La Contessa del Lago

di DaisyBuch
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Quel giorno era particolarmente buio, era l’undici Novembre. Olga aprì bene le tende per far entrare meglio la poca luce. Osservò fuori dalla finestra il lago davanti alla sua casa. Era una casa vecchia, risaliva all’ottocento, e la sua famiglia l’aveva fatta ristrutturare per renderla più moderna; il risultato era un’elegante impalto ottocentesco pitturato di bianco, con rifiniture verdi che richiamavano il colore della flora dentro a cui si nascondeva la villetta. La dimora era circondata da un giardino vasto, contenente un piccolo orto di cui si occupava spesso la donna ed un minuscolo cimitero sotto ad un salice piangente circondato da grate nere in stile gotico, per rendere meglio l’idea. All’interno del quale c’erano i suoi genitori ed il suo defunto marito. Poco avanti al portico di legno chiaro e più giù di qualche metro di erba verde c’erano delle scalette di mattoni che scendevano verso il basso, a sinistra di esse un enorme albero circondato alla base di fiori faceva da base ad una semplice altalena.
Se ci si affacciava dall’altalena si poteva vedere che le scale portavano dritte verso la riva del lago Twerjen. Questo era un lago di modeste dimensioni, e sebbene non fosse il suo, la gente della cittadina soleva chiamare Olga la contessa del lago. Il lago infatti era stato anticamente per la maggior parte “proprietà” dei suoi avi, che erano dei nobili con titoli importanti. Tutti continuavano a chiamarla contessa, ma lei non aveva realmente nessun titolo rimasto, o meglio, non lo aveva accettato.  La cittadina sede di questo enorme lago era a qualche ora da Oslo, e la casa di Olga Haraldsen era l’unica ad affacciarsi su di esso.



Decise che sarebbe andata a salutare il marito prima che si fosse fatto buio.
Come a portare un enorme peso sulle spalle, la donna uscì con un vestito verde e bianco che le arrivava alla caviglia ed un velo pesante sulla testa, che faceva fuoriuscire dal basso i lunghi capelli rosso scuro. Uscì dalla casa con calma e si diresse verso la sua destra, cominciava a fare sera ed un vento gelido le gelava il volto. Portava tra le mani cerulee ed aride un fiore che avrebbe posizionato sulla tomba. Non appena raggiunse il piccolo spazio rettangolare si abbassò per aprire il cancelletto, che si mosse con un cigolio acuto e guardò davanti a sé la lapide.
“Immensamente amato”
Solo questo c’era scritto. Erik non aveva nessuno, come lei si erano trovati perché erano due orfani soli e cupi. Insieme avevano creato il sole e l’arte, ed ora lei era rimasta notte. Non c’era nulla dentro la tomba, le autorità lo avevano dichiarato disperso, ed ora che erano passati più di sette anni dalla sua scomparsa era considerato ufficialmente morto. Ma lei sapeva come erano morto, e questo segreto era insieme confortante per la sua memoria, piuttosto che immedesimarsi nel dolore che la gente le attribuiva: di non sapere dove fosse né se fosse ancora vivo, ed insieme angosciante perché non poteva rivelarlo. Eppure c’era qualcosa di eternamente sublime ad averlo dentro di sé, letteralmente. Diede un ultimo lungo sguardo al lago, e poi si alzò sconfitta rientrando a casa.

 




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