Dietro il dipinto
Dietro il dipinto
Questa è la banale storia di un lui e di una lei che
si incontrarono, e che non si amarono.
L’amore per Michele aveva quel sapore sconosciuto e
poco importante, un po’ superficiale, come Bologna, la città in cui era nato e
cresciuto. Non conosceva i vicoli e le stradine, non andava per negozi, non
passeggiava sotto i portici. Non aveva niente da esplorare, si limitava ad
uscire di casa con lo zaino sulle spalle, prendere l’autobus, attraversare quel
tratto di strada dei viali che separavano la fermata del venti dalla sua
scuola. Entrare. Aspettare.
Non si soffermava nemmeno per un attimo sul paesaggio,
sempre quello, sempre monotono e così grigio e pieno di traffico, ma il suo
sguardo s’impossessava delle persone. La prima volta che incontrò Elena l’aveva
scrutata in ogni centimetro, da ragazzino qual era credeva davvero di averne
carpito anche l’anima. Fu un colpo duro quando si rese conto che non aveva
capito niente di lei.
Era appena stato alla Feltrinelli e aspettava quieto e
annoiato alla fermata dell’autobus. Non aveva comprato nessun libro, per lui
valevano molto di più le immagini che le parole e, distrattamente, aveva
consumato con gli occhi ogni copertina. Immaginava che anche la sua vita
potesse avere una copertina ma se la figurava completamente nera e insapore.
Aspettava alla fermata dell’autobus con quel vago senso di nero in testa ed era
stato strano imparare che le cose ti capitano quando pensi completamente ad
altro. Le cose belle, ed anche quelle brutte. Elena era un ibrido, una cosa
meravigliosa e orribile allo stesso tempo, che avrebbe macchiato di rosso la
copertina nera di cui era prigioniero.
Fissava con insistenza quei soliti testimoni di Geova,
in fila l’uno dopo l’altro, sorridenti ed accomodanti, che mostravano i loro
giornali ai passanti e i passanti non li degnavano neanche di uno sguardo,
Michele li compativa. Ammirava soprattutto l’uomo dei tre, quello che seguiva
ogni passante con uno sguardo impertinente ma educato allo stesso tempo e non
la smetteva mai, Michele avrebbe voluto quello sguardo, il suo lo sentiva così
inopportuno alle volte. Come preso da una scossa, smise di fissarli e si accese
una sigaretta. Elena uscì in quel momento dalla Coop di fronte alla fermata con
una sporta in mano. La larga gonna bianca che scendeva fino a terra lasciava
intravedere i passi decisi delle gambe. Aveva i capelli mori raccolti e lo
sguardo lo teneva dritto davanti a sé, ma i suoi occhi erano di un opaco marrone,
e non erano curiosi come quelli di Michele, erano di quegli occhi che non
guardavano più all’esterno ma solo dentro di sé. Doveva immaginarlo, che fosse
un’egoista.
L’amore per lei era una continua scoperta, della sua
mente e del suo corpo, e non riusciva a farne a meno. Non sembrava curarsene ma
la verità è che lo cercava sempre, e ci pensava sempre. Di certo non l’avrebbe
trovato in Michele, più brutto, più piccolo e più insicuro di lei. Neanche lo
notò quel giorno. Non notò neanche i testimoni di Geova, stanca e accaldata,
andò avanti e oltrepassò la fermata, si fece seguire con lo sguardo senza
esitazione.
Aveva già una specie di fidanzato, un ragazzo che
avrebbe potuto esserlo, e aveva più esperienza di Michele. Era chiaro che non
sarebbe stata lei la sconfitta di questa storia.
Era scomparsa e forse era stata un sogno, Michele
perse l’autobus perché continuava a fissare i testimoni di Geova.
«Ti ho già vista.»
«Cosa?»
«Sì, sai, in giro.»
«Non penso frequentiamo gli stessi posti.»
«Beh, potremmo farlo.»
«Cosa?»
«Frequentare gli stessi posti.»
«Mi stai chiedendo di uscire?»
«No, beh, non proprio… Però se ti va.»
«Se mi va cosa?»
«Uscire. Con me.»
«Allora me lo stavi chiedendo.»
«No, tu mi hai chiesto se te lo stavo chiedendo. E io
ho pensato, boh, si può fare in effetti.»
Elena fece un ultimo tiro poi buttò via la sigaretta.
«Sei proprio un ragazzino.»
Fece per andarsene e Michele era in panico. Per un po’
l’aveva vista tutti i lunedì e i mercoledì mattina fuori da scuola. Passava con
una borsa a tracolla ed aspettava per circa dieci minuti davanti a un grande
edificio bianco che una volta era un ospedale, proprio di fronte al suo liceo,
Michele non sapeva cosa facessero lì dentro. A volte lei fumava una sigaretta,
a volte scriveva al cellulare. A volte aveva la gonna bianca di quel giorno
alla Coop, a volte aveva i jeans, e le stavano davvero bene.
«Aspetta. Mi dici come ti chiami?»
C’era voluta qualche settimana ma Michele alla fine
era andato da lei con la banale scusa di una sigaretta. Non ce l’hanno i tuoi
amici?, aveva detto lei, guardando il piccolo cortile della scuola pieno di
studenti. Ho chiesto a tutti, pensa, aveva risposto lui, ho fatto il giro di
tutto il cortile, di tutta la scuola, poi ho visto te.
«Elena.»
Michele era quasi deluso, e rimase in attesa.
«Te? Non ce l’hai un nome?» disse lei alzando le
sopracciglia. Aveva già un piede oltre al cancelletto dell’edificio bianco.
«Michele. Stanzani.» sentenziò lui.
Elena si mise a ridere. Non era una risata
canzonatoria, era più simile ad una risata allegra, qualcosa di più di un
sorriso. Gli diede le spalle, a Michele non aspettava altro che sperare che lei
lo aggiungesse su Facebook. La seguì con lo sguardo mentre saliva gli scalini
ed entrava nell’edificio. Lei teneva l’Iphone in mano mentre con l’altra
spingeva la porta ed entrava, e spariva, e Michele sperava, avrebbe controllato
il cellulare per tutta la mattinata a scuola.
Si passò una mano sui capelli e continuò a guardarsi.
Di solito odiava guardarsi, guardare se stesso non era come guardare le altre
persone perché di se stesso già sapeva tutto, e non gli importava niente, o
almeno così credeva.
I capelli erano disordinati ciuffi biondo cenere che
ricadevano sulla fronte, il naso un po’ a punta, gli occhi grigi
sproporzionatamente grandi rispetto alla faccia. Cercava di capire se poteva o
no piacere ad una ragazza, o se poteva piacere o no ad Elena, perché qualche
ragazza se l’era fatta, sì, ma erano quelle solite oche della scuola che dopo
un paio di drink si sarebbero spalmate addosso a chiunque.
Si guardò le braccia. Era magro da far schifo.
«Come si chiama?»
Sua madre lo guardava beffarda appoggiata alla soglia della
porta con una ciotola di gelato in mano.
Il ragazzo sussultò, poi la guardò male. «Che vuoi?»
Lei gli porse la ciotola. «Ti ho portato questo.»
Michele se le sapeva prendere da solo le cose, ma non
replicò e prese il gelato. Senza una parola si sedette sul letto e cominciò a
mangiare. Sperava che sua madre se ne andasse e che non facesse più domande,
eppure quando se ne andò ci rimase male. Poggiò il gelato sul comodino
sbuffando, proprio non gli andava, e prese il cellulare in mano. Aprì
Messanger. Elena lo aveva aggiunto su Facebook da un giorno e lui ancora
pensava a cosa scriverle.
Lanciò uno sguardo al gelato che si stava squagliando.
Ormai era una poltiglia bianca a chiazze marroni e Michele aveva il
voltastomaco.
«Mamma» chiamò, mortificato e bisognoso d’aiuto, col
cellulare in mano e le dita sulla tastiera «Mamma!»
Lei arrivò e si sedette accanto a lui. Scostò i
capelli biondi dal viso, gli rivolse ancora quel beffardo sorriso.
Non aveva detto a nessuno dei suoi amici che stava
uscendo con una ragazza più grande, non gli andava, era discreto, o forse era
timido, o forse non li aveva tutti questi amici. Avrebbe potuto dirlo a Zucca,
ma poi aveva pensato che non erano affari suoi. E poi Zucca passava tutto il
tempo a giocare ai videogiochi, non ci capiva niente di ragazze.
«E te non ci giochi? Dai» disse Elena.
«Un po’. Poco.»
«E come passi il tempo? Non hai l’aria del secchione,
e neanche dello sportivo.»
Michele si prese del tempo per rispondere mangiando il
gelato che ormai fuoriusciva da tutte le parti. Non sapeva se prenderlo come un
complimento o un’offesa. Voleva trovare un qualche passatempo per impressionare
Elena, voleva contraddirla e fingersi un giocatore di basket, come quel Luca
della 4B, a cui tutte andavano dietro.
Poi le guardò le gambe lunghe e quegli occhi scuri e
mesti e si ricordò che lei non era come le ragazzine della scuola. Lei era
quasi un’adulta, non l’avrebbe adescata con simili fesserie.
«Mi piace l’arte.»
«Davvero?» Elena non sembrava davvero sorpresa.
«Allora perché non fai l’artistico? Perché fai il Righi?»
Michele scrollò le spalle.
«Che ne sai a tredici anni. Poi mia madre voleva che
facessi lo scientifico.»
Elena annuì con un sorriso mentre leccava il suo cono.
«Le madri. Non capiscono un cazzo.»
Michele si sentiva irretire. Non la contraddisse.
«E te che fai?»
«Studio Antropologia. Mi laureo a ottobre.»
«È quel posto davanti al Righi?»
«No, quello è il CLA. Lì faccio inglese.»
«Ah.»
Michele annuì, cercando di non apparire troppo
stupido.
«Ti piacciono anche i libri?» domandò Elena, notando
la sua difficoltà.
Lui scrollò le spalle. «Poco. Non come l’arte.»
«Guarda che anche la letteratura è un’arte.»
«Certo, ma è diverso.»
Michele si pulì la bocca col tovagliolo e lo
accartocciò nella mano, cercando le parole giuste per spiegarsi. Non dubitava
che trovare le parole giuste fosse un’arte, il giorno in cui tutte le persone
ci sarebbero riuscite allora forse qualcosa sarebbe cambiato davvero nel mondo.
«I libri sono facili, sono fiumi di parole» disse,
aggrappandosi al tovagliolo tra le mani «I quadri… Prova tu a condensare tutto
quello che provi e che vorresti far provare agli altri in un’immagine, una
sola, voglio dire, come la scegli?»
Elena non disse niente per qualche secondo e Michele
credeva che stesse pensando a come ribattere.
Invece chiese la cosa più banale del mondo, ma che a
lui per qualche strano motivo riempì il cuore. «Tu disegni, vero?»
«Sì.»
«Mi fai vedere?»
«Cosa?»
«Un tuo disegno. Portami a casa tua.»
Elena saltò giù dal muretto e si picchiettò sui
pantaloncini per far scendere la polvere.
«Che c’è?» chiese, visto che lui rimaneva immobile
«C’è qualcuno a casa tua ora?»
«No.»
«Allora, andiamo!»
Michele cercò di scuotersi dall’incredulità e
dall’inerzia e si affrettò a scendere dal muretto. Camminava affianco a lei e,
forse per la prima volta, non si concentrò sulle figure e sugli sguardi che
incontrava. La sua mente lavorava febbrile, lanciò solo un’occhiata alle due
torri, quando ci passarono sotto, per provare a catturare una cartolina di quel
momento, un’immagine, come quando chiuso in camera sua si metteva a disegnare.
A casa Michele non aveva minimamente riordinato niente
e si vergognava a far entrare Elena in camera sua. I vestiti erano accatastati
sulla sedia, la scrivania era piena di libri e matite, e sul letto si potevano
contare un certo numero di calzini appallottolati e fogli sparsi. La ragazza
sembrò non farci caso e trovò un angolo del letto in cui sedersi.
«Scusa il disordine» farfugliò lui mentre cercava con
foga di raccogliere prima di tutto i calzini. Non si era mai seduta nessuna
ragazza sul suo letto, solo sua madre. Che disegno posso farle vedere, pensava
convulsamente, quale disegno, uno bello, ce ne vuole uno bello… Finì per
estrarre dall’armadio l’ultimo dipinto che aveva fatto, forse perché per la
fretta gli era venuto in mente solo quello, forse perché per tutti gli artisti
o pseudo tali l’unico lavoro soddisfacente è sempre l’ultimo. Ma del resto il
caso non esiste e Michele rimase a fissare quasi in apnea gli occhi di Elena,
leggermente sgranati, forse meno opachi, forse qualcosa le era arrivato, o
qualcosa lui le aveva smosso, che guardavano quel grande foglio tinto a pennellate.
«Chi è?»
Michele non avrebbe saputo dire con certezza chi il
quadro rappresentasse. Non c’era dubbio che fosse il viso di una donna, perché
Michele pensava ad una donna mentre dipingeva, o meglio, al genere femminile.
Ed era una donna con gli occhi profondamente scavati nelle orbite, quasi due
buchi neri spalancati, e la bocca pure era spalancata, si teneva le mani
incrociate sul ventre ed urlava, quella donna, urlava tutto il genere
femminile, urlava un avvertimento al mondo o forse urlava per il mondo.
Elena accarezzò il disegno con un tocco leggero, poi
chiese ancora. «È quello che provi tu?»
Michele si sentì improvvisamente nudo, scoperto,
completamente inerme dopo aver mostrato quel dipinto. Non doveva farlo, non era
pronto a confessare niente, non era disposto ad aprirsi, scoprirsi, doveva
continuare a starsene nella sua camera e nel suo mondo. Non c’era proprio
niente che potesse offrire in quel suo mondo buio e noioso.
Elena appoggiò il quadro sul letto e si alzò in piedi.
Era alta quasi come lui e riusciva a guardarlo negli occhi. Quegli occhi
sembravano spenti ma non avevano paura di niente. Rimaneva ferma e immobile,
senza fiatare, come una professoressa che aspetta la risposta giusta, come una madre che aspetta che il proprio figlio
confessi. Allora Michele si fece forza, se non voleva dirle quello che provava
mentre disegnava, poteva farle capire quello che provava ora, per lei. Per
capire quello che provava, a volte, pensava a quello che avrebbe disegnato, e
in quel momento avrebbe disegnato un bacio.
Improvvisamente, così come il quadro era stato
pensato, i due si baciarono, e per due ore non fecero altro che baciarsi, e
Michele l’avrebbe baciata per altri cento giorni. Era ebbro di lei, la
baciava sulla bocca, ora sul mento, ora sul collo, la toccava, la stringeva.
Lei non lo lasciava, lui sperava stupidamente non lo avrebbe mai lasciato. Nei
giorni a venire, e nelle settimane a venire, la speranza, così come la paura,
che erano due facce della stessa medaglia, lo tenevano sospeso, appeso ad un
filo, forse per questo disegnò dapprima un cerchio, credendolo perfetto, poi un
equilibrista, e poi un vaso che cade, e un palazzo che crolla.
A volte Elena scompariva
e non rispondeva ai messaggi. Lui continuava a mandargliene, furioso, non
capiva. Poi lei riappariva, e si scusava, e si abbracciavano, e ogni loro bacio
avrebbe potuto cancellare persino il male dal mondo, figurarsi una lacrima.
«Vez, che cos’hai?»
Marco Zucchini, detto
Zucca, si appiccicò gli occhiali alla faccia e scrutò con attenzione il
tabellone.
«Hai due debiti, vez,
poteva andarti peggio» disse, con fare comprensivo.
Michele sbuffò e scrollò
le spalle. Le ultime interrogazioni erano andate di merda, quando Elena spariva
lui non riusciva più a concentrarsi su nulla, a volte neanche disegnava, se ne
stava a letto e basta, finché lei non gli rispondeva. Usciti dalla scuola, non
poté fare a meno di lanciare uno sguardo verso l’edificio bianco davanti al
quale la vedeva sempre aspettare.
«Quella lì non può farti
questo effetto però» continuò Zucca col suo monologo «Manco state insieme,
quella c’ha i cazzi suoi.»
«Lo so, lo so.»
Michele diceva sempre che
lo sapeva, ma era stufo di essere comprensivo. Ogni tanto comparivano foto su
Facebook di Elena e un altro ragazzo. Chi è, le aveva chiesto, non me l’avevi
detto che avevi un fidanzato.
Non è il mio fidanzato,
aveva risposto lei in modo brusco, e non lo sei nemmeno tu.
La quarta volta che Elena
smise di rispondergli era ormai luglio inoltrato. Michele le aveva chiesto come
andavano gli esami, non era neanche una domanda difficile, cazzo, poteva anche
sforzarsi di rispondere. Forse l’esame era andato male, forse non aveva voglia
di parlarne, Michele finiva sempre per giustificarla. Poteva credere che fosse
davvero amore, con tutte le volte che tentava di proteggerla dalla sua sola e
ottusa rabbia.
Ricomparve dopo una
settimana. Lui ogni volta partiva con tutte le buone intenzioni, prendeva la
sua bicicletta e mentalmente si diceva cosa doveva dirle, che doveva
arrabbiarsi, vomitarle addosso quello che provava. Poi nulla, era inerte,
completamente, un burattino nelle mani di lei. Ogni volta che la vedeva non
poteva che chiedersi se fosse l’ultima, e allora cercava di fare di tutto, per
non staccarsi più.
«Vecchio, ti stai
rovinando l’estate» gli diceva Zucca «Andiamo in baracca, dai, lì ce n’è della
figa.»
A Michele non gli
importava niente delle ragazzine che avrebbero potuto farsi.
«Tanto quella è più
grande, non ti si fila!»
Non era di certo lei il suo
grande amore, era naturale, un fatto scontato, allora per cosa si dava pena,
sarebbe finita comunque. Il punto era che senza ragione apparente lui voleva
rimandare quella fine inevitabile al più tardi possibile.
«Perché sei con me e non
con lui stasera?» le chiedeva amaramente. La gelosia divampava come un mostro
affamato che si dibatteva nella sua pancia e nel suo petto, e gli divorava lo
stomaco, l’appetito, il cuore. Solo tre mesi prima, in quell’esatto punto,
sotto le due torri e il chiarore del giorno lui era davvero stato felice. Ora
era sera, c’era caldo e c’era confusione, e tutto di quel posto aveva una luce
diversa.
«Non mi vuole. È finita.»
Lei era in lacrime, in balia di un ragazzo che la voleva e non la voleva, e
forse la trattava male, Michele, accecato e infelice, neanche le aveva mai
chiesto niente. Perché non ti vado bene io, era la stupida domanda che
affiorava ogni volta sulle sue labbra. Era ovvio perché non andasse bene.
«Quindi io sono il suo
rimpiazzo, è questo che sono per te?» Tanto quell’altro sarebbe tornato, finiva
sempre così.
«Ma che significa»
farfugliò Elena, asciugandosi gli occhi «Siamo tutti il rimpiazzo di qualcuno,
non lo sai?»
«No!» quasi gridò Michele
«Tu per me non lo sei di nessuno!»
Si aspettava che lei gli
sbottasse contro le solite cose, che era perché non aveva avuto nessun’altra,
che era troppo piccolo, che non poteva capire. Invece si mordicchiò il labbro
ed esitò prima di dire quello che stava realmente pensando. «Invece sì.
Pensaci, ne sei proprio sicuro?»
Quelle parole,
quell’afosa serata d’estate, gli caddero addosso come gocce gelate. Eppure era
stato attento a non scoprirsi troppo, oppure l’amore, ed era davvero amore, o
una sciocca infatuazione, una letale ossessione, l’aveva reso violabile e
trasparente. Una lettura facile di un libro aperto e banale, o il quadro
scadente del peggior artista.
«Tu non mi hai mai…»
balbettò lui, senza neanche sapere come continuare. Amato, era ovvio. Voluto
bene, forse. Capito, non ci aveva neanche provato. Neanche lui del resto aveva
mai provato a capire lei.
Elena aveva gli occhi
lucidi e gli rivolse un piccolo sorriso, quasi di comprensione, quasi materno,
etereo nel suo viso di piccola adulta, e che sembrava un addio commosso, o solo
l’ennesimo arrivederci.
Quella volta scomparve
davvero, e per sempre.
Michele per molto tempo
fu triste, e non trovava altri aggettivi. Odiava il giorno, la notte sarebbe
dovuta durare per sempre. Si ridestava
dai sogni in cui poteva respirare per sentirsi risucchiare tutta l’aria in un
lamento. Il cuore batteva forte e le mani s’ancoravano con angoscia ai lembi
delle lenzuola. Il desiderio di rimanere a letto era una zanzara fastidiosa,
che avrebbe anche potuto entrare nel suo orecchio, raggiungere il cervello e
succhiare, strappare, rodere il buon senso.
Aveva idealizzato Elena a
tal punto da crederla la ragazza perfetta per lui, e per un soffio non l’aveva
avuta, non poteva non fargli male. Forse l’amore era già germogliato per i
fatti suoi, o forse germogliò così, figlio del più classico dei sentimenti: il
dolore.
Allora lei lo abbandonò
nell’esatto momento in cui lui cominciò ad amarla. Lui non poté non soffrire
solo perché era stato veloce. Come un fiore appena sbocciato che viene
calpestato, come una madre che deve rinunciare a suo figlio subito dopo aver
scoperto che lo stava aspettando. Il male fu intenso, poi si acquietò, e si
propagò, più dolce, nei mesi a venire. Non l’avrebbe mai abbandonato, come uno
spettro della mente.
Una sera si addormentò
mentre piangeva e si svegliò circondato dalle braccia di sua madre. Quasi gli
venne da spingerla via, perché la odiava, ma non lo fece, perché l’amava. Nella
sua mente la misteriosa donna del dipinto urlava ancora.
Elena era lontana anni
luce ora e lui e non era mai riuscito veramente a raggiungerla. Non le aveva
toccato il cuore, neanche un po’, non era riuscito a guarirlo, quel suo cuore
malato e pieno del velenoso amore di qualcun altro. Voleva riuscire a disegnare
quello che provava, o solo un ricordo di lei, ma quello era il dipinto che non
aveva mai saputo dipingere. Non ne era stato capace, non lo sarebbe mai stato.
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