
Kiara. Vorrei stringervi la mano, ma… non
possiamo…” indicò i suoi polsi legati
davanti al viso. Al contrario di noi, lei
le aveva legate davanti, invece che dietro la schiena come
noi.
“Kiara,
con la
‘K’?”
“Si,
Kiara con la ‘K’.”
Aveva
davvero un bel sorriso. Riuscì
a strapparne uno anche a me, anche in una situazione come quella.
“Ma…
Bill e Tom… dei Tokio Hotel?” chiese.
“Si
noi.”
“Ahhhh…
ecco perché mi sembrava di avervi già visti da
qualche parte!”
“Si,
e se non stai zitta non li vedrai più. Chiaro?”
disse
il capo da davanti, abbastanza innervosito.
“No,
io mi chiamo Kiara, con la
‘K’, non ‘chiaro’. Mamma non ti
ha insegnato un po’ di educazione?” rispose lei
di rimando, alzando la voce.
Temetti
che ci facesse fuori, ma non successe.
Guardai Kiara tutta soddisfatta.
Che forte… Bel
tipo la ragazza.
“Quanti
anni hai?” le chiesi.
“Ventitrè.”
“Ah,
wow… Ne dimostri di meno.”
“Lo
prendo come un complimento. Grazie.”
Bill
sembrava muto,
non spiccicava una parola. Forse pensava già al peggio,
aveva troppa paura. Mi
strinsi più a lui, cercando di dargli forza.
“Spaventato?”
chiese Kiara, guardando Bill. Lui annuì
impercettibilmente con la testa.
“Anch’io”
disse, facendo scomparire il suo
sorriso.
Si
strinse le gambe al petto e si guardò i polsi legati.
Avvicinò la corda
alla bocca e cercò di tagliarla con i denti, ma il nodo era
troppo stretto, non
ce la faceva. Così mi guardò e sorrise, anche se
dietro quel sorriso, quel
tentativo di stare tranquilla, si nascondeva la paura che avevamo tutti
quanti,
chi la faceva vedere di più, chi di meno.
“Ci
dite dove stiamo andando?”chiese Kiara, dopo troppo
tempo chiusi lì dentro, troppo tempo in viaggio, sembrava
passata un’eternità.
“Andiamo
in un bel posticino” rispose il capo.
Lo
trovai odioso, forse tanto
quanto lo trovò Kiara, che digrignò i denti e poi
sbuffò.
“Che
pensate di
farci? Di chiedere un bel riscatto e poi di ammazzarci comunque, oppure
siete
buoni e dopo il riscatto ci liberate? Oppure ci terrete segregati per
il resto
dei nostri giorni, torturandoci per divertimento?”
Sentii
Bill tremare di più
al mio fianco, chiudendo gli occhi.
“Stai
zitta ragazzina. Stai zitta” rispose
duro il capo.
“Perché?
Perché fate questo? C’è un
motivo?” sembrava più
ragionevole ora, dolce.
“Non capiresti” le rispose lui schivo.
“Che
ne sai,
forse si. Prova.”
“Ti
ho detto di stare zitta!”
Chiusi
gli occhi e mi strinsi
a Bill. Li riaprii e vidi Kiara seria, colpita a fondo. La guardai in
silenzio,
rapito dalla sua bellezza. Era davvero bella, nel fiore dei suoi anni.
Magari
la sua vita sarebbe finita di lì a poco, come la nostra,
chissà. Ma, se proprio
sarebbe dovuta finire, sarei stato felice di aver passato le ultime ore
della
mia vita con una ragazza così bella, così piena
di vita, allegra anche in una
situazione come quella.
“Devo
andare in bagno” disse ancora Kiara, sbuffando.
“Te
la
tieni.”
“E
se non ce la facessi più?”
Il capo
si girò e la guardò
dalla finestrella. Rimase un attimo a riflettere, guardandola, poi si
girò
verso i complici e disse: “Ok, tra un po’ ci
fermiamo.”
Kiara
nascose un
sorriso mordendosi il labbro. Si tirò sulle ginocchia e
barcollò verso di noi.
Si mise accanto a me e mi fece girare di schiena. Iniziò a
cercare di
sciogliermi i nodi ai polsi.
“Ascolta…”
mi sussurrò all’orecchio, “Abbiamo poco
tempo. Semmai dovessi riuscire a slegarti sto cazzo di nodo…
appena aprono le
porte tu li prendi di sorpresa e salti giù con Bill, ok? Non
guardatevi
indietro, non pensate a me, me la caverò. Ok, siamo
d’accordo?”
Bella,
allegra
e intelligente. Fino ad allora era perfetta.
“No,
ma che sei matta? Non ti
lasciamo qui!” le sussurrai io.
“Ma
sei matto tu a non sfruttare questa
occasione. Non si fermeranno più dopo, questa è
l’unica possibilità che avete.
Lo capisci?”
Troppo
tardi, cioè troppo presto si erano fermati.
“Merda…”
disse
lei, affrettandosi a cercare di sciogliermi i polsi.
Non ce
la fece, i malviventi
aprirono le porte e la beccarono in flagrante.
“Cosa
stai facendo, puttana?!”
La
presero in due e la scaraventarono dall’altra parte del
furgone. Il capo la
tenne ferma per un braccio e con l’altra mano la
schiaffeggiò in viso più
volte.
“No,
lasciala stare!” gridai io, ma era come se non mi
sentisse.
Notai
il sangue sotto le unghie di Kiara, da quanto si era sforzata per
sciogliere il
nodo della corda che mi teneva uniti i polsi. E mi sentii
maledettamente in
colpa quando la vidi con le guance rosse, quando finalmente il capo si
stancò
di prenderla a schiaffi. Kiara si asciugò del sangue
uscitole dal labbro con il
dorso della mano, piangendo dalla rabbia.
I tre
erano tutti giù dal furgone,
sotto la pioggia, davanti a noi che ci controllavano e decidevano sul
da farsi,
mentre il capo si fumava una sigaretta coprendola con la mano. Guardai
Bill al
mio fianco, praticamente paralizzato. Kiara si asciugò le
lacrime sul viso e
tirò su con il naso.
“Tutto
ok?” le chiesi. Lei annuì con la testa, cercando
di
sorridere, senza successo.
“E
ora?” chiesi incazzato al capo. “E ora cosa
volete farci?! Siete solo dei vigliacchi!”
“Stai
zitto ragazzino.”
Fece
l’ultimo tiro e lasciò cadere a
terra la sigaretta, che si spense da sola con la pioggia.
“Ehi
capo, che ne dici
se mi diverto un po’ con la ragazza?” chiese uno
dei complici, quello meno
muscoloso.
Io
guardai Kiara, che guardò il tipo impaurita, sgranando gli
occhi.
“Ma
si, va’. Te lo meriti.”
Il tizio
sorrise, un sorriso maligno, e salì sul
furgone, guardando Kiara. Lei indietreggiò sempre di
più verso l’angolo,
fuggendo.
“No,
non ti avvicinare, lasciami stare!”
gridò.
“Lasciala
stare, non
la toccare o io…” mi ricordai di avere i polsi
legati.
“O
tu che fai?” Il tizio
aveva tirato fuori anche la pistola, me la stava puntando.
“Ehi,
non ti ho dato
il permesso di giocare con la pistola. Gli ostaggi ci servono. Tu
divertiti
solo con la ragazza” intervenì il capo.
Il tizio
mise via la pistola e si
rivolse verso Kiara, più impaurita di prima.
Avvicinò il suo viso a
quello di Kiara.
“Peccato
che il tuo visino si sia rovinato
così…” le prese il
mento, mentre lei cercava di divincolarsi, la rabbia sul volto.
“Ma te la sei cercata…
Non si prende in giro il capo.”
Il tizio
tentò di toccare Kiara in mezzo alle
gambe, ma lei le chiuse intrappolandogli la mano tra le ginocchia e gli
sputò
in faccia, centrandolo in un occhio. Nel momento in cui lui
liberò la mano per pulirsi
gli occhi, bestemmiando, lei ne approfittò e gli
tirò un calcio in mezzo alle
gambe, facendolo piegare in due. Poi lo spinse indietro, facendolo
cadere giù
dal furgone, in una pozza.
Il tizio
si rialzò urlando, rosso in viso dalla
rabbia. Corse con la mano alla pistola e la puntò verso
Kiara, ferma immobile,
come se quella fosse una sfida. Ebbi paura per lei.
“Io
ti faccio fuori, brutta
stronza!” disse il tizio, urlandole contro sotto la
pioggia.
“Fallo,
se ne hai
il coraggio” fu la sua risposta.
Sentii
Bill rabbrividire al mio fianco.
I due
si guardarono, occhi negli occhi, fino a quando il capo non
abbassò la pistola
in mano all’altro, rivolgendola a terra.
“Non
voglio morti, chiaro?” disse, poi
diede comando di chiudere le porte. Loro obbedirono e le chiusero
sbattendole,
così forte da farci chiudere per un attimo gli
occhi.
Quando
il furgone si rimise
in movimento, e tornò quel silenzio angosciante, Kiara ci
guardò ed ebbe la
forza di sorridere. A quel
punto mi
chiesi davvero da dove la prendesse quella forza, chi gliela dasse.
“Quanti
anni avete?” ci chiese, mettendosi di nuovo seduta accanto a
me.
“Diciotto.”
“Tutti
e due?”
“Si,
siamo gemelli.” Ci guardò e sorrise.
“Ah,
ecco perché
vi somigliate così tanto!” rise, coprendosi la
bocca con le mani.
Wow…
Fu
l’unica cosa che mi venne in mente. Era davvero stupenda, in
tutto.
“Che
ore
sono?” chiese ai malviventi davanti.
“L’una
e mezza” rispose il capo con
noncuranza.
“L’una
e mezza…” ripeté a bassa voce,
guardando verso il basso con
lo sguardo vuoto, immersa in chissà quali pensieri. Avrei
tanto voluto leggerle
la mente, mi sarebbe piaciuto sapere se dietro quei sorrisi, quelle
risate,
c’era davvero la paura che provavamo io e Bill.
“A
che pensi?” ero troppo
curioso. Mi guardò e mi sorrise con dolcezza.
“A
Daniel.”
“E
chi è? Il tuo ragazzo?”
Lei
sorrise e scosse la testa,
ridendo piano, “Il mio bambino.”
Mi aveva
colto all’improvviso, non avrei mai
pensato che potesse avere un figlio alla sua giovane età, e
poi, a dirla tutta,
ad aver mantenuto quel fisico da ragazzina.
“A
quest’ora dovevo già essere a
casa da lui, la mia vicina si starà preoccupando, visto che
dovevo tornare
un’ora fa” disse con amarezza.
“State
zitti là dietro!” disse il capo, sta volta
innervosito.
Lei gli
fece una linguaccia, tanto non poteva vederla, mi fece
l’occhiolino e poi continuò sorridendo,
sussurrandomi all’orecchio: “Ha tre
anni, è davvero stupendo.”
Sentii
il suo fiato sul collo, il suo profumo dolce,
le sue gambe che sfioravano le mie. Un nuovo brivido mi percorse lungo
la
schiena, ma non era per Bill, no, era per lei che mi stava accanto,
sentivo…
sentivo di volerle bene, anche se non la conoscevo così
tanto da poterlo dire
con assoluta certezza. Però, era il cuore a dirmelo. Il mio
cuore che batteva
veloce, un po’ per la paura, un po’ per lei.
“Davvero?”
le chiesi, ancora non del tutto convinto.
“Te
lo
giuro” si portò le mani sul cuore.
Si
appoggiò con la schiena alla fiancata e
rimase in silenzio, a guardarsi intorno. Forse pensando la stessa sua
cosa, mi
diedi un’occhiata in giro cercando qualcosa di affilato per
slegarmi i polsi.
Non ce la facevo più, facevano sempre più male.
Tentavo di distrarmi pensando
ad altro, ma diventava sempre più difficile talmente era
forte il dolore.
Chissà Gustav,
chissà Georg… Chissà mamma,
chissà papà… se li rivedrò
mai. No,
non ci devo pensare.
Scacciai
via quei pensieri e continuai nella mia ricerca,
come lei. Non c’era nulla. Nulla con cui tagliare quelle
cavolo di corde.
Nulla. Erano davvero organizzati, avevano preparato tutto quanto nei
minimi
dettagli. Però… c’era qualcosa che non
tornava. Perché avevano preso Kiara?
Perché lei? Non potevo non farle quella domanda.
“Ehi,
come mai sei qui?” Lei
mi guardò e poi si guardò la divisa
bagnata.
“Io
faccio la cassiera, turno
serale. Il tizio, quello grosso, era entrato con il capo per prendere
qualcosa ed
ero da sola. Così, oltre che a prendere quello che gli
serviva, hanno preso i
soldi e… me. Non so perché.”
Mi
ritornarono in mente le parole del capo, appena
aveva sbattuto dentro Kiara: «Avete
visto? Ho pensato di portarvi un po’ di compagnia, se magari
vi sentiste soli.
E poi non dite che non sono bravo, eh.»
Mi venne la pelle d’oca, una
sensazione di colpevolezza mi attraversava tutto, da capo a piedi. Mi
sentivo
veramente in colpa. Se le fosse successo qualcosa…
“Perché
me lo chiedi?”
disse, distraendomi dai miei sensi di colpa.
“Niente.”
“Ah,
ok.”
La
guardai ritornare a guardarsi le scarpe basse,
bagnate. Pian piano si appoggiò con la testa alla mia
spalla. La sentii
tremare. Doveva aver freddo.
“Cavolo,
ti avrei dato la felpa…” mormorai,
conquistandomi un suo sorriso.
“Grazie,
non importa.”
Aveva i
capelli umidi,
che mi sfioravano delicatamente la guancia. Ad un certo punto, mi
guardò negli
occhi, e aveva la faccia di una che aveva appena avuto
un’idea geniale, tanto
da gridare: “Eurekaaaaa!”. Con le mani
andò a prendere il suo cellulare nella
tasca.
“Perché
non ci ho pensato prima!” sussurrò, sorridendo.
Appena lo prese
in mano, quel suo sorriso lasciò spazio ad
un’espressione demoralizzata.
“Cazzo, non prende qui dentro.” Se lo
appoggiò sulle gambe e mi guardò triste.
“Tu hai il cellulare? Magari è il mio che
è scemo…”
Mi
dispiacque dirle di no,
che ce l’avevano subito preso i due complici del boss. Altra
delusione sul suo
volto.
“Vabbè,
io ci ho provato…”
Si
rimise appoggiata alla mia spalla, nella
stessa situazione di prima, il cellulare abbandonato di nuovo in tasca,
inutilizzabile.
“Sei
molto bello, sai?” mi disse, guardandomi dalla mia
spalla.
Mi
soffermai sulle sue labbra, quel suo sorriso, in effetti erano molto
vicine alle mie ora che ci facevo caso. Sentivo il suo respiro contro
il mio.
“Grazie,
anche tu” dissi, ricambiando il sorriso.
“Hai
la ragazza?”
“No,
purtroppo no. Tu? Hai detto che hai un bambino, no?
Suppongo tu sia…”
“Sposata?”
“Si,
mi hai rubato le parole di bocca.”
“No,
non sono sposata.”
“Allora
come…?”
“Sai
com’è… errori. E a volte non siamo
disposti a prendere
le responsabilità delle nostre azioni.
Però… io le ho prese. E, ti giuro,
rifarei quell’errore mille e mille volte ancora. Nessuno
può darmi tutto quello
che mi da Daniel, amo mio figlio. È la cosa più
bella che mi sia mai capitata.”
Ne
parlava con una strana luce negli occhi, la luce dell’amore
che solo una
mamma può avere verso il proprio figlio. Mi sorrise e si
strinse di più a me,
infreddolita.
Bill
sembrava che non esistesse, non parlava, muto come un tomba.
Troppa paura,
pensai.
Sapevo
che era vivo solo grazie al suo respiro e al suo
cuore che batteva in simultanea al mio. Lo guardai appoggiandomi con la
testa
alla fiancata. Gli sorrisi, chiudendo gli occhi.
“Io
amo una persona in modo
particolare…” dissi a Kiara ma guardando Bill, che
per la prima volta sorrise.
“Tomi…”
mormorò, lasciando scivolare sulla guancia una calda
lacrima,
contenente gioia mista a paura, paura che qualcuno potesse
dividerci.
“Nessuno
ci dividerà mai, lo sai questo, vero?”
Annuì
con la testa, facendomi un piccolo
sorriso.
“Ich
will da
nicht allein sein, lass uns gemeinsam… In die
Nacht…”
canticchiai,
guardandolo dolce. Lui mi regalò un nuovo sorriso e
canticchiò a bassa voce con
me: “Irgendwann wird es Zeit sein, lass uns
gemeinsam…
In die Nacht…”
In
quel momento,
il furgone si fermò e noi
rimasimo col fiato sospeso, in ascolto di qualsiasi suono. Il capo e il
tizio
accanto a lui scesero, mentre rimase con noi quello al volante.
Tornarono
qualche minuto dopo. Il capo aprì una portiera in fondo al
furgone e saltò su,
sedendosi di fronte a noi, con un sacchetto in mano, mentre
l’altro si mise al
suo posto davanti. Il furgone ripartì e noi rimasimo tutti
in silenzio a guardare
il capo.
“Avete
fame?” ci chiese. Negammo tutti con un leggero movimento
della
testa, senza l’utilizzo di parole. Il boss alzò le
spalle.
“Sete?”
chiese
allora.
“No.”
Kiara fu l’unica a parlare.
“Siete
sicuri? Guardate che non ho
avvelenato niente, mi servite.” Guardammo il capo bersi una
birra.
“A
cosa? A
cosa ti serviamo?” chiese Kiara. Il capo si
asciugò la bocca con la manica
della felpa nera e la guardò. “Soldi?”
ipotizzò lei.
“Si”
disse lui, senza più
e senza meno.
“Perché?
A che ti servono?”
“Non
capiresti.”
“Mi
credi una deficiente? È già la seconda volta che
lo
dici. Beh, non sono così stupida da non capirlo. Magari ti
possiamo aiutare se
solo…”
“Se
solo cosa?! Tu non capisci! Non puoi capire!”
“E
allora spiegati!” urlò Kiara. Ci furono attimi di
silenzio, c’era elettricità nell’aria.
“Per favore, dimmelo. Non credo tu lo
stia facendo, stia rischiando di essere gettato a marcire in prigione,
per un
motivo stupido. Qual è il motivo per cui lo stai
facendo?” Kiara era dolce,
proprio come una mamma. Sembrava che anche il capo si fosse sciolto un
po’ all’udire
le sue parole.
“È…
è per… mio figlio.”
“Spiegati
meglio, ti prego.”
“Mio
figlio, ha un cancro. Sta morendo, e non ho i soldi per
curarlo, per farlo rimanere in vita ancora per un
po’… È… è ancora
così
piccolo…” Il dolore di un padre, pronto a tutto
per amore di suo figlio, anche
di fare una cosa del genere.
“Anch’io
ho un bambino, si chiama Daniel, ha tre anni. E
questo non è il metodo adatto con cui affrontare la cosa.
Non c’è davvero
nessuno che ti possa aiutare?”
“No,
nessuno.”
“Ok.
Comunque non è così che si fa. Pensa a tuo
figlio,
pensa a cosa proverebbe se sapesse che stai facendo una cosa del
genere: rapire
tre persone. Sarebbe più contento di morire con un padre
sempre accanto, che lo
ama, che non fa cose sbagliate, anche se per il suo
interesse…”
Il capo
si alzò
in piedi, furente. Prese la pistola in mano, la puntò contro
Kiara.
“Stai
zitta! Stai zitta! Tu non puoi capire! Sei solo una ragazzina! Sono
cose che
non puoi capire! Stai zitta!” Gli tremava la mano, non aveva
la forza di sparare.
La abbassò e se la rimise nella tasca dietro dei pantaloni.
“Fermatevi” ordinò
ai due, che senza fiatare eseguirono i comandi.
Il
furgone si fermò e il capo
uscì, sotto la pioggia, e andò a sedersi accanto
ai colleghi. Il furgone
ripartì e noi ci guardammo in silenzio, un po’ in
pena per lui, ma, come aveva
detto Kiara, quello non era il metodo adatto ad affrontare la
situazione, lo
stava prendendo come un atto eroico, per salvare suo figlio, non
rendendosi
conto che non lo era, che faceva solo del male ad altri che non
centravano
nulla.
Kiara si
passò le dita sotto gli occhi, afflitta. Mi
guardò
negli occhi. Ci guardammo per diversi secondi, senza fiato, occhi negli
occhi,
persi in un qualcosa a noi sconosciuto. Eravamo talmente vicini che
riuscivo a
vedere le sfumature dei suoi occhi scuri, a coglierne ogni stato
d’animo, ogni
più piccola e insignificante emozione. Sentii il suo respiro
accanto al mio,
caldo e tranquillo. Guardai le sue labbra rosse naturali, ne rimasi
affascinato. La guardai di nuovo negli occhi e li chiusi avvicinandomi
a lei,
alle sue labbra, ma il furgone curvò
all’improvviso costringendomi a
ricompormi, come se quello fosse stato un segnale dal cielo, per dirmi:
“No,
non farlo. Sbaglieresti.” E la bottiglia di birra che aveva
bevuto il capo poco
prima, era andata a schiantarsi in fondo al furgone, rompendosi in
mille pezzi.
Ecco che
di nuovo il furgone si fermò e scesero tutti e tre,
lasciando la
portiera del guidatore aperta. Kiara si appoggiò a me e mi
strinse le mani
dietro la schiena, raggiungendole con le sue. Le strinse forte,
nascondendo il
viso tra la mia spalla e il mio collo, come se già sapesse
quello che sarebbe
successo da lì a poco.
Erano
andati fuori per parlare al telefono, visto che,
come avevamo già notato noi, dentro non prendeva. Li
sentimmo discutere tra
loro, poi silenzio. Di nuovo parole.
“Abbiamo
qui gli ostaggi, stanno bene.
Vogliamo i soldi entro un’ora. Come impossibile? Non me ne
importa se non c’è
il tempo materiale, se le banche sono chiuse o robe del genere. Io
voglio quei
soldi, in contante, entro un’ora.” Era il capo che
parlava, riconoscevo la sua
voce. “Ok, lo avete voluto voi. Vi siete giocati uno dei
gemelli. Ora vogliamo
il doppio.”
Io e
Bill rabbrividimmo. Anche Kiara rabbrividì. Sentimmo la
porta del
furgone aprirsi forte, sbattendo sul fanale, spaccandolo in mille
pezzi.
“No,
no! Vi prego, no! Non fategli del male!” urlò
subito Kiara, che non sapevo
come, era riuscita a slegarsi i polsi. Vidi un pezzo di vetro verde
accanto
alle corde sfilacciate, un pezzo della bottiglia che si era rotta nella
curva.
Questa ragazza
è un genio,
pensai.
Ma non
avevo tempo per pensare a quanto
fosse intelligente o meno in quel momento. Kiara era davanti a noi, a
braccia
aperte, che ci difendeva.
“Voglio
lui” disse il capo, indicandomi con la
pistola di traverso. Ringraziai il cielo perché non avesse
scelto Bill.
“Levati
ragazzina” ringhiò il capo, prendendola per il
braccio. Era forte, tanto da
riuscire a sbatterla di fianco a me, mentre Bill era pallido, voleva
urlare ma
non ce la faceva, la paura glielo impediva. Sentii la sua mano sfiorare
la mia:
era fredda, gelata. Lo guardai veloce e poi chiusi gli occhi,
preparandomi alla
mia fine. Sentii solo lo sparo, un colpo sordo, poi più
niente. C’era silenzio,
c’era solo il rumore della pioggia scrosciare per la strada.
C’era odore di
sangue. Aprii gli occhi.
Sono morto?
In quel
silenzio, sentii il respiro quasi
soffocato di qualcuno, qualcuno che mi stava abbracciando per il
collo.
“Daniel…”
fu l’unica cosa che riuscì a dire Kiara, prima che
il suo cuore
cessasse di battere, prima di morire tra le mie braccia.
Le
appoggiai la mano
sulla schiena. Quando la ritrassi la vidi piena di sangue. Kiara
era… morta per
me. Salvandomi, proteggendomi.
“No…
No, no, no. No! Perché?!” urlai, prima di
lasciarmi andare al pianto, un pianto di rabbia, di dolore.
Anche
Bill stava
piangendo, senza riuscire a dire niente. Non c’era niente da
fare, ormai non
c’era più niente da fare per lei, per la sua
giovane vita volata via come
sabbia al vento, in una frazione di secondo.
Strinsi
ancora il suo corpo a me,
sentendolo diventare sempre più freddo. Guardai con
disprezzo l’uomo di fronte
a me, il capo, quello che l’aveva uccisa.
Lasciò
cadere a terra la pistola,
tremante. Si mise le mani sul viso, incominciò a piangere
pure lui, mormorando:
“Non doveva andare a finire così… non
doveva andare a finire così…”. Prese
velocemente un coltellino dalla tasca della felpa e si
avvicinò a noi. Io mi
spinsi verso Bill, cercando di proteggerlo, ma l’uomo mi
prese i polsi e me li
liberò dalla corda, così con Bill. Senza mai
guardarci in faccia per la troppa
vergogna di essere solamente nato, ci spinse fuori dal furgone, sotto
la
pioggia. Io, Bill e il corpo di Kiara, ormai freddo e pallido come la
neve che
tenevo ancora tra le braccia.
Guardammo
il furgone allontanarsi in fretta,
correndo sulla strada deserta, isolata dal mondo. L’acqua mi
bagnò di nuovo,
nel buio della notte, rinfrescandomi, pulendo il bel viso di Kiara. Mi
sedetti
a terra, lei stretta tra le braccia, mentre la pioggia fredda non
smetteva di
cadere, ma non lavando via quell’incubo: la
realtà. Mi ricordai del suo
cellulare. Glielo presi dalla tasca interna della giacca,
delicatamente,
notando anche che la mia maglietta era impregnata di sangue, una
chiazza enorme
in pieno petto. Non ci badai troppo e composi velocemente il numero di
Georg,
il primo di cui mi ricordavo a memoria il numero intero.
Vennero
a prenderci, ci trovarono ancora sotto l’acquazzone,
io con Kiara senza vita in braccio.
Il
giorno dopo, eravamo su tutti i giornali e telegiornali,
e si venne anche a sapere che il capo si era costituito, mentre gli
altri due
erano fuggiti ed erano stati catturati qualche ora dopo.
Da
quella sera Bill era entrato in stato di shock, non
riuscendo più a parlare, a cantare (la cosa che adorava fare
di più al mondo),
a comunicare con nessuno, neppure con me, talmente era traumatizzato.
Restò
così per un’intera settimana. E io che mi ero
visto morire Kiara tra le
braccia? Che dovevo dire io?
Pian
piano, giorno dopo giorno, tutti si dimenticarono della
sua morte, si dimenticarono di lei. I giornali non ne parlarono
più, passarono
oltre, lasciando quella notizia nel dimenticatoio. Ma io, no; io e
Bill, no;
io, Bill e Daniel, soprattutto, no. Daniel, suo figlio, lo presi in
affidamento
io. Non volevo che fosse affidato ad una famiglia qualunque, anche se
gli avessero
dato tutto. Daniel, dovevo tenerlo io, glielo dovevo. Lo dovevo a lei
che mi
aveva salvato la vita. Io dovevo crescere quel piccolo bambino, moro,
occhi
scuri, sorriso identico alla madre. Ogni volta mi impressionava la
somiglianza
smisurata tra i due. E il figlio del boss, beh, avevamo pagato le spese
per la
sua cura e si stava pian piano riprendendo. Perché
l’avevamo fatto? Perché
Kiara avrebbe fatto così, non c’erano dubbi.
Doveva pur essere morta per una
giusta causa, non certo solo per salvare la mia vita. Non era morta per
niente.
No.
Adesso,
a distanza di due anni, Daniel ha cinque anni ed è
con me, vive con me e Bill. E questo ricordo doloroso, indelebile nel
cuore e
nella mente, mi fa ancora star male.
Mi
asciugo le lacrime sulle guance. Guardo Daniel che dorme
profondamente accanto a me, non mi sono nemmeno accorto che si
è scoperto
muovendosi nel letto, sognando, forse, la sua mamma. A volte mi chiede
dov’è, e
io sono costretto a dirgli che non c’è
più, che se n’è andata,
perché so che i
bambini sentono, sentono quando gli menti, e io non voglio mentirgli.
Però non
gli dico in che modo se n’è andata, farebbe troppo
male, a me, raccontargli
tutto, e a lui, che è ancora troppo piccolo per saperlo.
Forse quando sarà più
grande. Quando sarà pronto ad accettare quella che a volte
è la vita, nelle sue
ingiustizie. Non adesso.
E, a
volte, mi chiama papà. Quando lo fa io sorrido
guardandolo mentre si copre la bocca, diventando rosso sulle guance.
Aveva
ragione Kiara, con la ‘K’, quando diceva che era un
bambino stupendo. Lo è sul
serio. Mi rende felice solo guardarlo.
Mi rendo
conto che il latte su di me non ha effetto, non mi
fa riaddormentare di botto come accade ai bambini.
Si, ogni
giorno mi convinco sempre di più che, Kiara,
sarebbe stata la donna che avrei amato per tutta la vita. La donna che,
invece,
ha sacrificato la sua di vita per me.
Avevo
delle responsabilità con Daniel, certo, ma anche Kiara
si era presa le sue mettendosi davanti a me, coprendomi, prendendo
quella
pallottola al posto mio. Prendermi cura di Daniel era un po’
come dirle grazie.
Mi metto
sdraiato sul fianco, accanto a Daniel, sentendo il
suo respiro e il suo cuoricino battere nel petto. Gli accarezzo la
guancia
soffice, fresca. Gli metto a posto un ciuffo dietro
l’orecchio, sorrido.
E alla
fine… sono sempre i migliori che se ne vanno per
primi. Kiara, una persona stupenda, che amava la vita, che amava le
persone intorno
a lei, morta per salvare un’altra vita. La mia. Oggi, se solo
la potessi
vedere, le direi: “Stupida altruista!”, ma non si
può. Sono sempre i migliori
che se ne vanno per primi, è così. Ma
c’è anche un perché. Perché
solo loro
hanno il coraggio di andarsene prima degli altri. È anche
per questo che
vengono definiti i migliori. Kiara era una delle migliori, e mi manca.
Chiudo
gli occhi e mi accuccio accanto a Daniel, cercando il
suo calore, cercando sicurezza, le sicurezze che mi dava standomi
accanto, come
se lui fosse il grande e io il bambino che ha fatto il brutto sogno.
Poi mi
ricordo che qui il grande sono io.
Daniel, ti prometto che
mai nessuno ti farà
del male, nessuno. Non permetterò mai a nessuno di farti del
male. Ti
proteggerò. Perché ti voglio bene, e tu lo sai,
lo senti, come lo sentono tutti
i bambini. Sei speciale Daniel, come tua madre.
Apro gli
occhi e vedo dall’altra parte del letto la figura
di Kiara, trasparente, azzurrina. Il suo fantasma? È
sdraiata con un braccio
sotto la testa, con l’altra mano accarezza i capelli a
Daniel, con quel suo
inconfondibile sorriso sulle labbra. Vedo sorridere anche Daniel, sente
la
vicinanza della sua mamma, sa che non lo lascerà mai, sa che
sarà sempre al suo
fianco.
Kiara
guarda anche me e ride, poi scompare, si dissolve
com’è venuta.
Io chiudo gli occhi e mi addormento sorridendo, tenendo Daniel stretto
a me,
tra le mie braccia.
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