Nome
Autore: vegeta4e (efp e forum)
Fandom:
Bones
Titolo
storia: The Man in The War
Situazione:
Guerra
Coppie:
Seeley Booth/Hannah Burley - Seeley Booth/Temperance Brennan
THE MAN IN THE WAR
In quel
preciso istante Booth temette che gli sarebbero scoppiate le vene in testa. Una
granata gli era esplosa a pochi metri di distanza, abbattendo lo scheletro di
una casa già devastata dalle bombe e alzando un polverone che per poco non
l'aveva soffocato. Doveva tossire. Doveva espellere tutti quei dannati granuli
di terra e intonaco dalla trachea e riprendere a respirare, ma non poteva.
Anche solo un colpo di tosse avrebbe rivelato la sua posizione ai nemici e
Seeley non poteva permettersi di esporre così tanto i suoi compagni.
Si
appoggiò con la spalla sinistra all'edificio dietro cui si stavano riparando,
il pizzicore alla gola divenne insopportabile, e deglutire non gli diede alcun
sollievo. La vista gli si appannò, aveva iniziato a lacrimare.
C'era afa
e respirava a fatica. Gli sembrava di inalare fuoco e la polvere appiccicata
alla faccia sudata lo irritava, facendolo sentire sporco almeno la metà della
sua coscienza.
Si pentì
di aver accettato l'incarico. Era stato folle a ritornare in quell'inferno. Le
vite dei ragazzini che stava addestrando gravavano sulle sue spalle, ma lui
aveva già abbastanza responsabilità cui pensare. Parker, prima di tutto. E
Bones. Non ce la vedeva proprio con un altro agente speciale che di sicuro non
avrebbe colto una virgola dei discorsi che faceva. Beh, ad essere sinceri
neanche lui ci capiva molto, ma non gli interessava granché dei suoi sproloqui
scientifici. A Seeley importava il lavoro sul campo, le indagini sotto
copertura, e per quanto la Brennan fosse cocciuta e incosciente, insieme lavoravano
bene.
La mano
sinistra aumentò la presa sulla canna del fucile. Inutile girarci intorno,
sapeva benissimo perché aveva deciso di tornare in missione, doveva staccare la
spina. Voleva staccare la spina. Da lei. Da Washington. Dall'FBI. Dalla
routine. Anche se questo comportava rischiare la pelle in guerra. Doveva
riprendere in mano ciò che restava della sua vita e trovarne le priorità.
Un aereo
sfrecciò a velocità supersonica sopra le loro teste e Booth ne approfittò per
tossire e liberare la gola. Riprese fiato e si passò una mano sul viso per
pulirlo grossolanamente dal sudore e dalla polvere, lasciando delle chiazze
scure sulla fronte e gli zigomi.
«Che facciamo, Signore?» Una voce alle sue spalle lo destò. Girò appena il capo, guardando
il ragazzino da sopra la spalla. La bocca dello stomaco gli si strinse quando
constatò, ad occhio e croce, che quel giovane soldato non doveva avere più di
venticinque anni.
Tornò a
guardare in avanti, oltre il muro della casa in pietra «In posizione.» Si misero in fila dietro
di lui, caricando i fucili all'unisono. Seeley attese cinque secondi nella
speranza che il cuore smettesse di battergli così forte.
"Non fare l'eroe". Le parole di Temperance
gli vennero in mente come un monito. Non voleva fare l'eroe. Non gli era mai
importato. Non gli era mai piaciuto ricevere medaglie per aver ucciso qualcuno.
Sapere di aver tolto la vita ad altri uomini, anche se per difesa, era una cosa
che lo faceva vergognare profondamente. Booth detestava sparare, ma sapeva
farlo, e aveva deciso di mettere questa abilità al servizio del suo Paese. Ogni
volta che premeva il grilletto, però, una piccola parte di lui moriva.
Un'improvvisa
scarica di adrenalina lo fece scattare allo scoperto. Corse per trenta metri
sotto il sole cocente, nonostante fosse appesantito dal casco, dal fucile,
dalle munizioni e dallo zaino, approfittando del momento di calma per
guadagnare terreno. Gli altri lo seguirono, dividendosi in due gruppi una volta
raggiunta la baracca successiva. Tre di loro attraversarono la strada, nascondendosi
dietro l’edificio di fronte.
Fece
appena in tempo ad appoggiare la schiena al muro che un proiettile scheggiò lo
spigolo dell'abitazione.
Il ragazzo
accanto a lui stava letteralmente tremando e Seeley non aveva idea di come
calmarlo. Avrebbe dovuto dirgli che sarebbe andato tutto per il meglio? Ma
cos'era questo meglio? Sopravvivere e restare un giorno in più a farsi consumare
dall'ansia e dai sensi di colpa oppure morire e non sentire più niente?
...
Niente...?
A quel
pensiero Booth si spaventò, temendo per la persona che stava rischiando di
diventare. Per un attimo la sua fede aveva vacillato, e il dubbio che non ci
fosse nessuno lassù a vegliare su di lui lo fece sentire terribilmente
vulnerabile e solo. Abbandonato a se stesso, ai suoi sbagli. Ad un possibile
errore di calcolo che molto probabilmente l'avrebbe ucciso.
C'era
davvero un Dio? Chi aveva pregato in tutti quegli anni? A chi aveva affidato la
sua vita ogni volta che aveva rischiato di morire? Si sentì un peccatore.
Situazioni come quella avrebbero dovuto rafforzare la fede, ma su di lui stava
avendo l'effetto contrario. Era convinto che Dio mettesse ogni persona davanti
a scelte difficili per insegnare a non dare nulla per scontato, ma Seeley ne
aveva abbastanza. Riteneva di aver sofferto a sufficienza nella vita, quindi
perché il Dio che tanto rispettava e amava continuava a sottoporgli tanto
dolore? E la guerra in cui era immischiato in quel momento non c'entrava.
Si sporse
di poco, giusto per capire la posizione dei terroristi. Ne individuò tre: uno
era esattamente nella sua traiettoria di tiro, il secondo era sul tetto di una
casa di un solo piano, acquattato dietro una barricata di cianfrusaglie, proprio
sopra il primo. Non era un bersaglio imprendibile. Non per un uomo dotato di
una mira come la sua.
L'ultimo,
invece, era una ventina di metri più indietro. Probabilmente aveva delle
granate da lanciargli contro per coprire le spalle dei due compagni più avanti.
Prese un
respiro e caricò l'arma. Si sporse di nuovo, appoggiando il fucile allo spigolo
di cemento per tenerlo fermo e non sprecare nessuna munizione, poi sparò a
quello sul tetto, poiché aveva una posizione più strategica e vantaggiosa
rispetto a loro.
Lo sparo scheggiò
un barile della barricata improvvisata, mancando il bersaglio per pochi
centimetri.
Imprecò.
Aveva sprecato un colpo e rivelato la sua posizione.
Una
scarica di proiettili venne sparata nella loro direzione, il ragazzino vicino a
Booth teneva il fucile stretto al petto e gli occhi serrati. Un solco più
chiaro sulla guancia sporca gli fece intuire che gli fosse sfuggita una
lacrima, e Seeley rivide Parker in quel giovanotto impaurito.
«Come ti chiami, ragazzo?» Doveva distrarlo.
Lui
deglutì, aprendo gli occhi e rivelandoli lucidi. «… Matthew»
«D'accordo, Matthew, ora calmati.» Inspirò profondamente.
Doveva calmarsi per poter tranquillizzare qualcun altro. «Sono rimasti solo in tre,
non ci daranno problemi. D’accordo?»
«Sì.»
«Bene.» Si passò ancora una volta il palmo sul viso, poi guardò i tre
giovani dietro di lui. «Fate il giro da dietro e lanciate le granate al terrorista che
copre le spalle a quelli davanti. In questo modo dovrei avere qualche secondo
di tempo per ucciderli.»
«Quante ne lanciamo, Signore?»
Seeley
spostò lo sguardo sul ragazzo che aveva parlato, quello in fondo alla fila.
Ostentava coraggio, ma gli tremavano le labbra. «Una a testa. Coprirete un’area
maggiore e con un po’ di fortuna dovreste colpirlo. Poi tornate indietro e
restate qui fino ad un mio segnale.» Annuirono tutti nonostante la paura, ma si fecero coraggio e si
allontanarono per aggirare l’edificio, lasciando Booth da solo. Pregò che quei ragazzini
non venissero ridotti come colabrodo nel giro di venti secondi, perché tre vite
così giovani non le voleva sulla coscienza. Non avrebbe sopportato un peso del
genere.
Si
appoggiò contro il muro e iniziò a contare in silenzio. Sentiva solo qualche
sparo, ma dalla sua postazione vedeva il terrorista sul tetto mirare ai suoi
compagni nascosti dietro il palazzo di fronte al suo, quindi il bersaglio nelle
retrovie era a corto di munizioni. Deglutì. Forse la fortuna girava dalla loro
parte, potevano farcela. Poi tre esplosioni consecutive gli confermarono che i
tre ragazzi erano riusciti nell’impresa.
“Ora o mai
più.”
Si sporse oltre la parete e un muro di polvere e calcinaccio sgretolato lo
investì ancora, ma stavolta non si trattenne. Tossì forte un paio di volte e
aprì gli occhi nonostante gli bruciassero. Non riusciva a vedere oltre i cinque
metri tanto la nube era spessa, ma gli spari erano cessati, ciò stava a
significare che gli altri due terroristi si erano semplicemente distratti
oppure impossibilitati a mirare a causa del polverone.
Ne
approfittò.
Imbracciò
meglio il fucile e uscì dal riparo correndo tra i detriti, i cadaveri e le armi
dei deceduti sparpagliate a terra. Strisciò su una gamba per un paio di metri
sfruttando la velocità della corsa fino a nascondersi dietro ad un pezzo di
cornicione sopravvissuto alle bombe, avvalendosi ancora della poca visibilità
per tirare su la testa e studiare le posizioni dei nemici. L’uomo a terra era
nascosto probabilmente nel suo stesso modo, ma quello sul tetto era ben
visibile. Booth lo colpì in pieno petto mentre imprecava nel ricaricare il
fucile.
“Ancora uno.
Ancora uno e sarà tutto finito.” Ricaricò anche lui l’arma e si spostò di lato restando
accucciato. I quadricipiti doloranti non lo deconcentrarono e Seeley si spostò
ancora di qualche metro, raggiungendo il centro della strada. Ormai aveva l’adrenalina
in circolo, sentiva di essere ad un passo dalla vittoria e, preso dall’entusiasmo,
uscì allo scoperto per raggiungere i compagni nascosti dietro il palazzo alla
sua destra. Percorse cinque metri, la schiena piegata per non dare nell’occhio
e le mani sudate che a malapena tenevano il fucile.
Fu un
attimo.
Nel silenzio
si udì uno sparo ovattato, lontano. Avanzò ancora di un metro per inerzia, poi
l’adrenalina calò di colpo e i muscoli si fecero deboli.
Non era
successo, vero? Non di nuovo. Seeley abbassò con consapevolezza gli occhi sul
suo addome, notando la giacca mimetica sporca di sangue all'altezza del fegato.
L'avevano
colpito. Era successo davvero, alla fine. E il colpo non l'aveva neanche
sentito partire, dannazione. Si era reso conto di tutto solo quando un bruciore
fottutamente familiare al ventre l'aveva paralizzato, facendogli cedere le
ginocchia e costringendolo a cadere a terra a peso morto.
Un
comilitone l'aveva soccorso subito, gettandosi su di lui, mettendolo supino e
premendo entrambe le mani sul buco che aveva sotto le costole. Lo riconosceva:
era John, un uomo in gamba e un buon amico. Avevano passato serate tranquille a
raccontarsi aneddoti divertenti sulle loro vite, e in quel momento pensò che
gli sarebbe piaciuto offrirgli un caffè in un contesto sereno. Magari al Royal
Diner.
John
tolse una mano dalla ferita per dargli un paio di schiaffi. «Resta con me, Booth, per carità di Dio.» E lui avrebbe voluto dargli retta, ma
respirare era diventato così faticoso e doloroso che dubitava ce l'avrebbe
fatta. «Resisti!»
Provò a deglutire e
gli occhi spaventati dell'omone che tentava
disperatamente di tenerlo in vita gli ricordarono quelli di Bones quando, anni
prima, una sospettata squilibrata gli aveva sparato in un locale. Gli si
strinse lo stomaco ripensando a lei e a come avrebbe preso la notizia del suo
funerale. Autentico, stavolta.
Le
palpebre si abbassarono da sole, divenute ormai troppo pesanti. Era abituato a
quella sensazione, era come crollare di sonno davanti alla TV, eppure,
nonostante fosse avvezzo, la odiava. Detestava essere vivo ma impotente. Non
era da lui affidare la sua vita a terzi.
«Booth!» Aveva gli occhi mezzi rivoltati, era ad un passo dalla morte,
eppure continuava a pensare che la vita non avesse pietà di lui neanche in quel
momento. La voce di John divenne improvvisamente acuta, femminile, così simile
a quella di Brennan. La sentiva chiaramente spaventata, non smetteva di chiamarlo,
e per quanto Booth desiderasse darle retta, tutti i suoni si fecero a poco a poco
ovattati e lontani. Nelle orecchie rimbombava il battito del suo cuore, sempre
più debole e lento, ma Bones continuava a chiamarlo.
«Seeley!» Ormai aveva gli occhi chiusi, eppure trovò la forza di aggrottare
un po’ la fronte. Era strano sentirsi chiamare per nome dalla voce di
Temperance, non l’aveva mai fatto, ma gli piacque nonostante tutto.
Di colpo
non percepì più dolore e le fastidiose pietruzze su cui aveva appoggiato la testa
quando era stato messo supino non gli diedero più noia. Era morto? Pregò Dio di
perdonarlo se pochi minuti prima aveva messo in discussione anni di fede, Booth
sapeva di essere una brava persona, e le brave persone non possono che avere un
destino felice una volta passate a miglior vita, no?
Provò ad
aprire di poco gli occhi temendo ciò che avrebbe visto, ma una luce accecante
lo investì in pieno.
«Seeley,
svegliati!» La voce cambiò ancora, seppur fosse sempre di una donna. E questa
volta non era in lontananza, ma forte e chiara, a pochi centimetri dai suoi
timpani. Non era quella di Bones.
Le ciglia
incollate gli impedivano di vedere chiaramente chi fosse la persona davanti a
lui, ma dopo aver sbattuto le palpebre un paio di volte iniziò a distinguere i
capelli. Erano biondi. Nel giro di pochi secondi tornò completamente lucido e,
nonostante un dolore lancinante alle tempie, riconobbe la sua camera da letto.
In un attimo capì di aver sognato e che la voce che aveva confuso con quella
Bones era, in realtà, di Hannah.
Impallidì,
temendo che lei capisse.
«Calmati,
hai fatto solo un incubo.»
Booth
riatterrò sul cuscino espirando. Aveva la schiena e il collo bagnati di sudore,
il cuore a mille e l’ansia nel petto. Non era normale quello che era successo.
Non avrebbe dovuto pensare a Bones in punto di morte. Non con Hannah nella sua
vita.
Deglutì sperando
di riaddormentarsi in fretta. Si sentiva in colpa, soprattutto perché da un
paio di giorni stava pensando di chiederle di sposarlo. Chiuse gli occhi
sperando di calmarsi.
«… Hai
sognato di essere ancora là? È passato, Seeley.» Infilò una mano tra i capelli
dell’uomo sperando di dargli sollievo, ma lui si girò sul fianco, dando le
spalle alla fidanzata.
«Provo
a riposare, domani mi alzo presto.» Gli tremò la voce, ma non per i ricordi in Afghanistan.
Hannah non
percepì nulla, acconsentendo alla sua richiesta. Se c’era una persona che
poteva capire in parte cosa provasse, quella era lei. Hannah non aveva vite
sulla coscienza, non aveva provato l’ansia e la paura di correre con un’arma in
mano, di scappare strisciando tra la polvere e i cadaveri, ma aveva vissuto
quell’inferno con lui, e non lo biasimava nel vedere che avesse ancora qualche
trauma.
Gli si
accoccolò contro la schiena per rassicurarlo, ma Booth serrò i denti, pensando
di non meritare tanto affetto dopo ciò che aveva sognato. Forse fare ad Hannah
la fatidica proposta non era una buona idea.
Forse Sweets aveva ragione. Doveva mettersi in gioco, ma con un’altra persona.
The
End.