Non
smetto mai di sorprendermi di come il tempo atmosferico si adegui a
certe situazioni. Noto spesso, e sempre con sorpresa, come il cielo
senta la felicità, la paura o la tristezza e si comporti di
conseguenza. Il cielo di Morioh, poi, è il più empatico
che io abbia mai visto. Io, Rohan Kishibe, che mi perdo in questi
sentimentalismi? Beh, ogni tanto me lo concedo. Stavo seduto al
Cafe Deux Magots con i miei concittadini, nonché saltuari
compagni di avventure ed il cielo sembrava ascoltare e reagire alle
nostre riflessioni sui fatti tremendi che il mese di febbraio si era
portato appresso. Nonostante quella mattina il cielo avesse splenduto
pigramente, ora era sparito, nascosto da una coltre di preoccupate
nubi grigie, proprio come il colore di cui si era tinto la città
da ormai una settimana. Discutevo, perplesso e preoccupato anche
io come il cielo e tutti i miei compagni, di una strana e grave
catena di eventi cominciata da una settimana a Morioh. ‒
Ricapitolando. ‒ Intonò grave Josuke giungendo assieme
le mani. ‒ Lunedì scorso, il 3 febbraio, quindi sei
giorni fa, è cominciata una catena di suicidi a Morioh. Solo a
Morioh e in nessun’altra città. Da allora sono morte
undici persone. ‒ ‒ Dodici. ‒ S’intromise
Koichi con voce triste. ‒ Un’altra ragazza ha ingerito
un’intera scatola di sonniferi ed è morta stanotte. Era
una compagna di classe di Yukako. ‒ ‒ L’ho
sentito anch'io stamattina. ‒ Sospirai. Josuke deglutì.
‒ Dodici persone. Non sembra esserci niente di simile tra loro,
niente che li possa collegare in qualche modo. Né età,
interessi, occupazione, status sociale. Le vittime, ad oggi 9
febbraio, sono tre studenti, due uomini d’affari, un
netturbino, due pensionati, una ricca madre di famiglia, una
giovanissima barista, un poliziotto e la compagna di classe di
Yukako. Sono suicidi assolutamente sconnessi tra loro… ‒ ‒
Tranne per le cause. ‒ Continuai io, ansioso di arrivare al
dunque. ‒ Tutte le vittime si sono suicidate per esasperazione.
Le persone a loro vicine, famiglie o amici, hanno testimoniato che
tutti loro, nei giorni antecedenti la morte, hanno mostrato gli
stessi sintomi. Ansia crescente, paranoia, allucinazioni, paura
immotivata e conseguente stress, irritabilità ed insonnia
totale che li hanno portati all’esaurimento. Per la
disperazione alcuni si sono gettati dalla finestra, altri hanno preso
così tanti farmaci da morire di overdose, altri si sono
gettati sotto treni o sono stati investiti mentre scappavano da
chissà
cosa. ‒ ‒
È proprio questo chissà
cosa che mi
fa pensare ad un attacco Stand. ‒ Disse Josuke con espressione
assorta. ‒ Non c’era niente intorno a loro agli occhi dei
familiari o degli amici. Niente che possa giustificare questa loro
improvvisa paranoia, questo panico. Da un giorno all’altro
hanno cominciato a non dormire più, ad essere privati della
pace. La sorella di una studentessa morta quattro giorni fa mi ha
detto in lacrime che sua sorella le aveva detto “I
mostri mi hanno seguita dagli incubi. Da allora non mi lasciano più
andare.”
È terrificante. ‒ ‒ Al telegiornale hanno
parlato di allucinazioni causate dalla droga. Un nuovo tipo di droga
arrivata fin qui dall’America, o qualcosa di simile. ‒
Disse Okuyasu. ‒ Ma non mi convince per niente. Non ci capisco
molto, ma la droga a Morioh? È assurdo. ‒ Sospirai.
Okuyasu era quello che sopportavo meno. Possibile che non capisse
quando era giusto dire qualcosa e quando invece lo si poteva
omettere? ‒ Escludo assolutamente questa opzione. Non si
tratta né di droga, né di una qualche malattia mentale.
‒ Dissi. ‒ Ne abbiamo vissute abbastanza per
riconoscere uno Stand all’attacco. ‒ Concluse Koichi
estremamente serio. Finalmente qualcuno che parlava la mia lingua. ‒
Ma le indagini non bastano a darci nemmeno un briciolo di pista da
seguire. Non c’è stato nessun cambiamento nelle routine
quotidiane di queste persone. Se hanno incontrato qualcuno che li ha
attaccati non potremo mai saperlo. ‒ Incrociai le braccia. ‒
Dovremmo individuare una vittima prima che si suicidi, così
che io la possa leggere con Heaven’s Door. Sicuramente le sue
pagine ci direbbero chi è il colpevole. Ma le vittime sono
così paranoiche e spaventate che, se escono di casa, è
solo per ammazzarsi. Sarà difficile trovarne una in tempo.
‒ Josuke inspirò. ‒ Dovremo stare attenti e
vedere chi si assenta da scuola. Gli studenti che si sono suicidati
sono stati assenti per due o tre giorni prima di morire, quindi
dovremmo avere abbastanza tempo per agire, una volta individuata la
vittima. ‒ Annuii col capo. ‒ Mi sembra l’unico
modo possibile. Cercate di scoprire l’indirizzo di eventuali
assenti, così andremo a fargli visita. ‒ I ragazzi
annuirono determinati ed io alzai la testa al cielo. Le nubi erano
ancora più grigie di prima e tirava un venticello insistente,
probabilmente avrebbe piovuto. ‒ Tra poco pioverà,
devo andare. Domani tenete gli occhi aperti e contattatemi se notate
qualcosa. Farò lo stesso anche io. ‒ E così ci
salutammo. Mi incamminai verso casa, perplesso e pensieroso come non
mai. La pace dopo la grande minaccia di Morioh del ’99 era
durata un anno appena; già era arrivato un nuovo nemico.
Cominciai a sentirmi sempre più a disagio. Non c’è
cosa che odio più di aspettare, soprattutto in situazioni
critiche; l’idea di andare a casa ad aspettare una telefonata
dai ragazzi mentre il nostro nuovo nemico era a piede libero mi
rendeva incredibilmente nervoso. Era un avvenimento interessante,
certo, e si sa quanto io ami queste cose, soprattutto per
l’ispirazione che mi portano; eppure il fatto che stessero
morendo persone che non c’entravano nulla mi irritava.
Preferivo trovarmi io stesso in pericolo, piuttosto che guardare
persone innocenti cadere come pedine di domino. Inoltre non avevamo
la certezza che la prossima vittima sarebbe stata uno studente:
potevano volerci giorni, settimane, e questo significava aspettare
che venissero mietute altre vittime senza che noi potessimo
intervenire. Mi sentivo totalmente impotente nonostante i miei
poteri, e ciò mi frustrava. Decisi di prendere una strada
alternativa, leggermente più lunga della solita, per fare
quattro passi in più. Rischiavo di prendere la pioggia, ma non
mi interessava; speravo che passeggiare mi avrebbe calmato un po’.
Gli alberi che delineavano il viale erano scossi dal vento e
provocavano un flebile fruscio, l’unico rumore oltre a quello
dei miei passi. Camminai per un paio di minuti, totalmente assorto
nei pensieri, quando m’imbattei in un volantino attaccato ad un
palo che non avevo mai visto prima. L’intestazione recitava:
Mostra
d’arte “Uno sguardo nel Buio” di Alistair
Pearce A Morioh per tutto il mese di febbraio
Il
titolo mi colpì. Doveva essere una mostra di paura, a
giudicare dal nome e dalla grafica del volantino. Inutile dire che
stimolò la mia curiosità – cosa fin troppo facile
da fare – e ovviamente pensai che non potevo perdermela.
Guardai l’orologio sul mio polso: erano appena le tre del
pomeriggio. La mostra era aperta tutti i giorni della settimana fino
alle sei, avevo tutto il tempo di raggiungerla e di godermi la vista
di qualche quadro. La casa in cui era allestita si trovava vicino
alla stazione di Morioh, così tornai indietro alla prima
fermata del pullman e mi sedetti ad aspettare. Ero estremamente
curioso: amavo l’arte ed amavo l’horror – il mio
stesso manga è un’opera molto oscura, tanto mi piace il
genere –, ero impaziente di vedere questi quadri, e speravo che
non deludessero le mie aspettative. Il pullman arrivò
subito ed appena entrai si mise a piovere a dirotto. In dieci minuti
raggiunsi la stazione, ancora pioveva ed io non avevo l’ombrello,
così mi avviai a passo svelto a destinazione. La mostra era
situata in una piccola villetta gialla che ora aveva le porte aperte
al pubblico. Una volta giunto all’ingresso, un ragazzo
giapponese elegantemente vestito mi raggiunse e mi accolse
all’interno. Pagai il biglietto di ingresso – era la
mostra meno costosa a cui avessi mai assistito – e mi invitò
a procedere oltre l’atrio, avvisandomi che Alistair Pearce era
nella seconda stanza e che era disponibile per qualsiasi domanda.
Varcai la piccola arcata che divideva l’atrio dalla mostra e mi
trovai in una stanza molto grande e ben illuminata, completamente
priva di mobili. Le pareti intonacate di bianco, con i battiscopa
color marrone scuro, erano costellate di quadri, alcuni molto grandi
ed altri molto piccoli, tutti pesantemente incorniciati da legno
scuro ed intarsiato. C’erano quadri in ogni spazio libero dei
muri. Una piccola parete di cartongesso alta un metro era posta al
centro della stanza, ed anch’essa era ricoperta di quadri.
All’inizio mi persi un po’ a guardare la stanza in
generale, ma quando i miei occhi si posarono per bene sui quadri, uno
dopo l’altro, sentì una strana sensazione al petto.
Quello che provavo era stupore, ammirazione, incredulità e…
Anche paura, mi tocca ammetterlo. I quadri di Alistair Pearce erano,
e sono tutt’ora, i quadri più realistici che io abbia
mai visto. Ma la cosa più impressionante era che ciò
che vi era raffigurato era tutto fuorché realistico. Come
suggeriva il titolo, ciò che i quadri raffiguravano erano
sicuramente incubi.
Gli scenari erano molto diversi tra loro, ma tutti erano
terrificanti, nessuno escluso. Alcuni erano davvero raccapriccianti:
mostri indescrivibili, con fisionomie altrettanto non tramutabili in
parole, intenti a fare le cose più disparate. Alcuni
scrutavano il malcapitato osservatore del quadro da un piccolo
angolo, immersi nel buio; altri si ergevano sopra donzelle adagiate
su letti in preda al panico più totale. L’espressione di
una donna raffigurata, in particolare, mi fece rabbrividire. L’orrore
che le dilaniava il viso era qualcosa che non avevo mai visto,
qualcosa che non avevo nemmeno mai immaginato. Era un’espressione
così impossibile da immaginarsi su un volto umano, eppure era
così realistica allo stesso tempo! Alcuni quadri erano
solamente paesaggi, come boschi o montagne, che sembravano quasi
normali a primo acchito, ma che con un secondo sguardo più
attento rivelavano dettagli mostruosi. Mi avvicinai ad un quadro che
raffigurava una notte di luna piena su un fitto bosco: faticai a non
sussultare quando notai che, dentro alla luna giallognola, si
nascondeva un terribile viso ai limiti dell’umano che sorrideva
inquietante al bosco. E tra la boscaglia, notai poi, brulicavano
nascosti tra le fronde degli alberi esseri di ogni genere…
Tranne che di quello umano. Mi spostai su un altro quadro, ben felice
di togliere lo sguardo da quella luna raccapricciante, ed anche
quello non era molto più allegro. Una ragazza che mi ricordò
qualcuno che avevo già visto, molto probabilmente per la
fisionomia asiatica che quasi ogni ragazza di Morioh aveva, dormiva
su un letto, in una stanza poco illuminata e totalmente grigia,
mentre un essere per metà immerso nel buio se ne stava
appollaiato a testa in giù nell’angolo superiore della
stanza. Il ghigno dentato di quell’essere, i suoi occhi tondi e
vitrei, il modo totalmente innaturale in cui era appeso mi fecero di
nuovo accapponare la pelle. Io non sono un tipo impressionabile, per
niente affatto, e proprio per questo la reazione che questi quadri
ebbero su di me mi sorprese. Quelle raffigurate erano scene quasi
banali, facenti parte delle paure collettive delle persone;
situazioni che sicuramente tutti quanti abbiamo trovato nei nostri
incubi almeno una volta. Ma il modo in cui erano raffigurate, la
magia con cui Alistair Pearce era stato in grado di dargli vita era
qualcosa di assolutamente fuori dal comune, assolutamente
indescrivibile. Extraterrestri, cannibali, pagliacci, ragni, vespe,
spiriti, donne e bambini terrificanti, paesaggi da vertigini,
scalinate che finivano nel buio; di tutte queste paure era tappezzata
la stanza. Capì subito che l’arte di Alistair Pearce
mirava a raffigurare le paure più comuni nell’essere
umano, però viste sotto i suoi occhi, o meglio, sotto la
prospettiva dei suoi pennelli. Ammirai ogni singolo quadro fino quasi
a consumarli, completamente rapito dall’arte di quell’uomo.
Alcuni mi fecero sussultare, ma in modo estremamente piacevole. Non
era facile farmi provare un tale disagio, una tale paura, e ne ero
contento. Ero grato al signor Pearce per essere stato in grado di
scalfirmi. Non mi ero nemmeno accorto che nel frattempo tre persone
erano entrate nella mostra, tanto ero stato rapito dall’arte.
Anche loro, come me – anche se loro lo davano a vedere, mentre
io mi guardavo bene dal farlo – erano scioccati da tutti quei
quadri terrificanti. Una signora si portò la mano alla bocca
dallo stupore, sgranando gli occhi davanti alla vista di quella
piccola mostruosa luna di cui anche io mi ero stupito poco prima. Mi
spostai attraverso un’altra piccola arcata nella seconda
stanza, da cui proveniva del vociare, stupendomi di non trovarla
piena zeppa di quadri come quella precedente. Ce n’erano altri,
ma un sacco di spazio li divideva. Al centro vidi due signori che
parlavano con un uomo pelato, alto, vestito estremamente bene e con
un portamento fiero e quasi nobile. Notai che parlava un pessimo
giapponese, e quando fui in grado di vederlo bene in viso, capii
all’istante che era Alistair Pearce. Quei piccoli e incavati
occhi scuri, quei baffetti castani che viravano all’insù
gli conferivano l’aria da sofisticato pittore che proprio mi
ero immaginato. Attesi che finisse di parlare e nel frattempo guardai
i pochi quadri. Anche questi erano terribilmente realistici,
inquietanti, mozzafiato come i precedenti. I due signori
salutarono il pittore e finalmente rimanemmo soli nella stanza.
Sfoggiai il più carismatico e complice dei sorrisi e feci un
breve inchino. ‒ Mi permetta di porgerle i miei più
sentiti complimenti, signor Pearce. Poche altre arti mi hanno colpito
come la sua. ‒ L’ometto sorrise compiaciuto, le
sopracciglia scure che gli danzavano sulla fronte liscia. ‒
La ringrazio infinitamente. ‒ Mi porse la mano. ‒ Con chi
ho il piacere di parlare? ‒ Gli strinsi saldamente la mano e
rinnovai l’inchino. ‒ Kishibe Rohan. ‒ L’uomo
sgranò gli occhietti. ‒ Kishibe Rohan? Pink Dark Boy? ‒
Mi chiese tra lo stupore. ‒ Esattamente. ‒ Sorrisi
io, contento ed onorato che sapesse chi fossi. ‒ Sapevo che
lei viveva qui, ma non pensavo avrei mai avuto l’onore di
averla alla mia mostra. Ne sono estremamente onorato. ‒ Gli
dissi che ero onorato anch’io e parlammo per qualche minuto. Mi
complimentai per l’ampiezza della sua immaginazione, per la sua
genialità e per il suo talento. Mi disse che era sempre stato
attirato dalle cose inquietanti e paurose, specialmente gli incubi,
che i suoi quadri erano come finestre che davano sul loro regno e che
gli incubi non erano i suoi ma quelli dell’umanità, come
avevo dedotto anch’io; che era grato a chi condivideva le sue
esperienze terrificanti con lui, perché gli permettevano di
dipingere le paure vere. Mi disse inoltre che quella stanza era
ancora ampiamente spoglia perché dipingeva giornalmente,
essendo sempre preso dall’ispirazione, e che si sarebbe
riempita col passare dei giorni. Alla luce di ciò gli promisi
che sarei tornato a vedere i nuovi arrivati e mi congedai con un
ultimo inchino. Uscii dalla mostra di buon umore. Durante l’ora
in cui ero stato dentro non un singolo pensiero sulla catena di
suicidi e sulla mia impotenza mi aveva sfiorato. Può sembrare
brutto, me ne rendo conto, ma anche se fossi stato a casa a
crogiolarmi nel nervoso non avrei potuto fare niente. Mi ero
distratto, mi ero goduto della buona arte ed ero soddisfatto. Aveva
anche smesso di piovere, nel frattempo – forse l’animo
turbato del cielo si era disteso assieme al mio, a riprova della sua
emotività? – e così presi con calma un pullman
che mi riportò a casa. Appena varcata la soglia di casa mi
diressi in fretta al mio studio. Quando succedeva qualcosa di
insolito, quando mi trovavo, per mia volontà, per caso o per
destino, in una delle solite bizzarre situazioni in cui incappavo
periodicamente, la mia ispirazione saliva alle stelle. In quel
momento ero la persona più turbata della città, ma per
il mio lavoro questo era un bene, perché da quella terribile
esperienza ricavavo grandi idee. Era anche grazie ad Alistair Pearce
che ero così ispirato: la sua arte mi aveva arricchito. Mi
sedetti, feci il mio consueto stretching alle mani e mi misi al
lavoro. Volevo sfogare tutto il turbamento dei suicidi nelle tavole
del manga, ne sentivo l’assoluto bisogno. Finì per
lavorare ininterrottamente per tre ore, senza nemmeno accorgermene,
completamente assorbito da una frenetica e travolgente ispirazione.
Quando riguardai le tavole che avevo disegnato, mi resi conto che
erano le migliori che mi fossero ma riuscite. Il capitolo che avrei
pubblicato la settimana successiva sarebbe stato un capolavoro, il
mio capitolo migliore da quando avevo cominciato Pink Dark Boy, anni
addietro. Soddisfatto ed esausto, dopo una breve cena andai a
dormire, soddisfatto ma pensieroso su ciò che avrebbero detto
i giornali la mattina seguente.
Fu
anche peggio di quanto mi aspettassi. Verso le nove del mattino mi
svegliai da un sonno pessimo, agitato e per niente ristoratore. Mi
faceva male la testa e mi sentivo totalmente stordito, ma decisi di
alzarmi e darmi da fare. Come prima cosa aprì la porta, giusto
quanto bastava per far passare il braccio, mi chinai ed agguantai il
giornale. Richiusi in fretta, non volendo avere contatto diretto con
la luce del sole, essendo i miei occhi ancora sensibili. Srotolai
subito il giornale, impaziente di sapere a quanto ammontavano oggi le
vittime. La prima pagina era intitolata “Novità
di oggi”
con la data del giorno, quella volta lunedì 10 febbraio 2001,
ma da una settimana la si poteva chiamare “Suicidi
di oggi”,
poiché si parlava solo delle persone che si erano suicidate
nelle precedenti ventiquattr’ore, con tanto di foto e brevi
didascalie con le informazioni di ogni vittima. Mi si gelò il
sangue quando lessi che durante la notte si erano ammazzate altre sei
persone, tra cui tre studenti e due mamme casalinghe. In una
settimana ne erano morte dodici, mentre ora in una sola notte ne
erano morte sei. Qualcosa non quadrava. Un tuono rombò
improvvisamente, facendomi sussultare, tanto forte che le finestre
tremarono. Non essendo uscito ancora di casa, eccezion fatta per il
mio braccio, non avevo idea di che tempo facesse, e quel temporale
improvviso mi stupì. Aprì la porta, ancora in vestaglia
e coi capelli sfatti, e guardai in alto: il cielo era così
nero da incutermi uno strano senso di terrore. Non era del cielo che
avevo terrore, bensì del presagio che captai da esso: stava
per succedere qualcosa di tremendo, me lo sentivo. Un lampo che
squarciò il cielo, seguito da un altro tuono fortissimo,
sembrò darmene conferma. Tornai in casa, preso da un panico
irrazionale. Persino nelle situazioni più critiche ero sempre
riuscito a mantenere la calma, cosa mi stava succedendo? Perché
provavo una tale paura? E per cosa, poi? Inoltre riconobbi
improvvisamente un’altra sensazione che avevo avvertito da
quando avevo aperto gli occhi: mi sentivo osservato. Era strano,
irrazionale e stupido, ma non potevo fingere di non sentirlo. Era
come se ci fossero un paio d’occhi che mi scrutavano da ogni
direzione. Mi scrollai di dosso quell’agitazione, mi vestì
e uscì di casa. Camminai con un irragionevole passo
sveltissimo, diretto al Cafe Deux Magots. Il cielo era scuro,
minaccioso, e i tuoni rimbombavano ogni minuto. Arrivai al Cafè
molto più in fretta del solito, ‒ il che mi sembrò
strano, ma forse ero solo sovrappensiero e per questo il tragitto mi
era sembrato più corto – mentre un altro lampo
squarciava il cielo e la sensazione di essere osservato non voleva
saperne di abbandonarmi. Appena varcata la soglia vidi arrivare una
ragazza di Morioh di nome Ayako, la commessa della mia cartoleria di
fiducia. Notai che aveva il grembiule del Deux Magots ed inarcai le
sopracciglia, totalmente stranito. ‒ Ayako? Da quando
lavori qui? ‒ Le chiesi mentre sedevo al bancone. Lei si
sistemò il grembiule e non rispose, probabilmente non mi aveva
udito. Dopo qualche secondo posò gli occhi su di me e mi
rivolse uno splendido sorriso, che però si spense appena mi
raggiunse dall’altro lato del bancone. ‒ Tutto bene,
Rohan? ‒ Mi chiese. Mi scocciava il fatto che il mio malessere
psicologico fosse evidente, ma, soprattutto con le “novità
del giorno”, nessuno ormai a Morioh era immune al turbamento.
‒ No. ‒ Risposi secco. ‒ Hai sentito dei sei
suicidi? ‒ La ragazza abbassò gli occhi e la sua
espressione si fece triste. ‒ Sì. Sei in un solo giorno…
Come finiremo? Come finirà Morioh? ‒ Sospirai. ‒
Non lo so. ‒ La ragazza si voltò per prepararmi un
caffè. ‒ Sai, Rohan… ‒ Cominciò con
voce sommessa. ‒ Ogni sera vado a dormire con la paura che, il
giorno dopo, l’epidemia colpirà anche me. ‒ Sospirai
di nuovo. ‒ Prima o poi finirà. Troveranno la causa e
fermeranno questo massacro. ‒ Mi porse il caffè
fumante, in cui scorsi il riflesso dei suoi occhi tristi. ‒ Lo
spero. ‒ Bevvi un paio di sorsi di caffè quando un
urlo fece alzare la testa di tutti i presenti al Cafè, me
compreso. Era un urlo stridulo, un urlo maschile di puro terrore. E
riconobbi all’istante che era Koichi. Mi alzai di scatto e
schizzai fuori dal bar, sotto gli occhi dei clienti e della barista
che erano rimasti imbambolati, col cuore che mi galoppava in petto.
Ero sicurissimo che fosse Koichi. Era un portatore di Stand in grado
di difendersi, cosa poteva averlo spinto a gridare così? In
fondo alla strada, girando a destra, c’era la casa di Koichi,
ed era sicuramente da là che proveniva il grido. Notai del
denso fumo nero propagarsi in cielo a grandi nuvole nere da dietro le
case che mi stavano davanti e sentì il cuore che saltò
un battito. Cominciai a correre, veloce come il vento, e svoltai a
destra alla fine della strada. Ciò che mi trovai davanti mi
fece inchiodare, talmente improvvisamente che quasi caddi. La
casa di Koichi era completamente in fiamme, così come tre case
lì vicine. Koichi era steso a terra, accasciato su quello che
poi riconobbi essere il suo cane. Era in lacrime, singhiozzava e
accarezzava il suo pelo. ‒ Police! ‒ Gridava di tanto in
tanto, tra i singhiozzi che lo scuotevano come un ramoscello al
vento, con una voce talmente disperata che mi fece gelare il sangue
nelle vene, nonostante il calore emanato dalle fiamme che
avviluppavano le case. Io me ne stavo lì impalato, ad una
decina di metri di distanza, con gli occhi sgranati, completamente
immobile ed improvvisamente privo di voce. Intanto le fiamme alte, di
colore rosso vivo, divoravano senza pietà la sua casa e le tre
case attorno, scoppiettando e sbuffando un fumo nero talmente denso
che faticava a dissolversi nell’aria. Guardavo le fulve
fiamme danzanti ed il loro fumo cinereo senza fiato. Quello che avevo
davanti era un disastro che andava peggiorando di minuto in minuto.
Un fortissimo brivido mi scosse da testa a piedi. Trovai la forza di
avvicinarmi a Koichi e mi chinai su di lui, ancora accasciato a
terra, braccia intorno al cane, viso schiacciato contro il suo pelo.
‒ Koichi… ‒ La mano che gli misi sulla spalla
lo destò dal suo pianto silenzioso. Alzò la testa dalla
chiazza di lacrime sul pelo del cane e mi guardò, gli occhi
infiammati di pianto e l’espressione più triste che gli
ebbi mai visto. ‒ Il temporale… ‒ Singhiozzò
con fatica. ‒ Sta colpendo tutte le case… La mia
famiglia era fuori casa… Dentro c’era solo Police…
‒ Posai lo sguardo sul cadavere del cane steso a terra, e
notai che c’erano chiazze di pelo bruciate sulla schiena e
sulle zampe. Mi soffermai sui dettagli della carne bruciata quanto
bastò per imprimerne un ricordo vivo nella mente. Come per
fatalità, un nuovo lampo si abbatté su una casa ad un
centinaio di metri da noi. Un allarme cominciò a suonare e la
casa prese fuoco all’istante, come se fosse stata pregna di
benzina. Non era affatto una situazione normale, avevo sicuramente
davanti, o meglio, attorno, un attacco Stand. Dopo una decina di
secondi dall’impatto del fulmine, quando già delle
fiamme avevano cominciato ad ardere l’abitazione, tre donne
scapparono fuori dall’ingresso della casa, reggendo in braccio
due gatti terrorizzati, avvinghiati con le unghie alle loro vesti.
Faticai a mettere in ordine i pensieri. Chiesi a Koichi, ancora
distrutto ai miei piedi, la prima cosa che mi venne in mente. ‒
Koichi, dove sono gli altri? Perché non sei a scuola? ‒
‒ Siamo scappati tutti dalla scuola perché stava
andando a fuoco. Ognuno è tornato a casa sua. ‒ Sospirai.
Sicuramente Josuke e Okuyasu erano al sicuro, grazie al potere di
Josuke. Crazy Diamond avrebbe sicuramente fatto comodo in una
situazione del genere, soprattutto per il povero Police: forse
avrebbe potuto salvarlo, se fosse stato lì al momento
dell’incendio. Ma ora era troppo tardi anche solo per pensarci,
e se le case stavano andando a fuoco in tutta la città, cosa
assai probabile, sicuramente Josuke si era già messo all’opera
per salvare il salvabile. Un altro lampo piombò con violenza
sull’antenna di una casa non molto distante da noi, provocando
una forte esplosione che incendiò la casa in una manciata di
secondi, nello stesso modo innaturale di prima. La situazione stava
degenerando. Una sirena dei pompieri si udì in lontananza, ma
non mi fece provare sollievo: se si trattava di un attacco Stand,
forse l’acqua era impotente su tutte quelle fiamme che mi
stavano attorno. Udii la telefonata della ragazza scappata da casa
col gatto in grembo, che urlava terrorizzata al suo cellulare: ‒
In tutta la città? I fulmini stanno colpendo tutte le case?
Una ad una? ‒ All’improvviso un’idea mi balenò
in mente e mi sentì cadere a terra dallo sgomento. Tutto
attorno a me si ammutolì. Non c’era più lo
scoppiettare atroce delle fiamme, le sirene dei pompieri, i
singhiozzi di Koichi; c’era solo la voce della ragazza, un’eco
infinito di quelle quattro parole che avevo udito. La ripercorsi a
ritroso, preso dal panico improvviso. Una
ad una. I fulmini stanno colpendo tutte le case. In tutta la
città. Questo
poteva voler dire solo una cosa: che la mia casa stava già
bruciando ‒ di nuovo! Ma che problema aveva la mia casa col
fuoco? ‒ o che l’avrebbe fatto presto.
I miei muscoli si mossero da soli: scattai via, verso la direzione da
dove ero venuto, senza dire una parola a Koichi. Mi misi a correre,
veloce come ero stato poche volte in vita mia. Sfrecciai a fianco del
Deux Magots, notando che andava a fuoco. Francamente non provai
dispiacere, non mi occupò i pensieri per più di qualche
istante: essi erano concentrati su altro. C’era un’immagine
fissa nella mia mente e niente l’avrebbe rimossa, perché
niente importava più di quello che mi stava facendo sfrecciare
per le strade: le tavole che avevo disegnato la sera prima, frutto di
un’ispirazione provata poche volte durante la mia carriera di
mangaka. In quel preciso istante erano l’unica cosa di cui mi
importava. Le case si potevano ricostruire, le persone potevano
salvarsi, scappare, o farsi aiutare dalle forze dell’ordine già
in moto. Quelle preziose tavole, quei disegni di cui ero così
fiero e soddisfatto no, erano alla mercé delle fiamme…
Ed io ero così distante! Mi maledissi per aver avuto l’idea
di uscire, quella mattina, anziché starmene in casa come ero
solito fare, mentre il petto mi bruciava per lo sforzo. La strada
sembrava non finire più, e ad aggravare il mio panico c’erano
i fulmini e le fiamme. Ogni casa a cui passavo accanto era in fiamme,
alcune erano addirittura già ridotte in cenere. La gente
sfollata vagava per le strade scioccata, tra le lacrime, reggendo
animali, sia morti che vivi. Mi sfrecciarono accanto ambulanze,
pompieri, polizia; io correvo a perdifiato, col pensiero fisso sulle
mie tavole. Non sarei più stato in grado di disegnare così
bene. Non sarebbe successo per chissà quanto tempo, e avrei
perso una parte vitale della mia opera. L’ispirazione della
sera prima era arsa duplicemente: quella sera era arsa in me, mi
aveva infuocato e permesso di disegnare quelle tavole, mentre ora era
il suo prodotto che ardeva e che probabilmente stava diventando
cenere mentre io mi affannavo per raggiungerlo. Era un vero e proprio
incubo che diventava realtà, straziante realtà. La mia
unica vera paura, in fondo, è quella di perdere il talento, o
il prodotto del mio talento. Disegnare è la mia vocazione,
raccontare storie realistiche tutto ciò che conta per me.
Certo, avrei potuto disegnare quelle tavole di nuovo, ma non
sarebbero mai, mai
state realistiche come le originali. Non sarei mai stato in grado di
riprodurre le stesse tavole nello stesso modo in cui ero stato in
grado di disegnarle come quella sera. E perdere quelle tavole
significava perdere una parte vitale di me. Già una volta, per
colpa di un troglodita con dei capelli ridicoli, la mia casa era
andata a fuoco, e già allora era stato tremendo… Ma
questa volta era molto peggio. Assurdamente peggio. Correvo, col
petto straziato, sia per la corsa senza pausa, sia per il fumo delle
case in fiamme ovunque attorno a me che inalavo a grandi respiri. Fui
costretto a fermarmi per riprendere fiato, non certo per mia volontà.
Ero allo stremo delle forze. Mi voltai per guardare cosa mi ero
lasciato alle spalle durante la corsa, accasciandomi al suolo su un
marciapiede, coi i polpacci che mi bruciavano come se stessero
andando a fuoco assieme alle case che stavo guardando. La lunga via
che avevo percorso, normalmente tempestata di piccole case graziose,
alberi verdi e cespugli, era uno scenario infernale. Ogni singola
casa era in fiamme. Una coltre di fumo nero si era formata sopra di
esse, come a fare da scudo tra Morioh e il cielo. Le fiamme
danzavano, di un rosso vivo così ardente che mi fece
rabbrividire, il loro rosso vivo a contrasto col cielo nero. Delle
piccole nubi di fumo si alzavano da ogni dove, in ogni punto della
città che i miei occhi riuscivano a scorgere. Quante persone
stavano bruciando in quel momento? Quanti animali? Mi sentì
perso, impotente, disperato all’idea. Era un incubo, un
disastro immane. In quel momento, ogni persona a Morioh stava
perdendo tutto. Io compreso. Scattai di nuovo in piedi anche
se non avevo ancora ripreso completamente fiato, petto e gola che
bruciavano, sperando di arrivare prima del fatale destino che
incombeva sulla mia casa e sulla mia vita. Le mie gambe falciavano
l’aria, i talloni quasi non toccavano terra. Non so
quantificare in quanti minuti giunsi a casa, so solo che avevo quasi
raggiunto l’esaurimento nervoso e fisico. E, una volta
giunto davanti, mi sentì morire. La casa era completamente
in fiamme, dentro e fuori. Il fuoco ricopriva il tetto, si propagava
verso il cielo nero, denso di fumo; usciva dalle finestre, dalla
fessura della porta d’entrata che era già diventata
nera. Sicuramente tutto ciò che era all’interno
dell’abitazione era già carbonizzato, le mie preziose
tavole ridotte in cenere. Mi portai le mani nei capelli; gli occhi,
tanto era lo strazio e l’incredulità che stavo provando,
quasi mi uscirono dalle orbite. Non poteva accadermi davvero, non
poteva assolutamente essere reale. Ero incredulo, nonostante la
verità danzasse ardente davanti ai miei occhi, come le
maledette fiamme che stavano divorando la mia casa, il mio studio, il
mio lavoro, la mia vita. Sentì il rumore di qualcosa che
cadeva, probabilmente era il soffitto del piano terra che, arso del
tutto, stava cominciando a cedere. Ero arrivato terribilmente tardi,
non c’era niente che potessi fare. Era un incubo. Un vero e
proprio incubo divenuto realtà davanti ai miei occhi.
Un
incubo. Queste due parole mi risuonarono nella mente più e più
volte; due parole in grado di sovrastare persino il pensiero delle
mie tavole andate in fumo. Un
incubo.
Aprii gli occhi di soprassalto, scosso da dentro, respirando
improvvisamente come se fossi emerso da un’apnea durata fino
quasi alla morte. Il mio primo pensiero, distratto e annebbiato, fu
quello di trovarmi all’ospedale. Forse ero svenuto davanti alla
mia casa in fiamme? Notai invece, con stupore e confusione
dilagante, che ero seduto sul mio letto, grondante di sudore, in
preda al fiatone che faticavo a calmare. Boccheggiai mentre il cuore
galoppante proprio non voleva saperne di calmarsi. Cosa stava
succedendo? E la mia casa? E le mie tavole…? Mi guardai
attorno meglio, non con poca fatica. Della luce filtrava dalla
finestra della mia camera, permettendomi di vedere quando bastava per
accertarmi di essere là e non in una stanza d’ospedale,
come avevo supposto prima. Ero proprio nella mia camera da letto,
nella mia solita casa, tra la solita penombra che l’avvolgeva
tutte le mattine. Ma com’era possibile, se essa era andata a
fuoco…? Scesi dal letto di scatto, così in fretta
che per qualche istante ebbi un capogiro e mi si annebbiò la
vista. Camminai imperterrito, nonostante ancora respirassi male e
facessi fatica a mantenermi in equilibrio, appoggiandomi qua e là;
uscì dalla mia camera e percorsi il corridoio. Aprì la
porta dello studio, il mio caro studio, e le vidi già da
lontano. Le mie tavole erano lì, accanto alla scrivania, nella
loro busta marrone. Mi precipitai ad afferrarle, aprì la busta
con mani tremanti e le osservai con crescente sollievo: erano loro,
erano salve. Erano le mie preziose tavole, e non erano ridotte in
cenere. Mi sentii male di nuovo, peggio di prima, ma resistetti ed
aspettai di averle riposte in ordine nella loro busta e di averle
appoggiate in sicurezza, prima di accasciarmi sulla poltrona dello
studio con la testa tra le mani, in preda ad un nuovo e più
violento capogiro. Dunque era davvero stato un incubo. Morioh non
era andata a fuoco, Koichi non stava soffrendo per la morte di
Police. Era stato tutto un lungo, terribile e realistico sogno.
Ripensai ad alcuni dettagli che mi erano sembrati strani, ma su cui
non mi ero soffermato al momento, e capì tutto. Per esempio,
capì perché Ayako era la commessa del Deux Magots. È
così che funziona generalmente nei sogni: il tuo inconscio
sogna persone che già conosci, talvolta ponendole in ruoli
totalmente diversi dalla quelli che impiegano in realtà, e non
si sofferma sugli sconosciuti, li elimina, se necessario.
Effettivamente, non ero in grado di ricordare le facce dei signori
presenti al Cafè, e anche nel sogno mi era sembrato che
fossero troppo vaghi. E gli scenari, nei sogni, cambiano velocemente
e sono diversi dalla realtà, per questo mi era sembrato di
averci messo pochissimo da casa mia al Deux Magots e così
tanto da casa di Koichi alla mia. Ripensai al sogno con la testa
tra le mani finché non mi ripresi quanto bastava, poi,
lentamente, mi recai alla finestra dello studio. Spalancai le
persiane e la luce del sole e l’aria fresca si schiantarono sul
mio viso umido di sudore; era un gesto banale che facevo ogni
mattina, ma quel giorno mi sembrò una benedizione. Guardai la
piccola parte di Morioh che si spianava davanti a me, con le sue
strade, i suoi alberi e le sue case colorate. Inspirai, sentendo il
malessere che si calmava, notando che non c’era traccia di
fiamme, fumo, pompieri e gente che scappava dalle abitazioni. Era
tutto normale come al solito; mi sentì stupido a stupirmene,
avendo ormai assodato che la mia esperienza infernale era stata solo
un sogno, ma non potei evitare di provare un gran sollievo. C’era
qualcosa, però, che infastidì subito quella sensazione
di tranquillità e di sollievo. Mi chiesi il perché di
quel sogno, e non per semplice curiosità, ma perché la
cosa mi puzzava e non poco. In tutta la mia vita non mi era mai
capitato di fare un incubo simile. Non una sola volta. A peggiorare i
miei sospetti, poi, c’era il fatto che non mi era sembrato un
incubo qualsiasi. Ne ho fatti molti di incubi in vita mia, ma quello
era stato il più strano. Era così vivido che ancora mi
sembrava di avere le gambe in fiamme, tanto realistico che riuscivo
ancora a percepire l’odore di bruciato che aveva impregnato
l’aria durante la mia corsa. E quella sensazione di essere
costantemente osservato che non mi aveva lasciato mai, dal principio
alla fine del sogno… Qualcosa non quadrava. Sentivo dentro di
me che non era stato un incubo qualsiasi. Il ricordo della mostra
di Alistair Pearce mi colpì. Potevano essere stati i suoi
quadri terrificanti ad avermi sconvolto così tanto da
provocarmi un tale incubo? Era assai improbabile. Mi conoscevo bene,
e sapevo quale reazione avevano su di me le cose spaventose. E se mi
facevano avere degli incubi, certamente non erano di quella portata.
Tutto e niente poteva essere; un caso, una reazione insolita della
mia mente ai suicidi, ai quadri di Pearce… Non sapevo
spiegarmelo, e decisi così di accantonare le domande per aver
pace almeno qualche ora. Ero stanco nel corpo e nella mente,
dopotutto non era certo stato un buon sonno quello che avevo dormito.
Feci un passo per tornarmene a dormire, ma un nuovo pensiero mi
bloccò: il problema dei suicidi, purtroppo, non era stato solo
un incubo, stava accadendo davvero. Scesi al piano di sotto ed
allungai la mano fuori dalla porta per agguantare il giornale, pronto
ad aspettarmi il peggio. Lessi le “Novità
di oggi, 10
febbraio 2001” – di
nuovo,
pensai, a metà fra il riso e l’inquietudine – e
lessi con dispiacere che altre due persone erano morte. Due pendolari
quarantenni, colleghi di lavoro e amici, che vivevano a Morioh e
lavoravano nella città S. Chiusi violentemente il
quotidiano e lo buttai nella spazzatura, tanto ero stufo di quella
storia. Non c’era nulla che potessi fare se non aspettare
notizie da Josuke, Okuyasu e Koichi, che nel primo pomeriggio mi
avrebbero riferito se c’erano eventuali studenti assenti. La
noia e l’impotenza mi colsero di nuovo; non avevo voglia di
uscire e nemmeno di lavorare, visto che ero persino in anticipo con
il mio manga, così sedetti sulla mia poltrona morbida,
cercando di riordinare i pensieri. Non passò neppure un minuto
che già mi ero assopito senza nemmeno accorgermene.
Mi
svegliai di soprassalto, ancora una volta sudato e boccheggiante.
Avevo fatto un altro incubo durante la misera ora in cui avevo
dormito. Non era minimamente comparabile al precedente, ma era pur
sempre stato un sogno terribile: mi trovavo in uno scantinato buio e
umido e osservavo un uomo senza volto disegnare pagine del mio manga,
rifinirle ed ordinare ad un ragazzo di consegnarle all’editore.
Impotente e disperato, legato mani e piedi con spesse corde che mi
provocavano dolore, vedevo il mio manga pubblicato con disegni
tremendi, la mia trama totalmente cambiata, i personaggi stravolti,
la mia storia mandata in rovina. L’uomo senza volto mi
consegnava delle lettere dei miei lettori colme di sdegno e delusione
in cui mi dicevano che avrebbero smesso di leggermi, che da me non se
lo sarebbero mai aspettati; mentre ero legato, inerme davanti alla
tortura psicologica, perdevo tutto. La mia opera, i miei lettori,
persino i miei soldi e la mia casa. L’inquietudine mi invase
mentre camminavo avanti e indietro per il soggiorno, ripensando
all’incubo. Era davvero strano che avessi avuto due incubi,
entrambi sulla mia paura più grande, uno dietro l’altro.
Era semplicemente improbabile. Se prima la situazione mi sembrava
strana, ora ne avevo la certezza. Anche questa volta la sensazione di
essere osservato da occhi invisibili ed indiscreti mi aveva
accompagnato per tutta la durata del sogno. Non chiedetemi come, ma
sapevo di essere osservato da occhi esterni mentre l’uomo
distruggeva la mia vita e la mia carriera. Camminavo e camminavo,
torturandomi le mani senza nemmeno accorgermene, con crescente ansia.
Ma perché mi sentivo così? Sapevo che erano stati solo
incubi, frutto di una qualche inquietudine del mio inconscio; perché
sentivo questa paranoia, quest’ansia pervadermi tutto a un
tratto anche se gli incubi erano terminati? Il sogno era finito da un
bel pezzo, ma io continuavo a sudare freddo. Stavo forse cadendo
vittima anche io della strana epidemia di terrore e paranoia che
aveva portato tutte quelle persone al suicidio? No, non era
possibile. Una persona razionale come me non sarebbe mai potuta
arrivare a tanto. Inoltre, se uno Stand mi avesse attaccato, me ne
sarei sicuramente accorto. Accantonai il pensiero, nonostante sapessi
di star mostrando gli stessi sintomi delle vittime di Morioh morte
durante la settimana. Era una coincidenza, non poteva star accadendo
a me. O almeno così mi ripetei quanto bastava per
convincermene. Ero ancora stanco, sia fisicamente che
psicologicamente, ma quando mi sedetti di nuovo sulla poltrona mi
trovai ad aver timore di addormentarmi. Io, Rohan Kishibe, che ormai
ne avevo viste di tutti i colori, che troppe volte mi ero messo
appositamente in pericolo pur di accaparrarmi una storia, che ero
sempre stato un maledetto spericolato privo di qualsiasi timore…
Mi ritrovavo ad aver paura del sonno? Mi passai una mano tra i
capelli sudati e sfatti e cominciai a respirare profondamente. Non
c’era motivo di essere paranoico, la mia ansia era immotivata.
Non ero vittima di nessun attacco. Avevo bisogno di qualche ora di
sonno e questa volta non avrei avuto incubi. Ripetei queste
affermazioni molte volte, concentrandomi solo su di esse e sul mio
petto che si alzava e si abbassava ritmicamente, e dopo uno sforzo
non da poco caddi finalmente nel sonno.
Annaspai fuori da un
terzo incubo, di nuovo sudato, di nuovo ansante, di nuovo scosso da
fremiti di paura. Lanciai uno sguardo all’orologio: era passata
un’ora dal mio secondo tentativo di sonno. Mi gettai a
terra, coi pugni stretti dalla rabbia e dallo stress. Avevo sognato
ancora una volta la mia rovina; per vie diverse, ma pur sempre la mia
rovina. Stavolta perdevo l’uso della parola e la capacità
motoria, e immobile come un’ameba guardavo la mia scrivania, i
pennelli e la carta che venivano ricoperti da uno strato di polvere
sempre più spesso, senza che potessi muovere un solo dito.
Potevo solo disperarmi col pensiero, impossibilitato perfino ad
urlare, desiderando di morire. E di nuovo la sensazione di due occhi
che mi fissavano da ogni angolo, come se una finestra fosse aperta
sul mio sogno e qualcuno mi stesse osservando curioso. Quando,
ancora accasciato al suolo, ripensai a quella frase, sentì gli
ingranaggi dei miei pensieri scattare, animati da una realizzazione
improvvisa. Ripetei le parole appena pensate nella mia mente,
scandendole bene: era
come se una finestra fosse aperta sul mio sogno e qualcuno mi stesse
osservando curioso. Mi
balenò in mente la faccia di Alistair Pearce, con quei suoi
occhietti scuri, occhi con un bagliore vivo; un bagliore di curiosità
affine alla mia, di una persona che scruta e ruba le esperienze e i
terrori altrui. Mi ricordai una frase che mi aveva detto durante un
nostro colloquio: ‒
Io sono solo uno spettatore degli incubi altrui, e la mia missione è
quella di rappresentarli nelle mie opere. Per questo sono molto grato
a chi condivide le proprie esperienze con me. ‒ In
quel momento tutto fu chiaro, semplice e limpido come l’acqua.
Mi sentì stupido a non averci pensato prima: gli occhi che mi
avevano osservato durante i sogni erano quelli del pittore, quei
dannati occhietti curiosi e bramosi di terrore! Doveva essermi
tremendamente grato, il maledetto, per avergli offerto per tre volte
il mio terrore e la mia paura più grande su un piatto
d’argento! Ora che ci pensavo, una delle ragazze che avevo
visto nei quadri non mi era sembrata familiare perché aveva un
tipico viso asiatico, ma perché era una delle prime vittime di
suicidio della città. Mi
girava la testa, sentivo gli occhi bruciare e probabilmente avevo le
occhiaie scure come la morte, ma un nuovo fuoco mi arse nel petto e
mi costrinse ad alzarmi. Dovevo andare da quell’uomo e porre
fine alle sue malefatte. Se era lui il responsabile dei suicidi
doveva assolutamente pagarla cara. Tornai in camera di corsa in preda
a nuove sensazioni, oltre al panico e all’inquietudine che non
avevano smesso di attanagliarmi: era un senso di dovere e soprattutto
di vendetta. Dovevo assolutamente affrontare Pearce, e non solo per
accaparrarmi una bella storia da raccontare, ma per giustiziarlo e
vendicarmi. I volti delle vittime stampati in bianco e nero sul
giornale mi passarono uno dopo l’altro davanti agli occhi;
pensai a quanto avrebbero potuto vivere ancora quegli studenti, ai
sogni che sicuramente avevano avuto, alle famiglie che si erano
trovate senza un fratello, una sorella, senza una madre o un padre, e
mi trovai pervaso e scosso da un fremito colmo di vendetta e di
rabbia. Non vi nego che pensai di ucciderlo con le mie stesse mani.
Non sapevo se ne sarei stato in grado e nemmeno se sarebbe stato
giusto; non sapevo nemmeno cosa avrei veramente fatto una volta
arrivato da lui. Sapevo solo che dovevo andare, e in fretta: ormai
ero una vittima del suo attacco, e finché non gli avessi messo
fine, il panico, l’angoscia e la frustrazione non mi avrebbero
lasciato. Anzi, sarebbero solo peggiorate, forse portandomi al
suicidio come le povere anime che mi avevano preceduto. Mi buttai
dell’acqua fredda sul viso, sperando di rinsavire almeno un
po’, ed uscì di casa. Non c’era tempo di avvisare
i ragazzi, che tra l’altro erano ancora a scuola, essendo quasi
mezzogiorno. Me la sarei sbrigato da solo.
Il
tragitto in pullman fu una delle esperienze più disturbanti
della mia vita. La paranoia mi assaliva sempre più, tanto che
cominciai solo in quel momento a comprendere la portata di
quell’attacco e la tortura che avevano subito le persone che si
erano suicidate; in quel momento capì perché erano
arrivate a tanto. Non c’era nulla attorno a me che costituisse
un pericolo, ero completamente al sicuro, eppure ogni minima cosa
costituiva un allarme alla mia sicurezza, almeno nella mia mente.
Ogni persona mi sembrava una minaccia, ogni vecchietta silenziosa e
fragile avrebbe potuto attaccarmi da un momento all’altro. I
loro bastoni di legno mi parvero katane, i loro sorrisi gentili
ghigni malefici; gli uomini, poi, oh! Chissà quante armi
nascondevano sotto le giacche, nelle loro valigette! E l’autista,
quell’uomo sospettoso, non stava allungando il tragitto? Non
era la solita strada, quella! Dove ci stava portando? Cosa aveva in
mente? E perché il veicolo faceva dei rumori così
strani, così insoliti? Forse aveva dei problemi, forse era
pericoloso viaggiarci all’interno? Il sogno in cui Morioh
andava a fuoco mi sembrò un paradiso in confronto a quei
minuti in pullman. Furono appena dieci, ma per la mia mente il
viaggio durò un’eternità. La parte razionale e
quella paranoica del mio cervello sotto attacco combattevano senza
sosta, e ovviamente quella paranoica stava avendo la meglio. Inoltre
ero stanco, stanco da morire, tanto che non mi sedetti per paura di
addormentarmi. Se fosse successo, sicuramente avrei avuto un nuovo
incubo e l'angoscia sarebbe aumentata a dismisura. La situazione era
destinata a peggiorare sempre più, ed il culmine di essa
sarebbe stato il mio suicidio. Cominciai ad avere brevi ma
incontrollabili scatti nervosi a mani e gambe e capì che ero
davvero rovinato. Finalmente il pullman si fermò alla
stazione, ed io scesi a velocità della luce. Corsi fino alla
casa che ospitava la mostra, sia per la fretta di sconfiggere Pearce,
sia perché ero nella paranoia più totale. Meno rimanevo
in strada, meglio era. Ogni ombra, ogni ramo d’albero mosso dal
vento, ogni persona che mi passava accanto erano una tortura
psicologica. Il mio respiro era stato affannoso per tutto il
tragitto, la testa mi girava; quasi caddi mentre schivavo un
sassolino come se fosse una mina. Come mi aveva ridotto, quel
maledetto pittore! Come aveva conciato Rohan Kishibe, fino a quel
giorno fiero e senza paura! Sentì la rabbia crescere mentre la
villetta gialla si faceva sempre più vicina. Arrivato
all’ingresso mi fermai per qualche secondo; cercai di
controllare il respiro, di assumere un minimo contegno. Non volevo
mostrarmi sconvolto e preda dell’attacco, volevo sembrare
sicuro di me e nel controllo più totale. Mostrarmi debole a
Pearce significava dargliela vinta, e giurai sul mio onore che non
sarebbe successo. Entrai ispirando a pieni polmoni e mi accolse il
ragazzo della volta precedente. Si ricordò di me e mi chiese
se avevo il biglietto dell’altra volta da mostrargli, così
sarei entrato gratuitamente. Io non badavo quasi per nulla alle sue
parole, i miei occhi erano occupati a scrutare sgranati quella
piccola parte di mostra che s’intravedeva dall’arcata
principale. Mi sembrava vuota. ‒ L’ho dimenticato. ‒
Gli dissi distratto, senza staccare gli occhi dalla prima stanza
della mostra. Tirai fuori una banconota stropicciata dalla tasca e la
posai con veemenza sul ripiano. Senza attendere un solo secondo, mi
allontanai e varcai la soglia della stanza principale. ‒
Signore, il suo resto! ‒ Disse il ragazzo alle mie spalle,
impacciato e sicuramente sconcertato dal mio comportamento. ‒
Tienilo. ‒ Gli dissi senza voltare la testa mentre scrutavo i
quadri nella stanza vuota, ancora gli stessi della prima volta. Lo
udì ringraziare imbarazzato. Non mi soffermai per più
di qualche istante sui quadri: nella situazione psicologica in cui
ero avrebbero aumentato il panico, ed era l’ultima cosa di cui
avevo bisogno. Mi diressi a passo svelto nella seconda stanza e notai
subito che i quadri erano aumentati. Ce n’erano precisamente
quattro in più. Mi colpì subito uno più grande,
posto in modo che lo sguardo vi cadesse inevitabilmente sopra una
volta entrati; non solo per questo mi colpì, però. Ebbe
lo stesso effetto di un pugno nella pancia perché dentro vi
era raffigurato il mio primo incubo. Un uomo in cui mi riconobbi,
accasciato al suolo di spalle, guardava la città arsa dalle
fiamme stagliarsi davanti a lui. Era identico a ciò che avevo
visto in sogno, non un singolo dettaglio alterato; era solo visto da
una prospettiva diversa dalla mia, cioè quella dello sguardo
curioso che mi ero sentito addosso per tutto l’incubo. Era
strano averlo davanti, dipinto su tela, perfettamente identico a come
lo avevo sognato. Un brivido mi percorse violento la schiena e
l’ansia tornò a bussare insistentemente nella mia testa.
Dunque Alistair Pearce era davvero un ladro di incubi. La sua arte
era spettacolare, le pennellate e l’uso dei colori da vero
artista, ma ciò che era nei suoi quadri non era assolutamente
suo. Quando, il giorno prima, avevo pensato che quelle nei quadri
fossero le paure degli altri viste coi suoi occhi, ci avevo
azzeccato, solo che io l'avevo inteso in modo figurato e non
letterale, come in realtà era. ‒ Kishibe Rohan! ‒
Tuonò una voce alle mie spalle. Mi voltai di scatto, occhi
granati, col panico che mi pervadeva sempre più forte e quel
fuoco di rabbia che mi bruciava dentro. Alistair Pearce era entrato
nella stanza, vestito di tutto punto, testa lucida e baffetti
arrotolati all’insù a decorare il suo sorriso, che mi
parve malefico ed agghiacciante. ‒ Ha dormito bene? ‒
Mi chiese con un sorriso beffardo. Quella richiesta fu come uno
schiaffo in faccia e non fece altro che aumentare la mia rabbia.
All’improvviso assunsi uno strepitoso controllo di me.
Drizzai la schiena, il mio viso si rilassò, fui persino in
grado di sorridere con un po’ di malignità sulle labbra.
Dentro me c’era ancora il panico, l’ansia e
l’inquietudine, ma avere davanti l’assassino mi diede la
forza di contrastarle. Avevo il mio Stand, potevo aprirlo. Non c’era
modo in cui potesse vincere. ‒ Oh, sì, grazie. ‒
Sorrisi io di rimando a quelle labbra beffarde. ‒ Anche se ho
fatto un sogno, uno stranissimo sogno. Ogni casa a Morioh andava a
fuoco... Ma lei già lo sa. Anche io lo so. So tutto. So che
lei è un assassino. ‒ La mia voce, pacata e tagliente
fino ad un certo punto, durante le ultime frasi si alzò contro
la mia volontà, diventando un ringhio colmo di veleno. ‒
Cos’è tutta questa rabbia, signor Kishibe? ‒ Mi
chiese, quasi divertito dal mio scoppio. ‒ Non siamo forse
affini, noi? Ho letto in una sua intervista che lei attinge dalla
realtà per le sue opere, che è l’unico modo di
produrre qualcosa di valido. È quello che faccio anche io!
Siamo artisti, e l’arte ha un prezzo: che sia la propria vita,
la propria salute, o quella degli altri! ‒ Mi sentii
insultato nel profondo per l’accostamento della mia persona a
quel mostro, e ciò non fece altro che indignarmi
ulteriormente. Non potei fare a meno di sputare parole avvelenate
dalla mia bocca. ‒ Lei non è un artista. Lei è
un mostro, un ladro, un assassino, ed io non sarò mai come
lei. ‒ Pearce rise ancora una volta. ‒ Mi sta
dipingendo come il mostro che non sono. Non l’ho voluto io,
questo dono. È venuto a me nelle fattezze di una freccia ed io
non ho fatto altro che accettarlo. ‒ Dunque non era uno
Stand spontaneo, era anche lui vittima di arco e freccia. Quanti
danni avevano fatto, e chissà quanti altri da scoprire…
Ma non era comunque una scusa per il pittore. Ciò che aveva
fatto era imperdonabile. ‒ Lei non si rende conto di quello
che ha fatto e che sta continuando a fare. ‒ Dissi scuotendo la
testa. ‒ E invece sì. ‒ Tuonò lui,
animato tutto ad un tratto da una sorta di irritazione. ‒ Me ne
rendo conto e ne traggo vantaggio. È da quando sono stato
colpito con una freccia due anni fa che sono in grado di fare dei
quadri così realisticamente terrificanti! Anche prima ero
bravo, ma da quel giorno, tramite uno strano pennello che si
materializza tra le mie mani, sono diventato il migliore. Da quando
ho cominciato a dipingere con quel pennello, ho cominciato a causare
incubi a chi guardava i miei quadri… E, tramite delle visioni
che mi prendono da un momento all’altro, posso vedere questi
sogni e ricordarli alla perfezione, così da dipingerli! Non
decido io cosa accade nei sogni dei malcapitati, è questo il
bello, è la loro mente che fa tutto. Io ho solo una poltrona
in prima fila. Questo potere è strabiliante. Gli ho dato anche
un nome: Fear
of Sleep,
azzeccato,
non trova? È stato un dono del cielo. Grazie ad esso, da
allora, quelle nei miei quadri sono paure vere, scaturite
dall’inconscio delle mie vittime. Sono assurde, impossibili…
Ma sono reali. E non c’è niente, niente che possa
superare il realismo in qualsiasi opera. ‒ Sorrisi
amaramente. La nostra affinità era sorprendente, anche se io,
a contrario suo, un’anima l’avevo. La rabbia che
sentivo dentro aumentò. ‒ Si rende conto che la gente si
sta suicidando perché non riesce più a dormire? Ogni
volta che una vittima si addormenta fa un incubo, e ciò la
porta all’esaurimento. Non le basta un incubo solo? Perché
deve arrivare ad uccidere? ‒ Pearce sospirò
amareggiato. ‒ Non c’è niente che io possa farci.
Mia moglie è morta a causa mia, dei miei incubi, ed io non ho
potuto fermarlo. Non ho controllo! Non capita con tutti, ma basta che
la persona giusta veda un mio quadro per far scattare l’attacco.
E una volta che arriva il primo incubo, non c’è più
via di scampo. Avrò mietuto almeno un centinaio di vittime
ormai… Ma sa una cosa? La mia ambizione di pittore è
più grande di qualsiasi senso di colpa! ‒ Inspirai
profondamente. Mi trovavo improvvisamente diviso: da una parte lo
capivo; capivo la sua ambizione e capivo che non poteva fare nulla
per fermare i suoi attacchi. Ma dall’altra parte l’egoismo
e la malignità con cui aveva abbracciato quel dono mi facevano
accapponare la pelle. Sapeva che bastava uno sguardo ai suoi quadri
per scatenare “il suo dono” e organizzava appositamente
delle mostre, così da mietere centinaia di vittime e
arricchire sé e la propria carriera? Nemmeno io, con la mia
ambizione e necessità per qualcosa di reale, sarei mai
riuscito a fare una cosa simile. Era semplicemente meschino. ‒
Mi sorprende come lei sia riuscito a capire che ero io l’artefice
dei suoi incubi
e delle
sue ansie. ‒ Continuò dopo qualche secondo di silenzio.
‒ È stato l’unico, finora. E la sua mente, signor
Kishibe… Se lo lasci dire, la sua mente è incredibile!
Paura ardente
è assolutamente uno dei miei quadri migliori, non smetterò
mai di esserle grato! Perché non prova a dormire di nuovo,
prima che la sua paura raggiunga il culmine e la conduca alla morte?
Vorrei che mi regalasse ancora qualche incubo. ‒ Ah, era
dunque così che aveva chiamato il mio quadro? Paura
ardente? Non
sapevo se ridere o mettergli le mani addosso. Inspirai di nuovo tra
la rabbia e l’ansia che, anche se sotto controllo, non mi aveva
mai lasciato. ‒ Mi rifiuto! ‒ Senza esitare un
solo momento in più, chiamai il mio Heaven’s Door. Era
debole, risentiva del mio stato psicofisico, ma fece il suo effetto.
Alistair Pearce cadde a terra esanime, il viso aperto come un libro.
Mi precipitai da lui e lessi in fretta se ciò che mi aveva
detto corrispondeva alla realtà. Era tutto vero: due anni
prima si era trasferito in Giappone ed era stato colpito da una
freccia, e sopravvivendo aveva sviluppato lo Stand che da lì
in poi avrebbe ucciso molte persone. La crudeltà di quella
persona mi fece rabbrividire: in realtà non avrebbe voluto
uccidere nessuno, ma non era neanche troppo dispiaciuto quando
accadeva. Da quando aveva capito come funzionava il suo potere, non
senza sforzo e non certo in poco tempo, non si era più fatto
alcuna remora ed era diventato un vero e proprio serial killer. Mi
trovai ancora una volta combattuto: potevo condannarlo a morte o
cambiare la sua vita, ma cosa era più giusto? Qual era la
scelta migliore? Non mi era mai piaciuto mettermi nei panni di Dio,
ma stavolta era inevitabile. Optai per la scelta che ritenni
migliore, ovvero a metà fra la condanna e la liberazione.
Cercai di vederla con obiettività; se non mi fossi messo in
panni imparziali, probabilmente lo avrei ucciso o condannato ad una
vita terribile. Ammetto che mi feci guidare molto dal desiderio di
vendetta, ma mi seppi anche trattenere, ve lo assicuro. Guardai
l’orologio e cominciai a scrivere. “Tutti
gli attacchi in corso del mio Stand cesseranno oggi, 10 febbraio
2001, ore 12:37. Le vittime che non sono ancora morte torneranno
normali. D’ora in poi posso causare un solo incubo per persona,
e la vittima non ricorderà nemmeno di averlo fatto. Mi sento
tanto in colpa per aver ucciso delle persone, non smetterà mai
di tormentarmi! Per questo ho deciso di donare per tutta la mia vita
il 70% del ricavato mensile dei miei quadri in beneficenza a favore
dei disturbi mentali legati alla paura, al panico e all’ansia.
E sarò sempre gentile e disponibile con tutti, così da
redimermi per tutte le morti che ho causato. Kishibe Rohan è
venuto alla mia mostra una volta sola, ma è andato via subito
dicendo che i miei quadri fanno schifo. Come ci sono rimasto male!
Piangerò e mi dispererò per giorni dalla delusione! Gli
spedirò il mio “Paura ardente” per cercare di
ingraziarmelo.” Per
fortuna del pittore sentì il mio Stand indebolirsi sempre più
e fui costretto a fermarmi lì, altrimenti chissà quante
cattiverie avrei scritto. Mi alzai in piedi soddisfatto, osservai
Alistair Pearce dormiente sotto di me per un’ultima volta e mi
dileguai. Salutai con un sorriso il ragazzo alla reception ed uscì
in fretta dalla villetta gialla. Mi fermai sotto ad un albero mosso
dal vento leggero, sentendomi finalmente liberato da ogni ansia.
Inspirai a grandi polmoni quella serenità, già buona di
suo, ma ora resa squisita dalle sensazioni provate quel giorno. Mi
innervosiva pensare che l’assassino era stato sempre così
vicino, eppure ci avevamo messo un’intera settimana… Ma
non c’era ragione di piangere sul latte versato. Ancora una
volta dovevo ringraziare la mia curiosità, anche se forse
questa volta era opera del destino più che della mia indole
curiosa. Se non avessi visitato la mostra il giorno prima, forse
avremmo scoperto il colpevole molto tempo dopo. Guardai il cielo:
ogni traccia di brutto tempo era svanita ed ora il sole splendeva,
freddo e pigro. Sorrisi ancora della sua empatia mentre mi
incamminavo a casa, stavolta a piedi, col cuore finalmente leggero e
la mente carica di idee.
***
Meditai
a lungo, osservando la spettacolare Paura
ardente appesa
in salotto, riguardo a quell’avventura ricca di ansia, paura,
di rabbia e vendetta. Avevo agito bene? Avrei dovuto punirlo o
perdonarlo? Era brutto giocare a fare Dio. Speravo non mi sarebbe mai
più capitato. Koichi criticò la mia scelta, quando
raccontai tutto ai ragazzi: disse che non spettava a me punirlo.
Forse aveva ragione… Ma francamente non mi sentì in
colpa. Non avreste fatto lo stesso se ne aveste avuto il potere? Non
potevo lasciarlo impunito. Spettava a me? Non mi spettava affatto?
Poco m’importa. Avevo una penna con cui scrivere giustizia e
non ho sprecato l’occasione… Approfittandomene un po’,
lo ammetto. I ragazzi furono tuttavia fieri del mio operato. Mi
dissero che ben due studenti erano stati attaccati domenica e non si
erano presentati a scuola lunedì, ma grazie al mio intervento
ogni ansia e ogni incubo erano cessati ed ora stavano bene. Soddisfai
il mio ego nel raccontare ai ragazzi, ovviamente vantandomene, di
come tutto solo ero riuscito a sconfiggere il nemico, mentre loro
erano belli tranquilli tra i banchi di scuola. Mi scocciò solo
raccontare della mia casa arsa dalle fiamme: c’era ancora un
conto in sospeso tra a me e Josuke per l’analogia passata che
mi aveva creato nei suoi confronti un odio incontenibile; in più,
ad alimentare il fuoco già vivo, Josuke non si sforzò
di trattenere le risate quando lo raccontai. Tornò a casa con
una guancia dolorante, almeno questo. Alistair Pearce mi aveva
ringraziato per avergli donato i miei incubi, ma alla fine ero io a
doverlo ringraziare: il mio nuovo fumetto di paura intitolato Fear
of Sleep,
ricco di
fuoco, di ansia, di agitazione e di panico piacque moltissimo; le mie
preziose tavole ebbero il successo che meritavano, e ancora una volta
Rohan Kishibe e il realismo avevano trionfato sul male.
FINE
(Vi
ricordo che potete contattarmi qui su EFP, su Twitter, su Tumblr o su Ask, dove più vi aggrada.)
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