Nel caldo
deserto, una voce delicata e leggera, accompagnata dal dolce arpeggio
delle corde di un liuto, si faceva strada nel cuore di tutti coloro che
erano impegnati a mescolare il fango.
Era molto raro
intravedere un sontuoso baldacchino per quelle strade di una
città che ancora non era tale. Una moltitudine di ebrei era
lì, occupata a dare vita a templi ed edifici che avrebbero
reso ancora più splendida la figura del nobile Faraone agli
occhi degli dei.
La voce femminile,
soave, interruppe ogni mansione, catturando l’attenzione.
Tutti coloro che avevano orecchie per sentire quella musica, non
potevano resistere al richiamo.
La fanciulla, curiosa
di vedere come suo padre amministrava i lavori, aveva tanto pregato per
osservare quello che era ancora uno scheletro, ma che ben presto
avrebbe reso grande l’Egitto, come fonte di commerci e anello
di congiunzione con gli altri regni.
I panneggi leggeri del
suo baldacchino la proteggevano dai violenti raggi solari, ma al
contempo le permettevano una buona visuale di ciò che la
circondava. Smise di cantare quando si rese conto di distrarre
eccessivamente i mattonai.
Però fu lei
a posare i suoi occhietti scuri sulle braccia forti di un giovane
ebreo, intento a modellare il fango con uno stampo. Con un ordine
deciso ma non troppo prepotente, bloccò l’avanzare
del suo corteo, per ammirare il fisico asciutto del giovane, temprato
dal duro lavoro sotto l’implacabile Viso di Ra. Aveva gli
occhi color smeraldo, una pietra che aveva visto in un amuleto di sua
madre, e la pelle olivastra che, insieme agli scuri capelli mossi,
accentuavano la bellezza e la profondità del suo sguardo.
Non aveva nulla di costoso indosso, solo un gonnellino che copriva il
basso ventre, eppure qualcosa in lui la colpiva, portandola a esitare,
a contemplare quell’umiltà così
maestosa.
Come se avesse
percepito di essere oggetto del suo desiderio, anche lui
cominciò a guardarla. Tutti i suoi compagni avevano ripreso
a lavorare, andando ad attingere acqua e fanghiglia per procedere nei
lavori. L’arsura che fino a quel momento l’aveva
condannato sembrava essere scomparsa, volatilizzata alla vista di
quella giovane donna che l’osservava dai veli sottili del suo
baldacchino. Prese una postura fiera, raddrizzando la schiena per dar
sfoggio delle sue spalle larghe, per non dimostrarsi inferiore a quella
dea egizia che non abbassava mai lo sguardo.
Una scarica
l’attraversò nel momento in cui lui le sorrise,
mostrando la sua dentatura perfetta. Qualcosa era scattato dentro di
lei ed era decisa, più che mai, a sapere il nome di quel
ragazzo dalla bellezza accecante. Con un cenno leggero, chiese aiuto ad
uno dei suoi portantini per posare i suoi piedini, avvolti in morbide
calzature, sulla sabbia rovente di quella tarda mattinata.
“Qual
è il tuo nome?” l’aveva raggiunto in
piccole ma veloci falcate, mostrando tutta la grazia e
l’eleganza tipica di una donna egizia che non aveva mai
dovuto lavorare con il fango e le difficoltà del deserto. In
altre occasioni non avrebbe fatto altro che evitarla, per opporsi a
tutti coloro che schiavizzavano la sua stirpe, ma lei non era
l’unica ad aver sentito un brivido lungo la schiena. Era
rimasto folgorato dalle movenze dall’aspetto impalpabile e
cercava di non sfigurare al cospetto di quella figura femminile che
l’aveva tanto catturato.
“Zeev, per
servirla.” Si prostrò ai suoi piedi, nonostante la
fanciulla l’avesse invitato, con movimenti ripetuti, ad
alzarsi.
“Maat-hor,
questo è il mio nome.” L’ebreo la
guardò, languido. La sua voce era musicale, come il canto degli uccelli
e da quel momento non dimenticò il nome di quella bellissima
dea che aveva conosciuto.
Il tempo parve
fermarsi in quei minuti in cui si persero l’una nello sguardo
dell’altro, a conoscersi con gli occhi, a sfiorarsi senza
congiungersi per davvero. Arrivò il momento di andare quando
si avvicinò il capo mastro, che ammonì
severamente l’uomo perché non era intento a
lavorare come gli altri. Poi, notando la figlia dello scriba reale, si
inginocchiò a chiedere perdono per un simile atto di
svogliatezza del ragazzo. Lei non lo degnò di uno
sguardo e si affrettò a ritornare al suo piccolo corteo, che
era rimasto in trepidante attesa. Guardò un’ultima
volta Zeev, sperando di poter affidare un messaggio al vento, per
recapitarlo a lui soltanto. Tornerò.
Mantenne la sua parola
e fece ritorno, accompagnata dalle sue due ancelle, per far visita a
quelle strade dove non vi era alcun riparo dal sole cocente della
stagione di Shemu. Una brezza leggera, di tanto in tanto, le carezzava
il viso dolcemente, dandole tregua dall’afa che le affannava
il respiro. Lo ritrovò lì, dove l’aveva
visto la prima volta e sorrise spontaneamente. Il sole allo zenit
proiettava piccole ombre dei suoi muscoli, accentuando quella bellezza
che le faceva battere il cuore.
Era assorto dal suo
lavoro, intento a mescolare la quantità d’acqua
necessaria per rendere l’argilla modellabile, ma allo stesso
tempo non troppo liquida. Doveva seccare il prima possibile e il caldo
svolgeva bene il suo lavoro, più di una fiamma o di un
forno. Gocce di sudore gli imperlavano la fronte, la lingua arida e lo
sciamare delle forze l’obbligarono a cercare acqua da bere.
La scorse quando si
alzò dalla posa che gli costringeva la schiena in curve
innaturali. Inizialmente pensò che fosse frutto della sua
immaginazione, una visione celestiale dovuta alla troppa fatica, ma
poi, quando le fu vicino abbastanza da toccarla tendendo il braccio,
comprese che non era la sua mente a fargli un brutto scherzo. Era
davvero lì, davanti a lui, le braccia candide e perfette
come una statua delicata e levigata, il viso fiero di una donna
consapevole della bellezza in fiore della sua gioventù.
Si
incamminò verso le acque torbide del Nilo, anche per
allontanarsi dagli occhi indiscreti che sentiva convergere su di loro.
In cuor suo sapeva che lei avrebbe colto l’invito silenzioso,
seguendolo senza porre inutili questioni. Aveva un passo talmente
leggero che si sentiva a malapena e Zeev più di una volta si
fermò per tendere l’orecchio e saperla poco
distante da lui.
La giovane egizia
rimase sola dietro di lui. Aveva già concordato con le sue
fidate ancelle di voler rimanere senza alcuna compagnia che non fosse
quella dell’ebreo Zeev. Nel panorama del deserto
incontaminato, si stagliava la sua figura imponente. Non
poté fare a meno di puntare i suoi occhi sulla schiena
possente; e così le notò, piccole e delineate,
come il letto di un fiume, striature violacee, segni risalenti a
qualche giorno prima, quando si incontrano per la prima volta quei
profondi occhi neri con il verde della speranza.
Nel vederle Maat-hor
si sentì in colpa, pregando il mirabile Thot per i suoi
poteri curativi. Riusciva a sentire lo schiocco sonoro della frusta
sulla quella pelle tonica e forte, il male indicibile e le smorfie di
dolore. Quelle ferite si potevano associare anche ad un nobile
guerriero che, con lealtà e devozione, conquistava i
territori che si estendevano oltre l’orizzonte lontano. Lo
immaginava a capo di uno squadrone mentre soggiogava interi stati,
ricoprendosi di meriti e di lodi; e lei a casa, a pregare per il suo
ritorno vittorioso, accompagnato dalla benevolenza del grande Ra.
“Il dio Thot
curerà le tue ferite in modo da non lasciare
segni.” Azzardò a parlare, rompendo il silenzio.
La sua mano era tesa verso quelle linee malvage, le ripercorreva senza
applicarvi pressione.
“Non cerco
conforto nelle divinità che non siano il sommo mio
Signore.” Si girò verso di lei, ma non le rivolse
un tono di ostilità, anzi. Nel suo viso si aprì
lo stesso sorriso che le aveva già mostrato, quello che si
rivolge ad una bimba incosciente di quello che dice.
“Pregherò
io presso di lui affinché ti guarisca se non vorrai farlo
tu.” Abbassò il viso sentendosi per la prima volta
in balia di una scia di sentimenti alla quale non sapeva come reagire.
Ritrasse la mano, quasi avvertisse una fiamma viva dove prima vi era la
pelle olivastra.
“Se
è così che vuole che sia, non posso fare a meno
che ringraziarla, mia signora.” Zeev si accomodò
nei pressi del fiume, usando le mani per abbeverarsi. Maat-hor lo
imitò, sedendosi al suo fianco, ammirando con rispetto le
acque benefiche e vitali del possente fiume dalla quale dipendeva la
vita del popolo d’Egitto. Nelle mani quello
scorrere placido dava sollievo e i sorsi rinfrescavano lo spirito.
“Ti ho
già detto il mio nome, perché non lo
usi?” Cerco di darsi un contegno, fingendo
un’autorità che non possedeva. Le mani bagnate
percorrevano le braccia nude per rinfrescarle, incurante delle gocce
che le bagnavano la veste leggera.
“So bene il
vostro nome, Maat-hor. Non lo dimenticherò mai, è
inciso nella mia mente, così come nel mio cuore.”
Zeev indicò il centro del suo petto, mantenendo lo sguardo
fisso negli occhi di lei, meravigliati da una così tenera
dichiarazione di affetto.
“Anche il
mio cuore non potrà dimenticare la dolcezza del tuo nome,
Zeev.” L’unico suono era il fruscio delicato e
costante del Nilo e la donna finse un improvviso interesse per il
limaccio che lasciava il fiume. Voleva nascondere il rossore delle sue
gote, avvertendo un forte imbarazzo. Se ne stupì,
perché non si era mai sentita turbare da nessuno, neanche
dal Faraone in persona.
Per quel pensiero
chiese perdono e augurò mille anni di vita al Faraone Seti.
Suo padre, il nobile scriba Userhat, godeva della benevolenza del
grande Egitto tanto che era stato designato per il gravoso, ma
onorevole, compito dell’amministrazione della nuova
città.
Zeev non aveva smesso
di guardarla, approfittandone del suo essere sovrappensiero. Le labbra,
leggermente dischiuse, erano rosee e piene. Il vestito che la copriva
era leggero, come un lenzuolo, ed era arricchito con una cintola
d’argento al di sotto del seno. Le bretelline sottili
consentivano alle sue spalle di ricevere il dolce bacio del sole.
Silenziosamente le si
avvicinò, per carezzarle i capelli neri, sottilissimi, quasi
impalpabili se presi singolarmente. Le ciocche lisce terminavano sulle
spalle nude e il loro movimento solleticò
l’attenzione dell’ebreo. Non pensava di poter
sentire null’altro che l’indifferenza nel confronto
di qualunque egiziano, se non la rabbia per le sue condizioni misere.
Con lei però, era tutto diverso. Il suo cuore batteva in
modo anomalo e soppesava qualunque suo gesto o parola per non turbarla
o allontanarla da sé. I pericoli che correva nello stare con
lei senza lavorare non lo preoccupavano; volentieri avrebbe accettato
la violenza di mille fruste per un bacio di Maat-hor.
“Siete
più splendente di tutte quelle dee alla quale offrite la
vostra devozione.” Zeev, nonostante le mani rese ruvide dal
suo lavoro, prese quelle curate e morbide della giovane egizia.
Già quel contatto tra loro sottolineava quanto diversi
fossero. Le mani callose e piene di tagli, le unghie corte e irregolari
stonavano con quelle profumate e prive di imperfezioni. Eppure a loro
andava bene così.
“Vorrei
fermare il tempo per restare qui con te per sempre.” Nella
sua affermazione malinconica Maat-hor celava un saluto; non aveva la
forza di interrompere il loro contatto, né tanto meno quella
di dover pronunciare un addio.
Se suo padre avesse
fatto caso alla sua immotivata assenza da casa avrebbe fatto punire non
solo Zeev, ma tutta la comunità di ebrei. In cuor suo
cercava la forza per separarsi da lui, per il suo stesso bene, ma
già gli apparteneva, così come lui le aveva dato
le chiavi della sua anima.
Nei mesi a seguire il
fiume divenne luogo dei loro incontri e le ancelle le guardiane del
loro amore. A debita distanza scrutavano in ogni direzione, sia quella
che vede nascere il sole che quella che saluta per ultima i suoi raggi,
per evitare occhi estranei e tenere celato il segreto della loro
padrona. Quando il capomastro si avvicinava, correvano e cantavano a
squarcia gola, suonando al liuto una melodia preparata per
l’occorrenza. Attirando l’attenzione su di loro,
lasciavano il tempo ai due di separarsi senza destare sospetti.
Le occasioni di
incontrarsi furono donate dalla lontananza di Userhat, in spedizione
per conto del Faraone. Doveva tener conto di un importante carico che
proveniva da Babilonia e non poteva lasciar il compito a
nessun altro che al suo fidato scriba.
I due innamorati
passavano interi pomeriggi a parlare, scoprendosi ogni volta sempre di
più, scavando nei loro sentimenti. Discutevano animatamente
delle loro idee, senza mai offendersi l’un con
l’altra, soprattutto sul loro modo differente di vivere la
religione. Avevano imparato ad essere più che tolleranti,
accettando che mai tra loro sarebbe giunto un accordo. Zeev apprezzava
la forte fede che la legava alle sue molteplici divinità,
così come Maat-hor la sua ferma convinzione che solo un dio
fosse capace di muovere le fila dell’intero mondo.
C’erano
giorni in cui non parlavano affatto, non comunicavano tramite la voce,
ma tramite i loro sguardi e i tocchi leggeri delle mani. Palmo contro
palmo, una carezza sul viso, lo spostare una ciocca ribelle. In quei
momenti Maat-hor si sentiva protetta dal mondo intero e non voleva
resistere alle attenzioni gentili dell’ebreo.
Lui si lasciava curare
le ferite, senza farle notare che bruciavano quando venivano cosparse
di quei strani unguenti. Senza dirle che erano causate per lo
più dal suo calo di produttività. Fin
tanto che le frustrazioni del capomastro si fossero limitate
all’uso di qualunque oggetto potesse ferirlo per lui andava
tutto bene; tuttavia nel tempo cominciò a tagliare una parte
di quel già magro salario che doveva mantenere tutta la sua
famiglia e iniziò a pesare fortemente sulla coscienza di
Zeev.
Nei giorni in cui lei
non riusciva a fargli visita, sfruttava al massimo ogni sua energia per
produrre il doppio della sua normalità. A dargli la forza
era il pensiero di non dover pesare sui suoi fratelli e genitori
anziani e quella di poter passare il tempo con lei il più
serenamente possibile. Il suo eccesso lo nascondeva in una
fossa scavata da lui stesso, poco distante dal fiume, in modo da
presentarlo quando non lavorava. Il suo piano funzionò anche
se si rivelò incredibilmente faticoso da sostenere. La
notte, alla luce fioca di una candela, pregava il suo Signore per avere
energie a sufficienza per andare avanti.
Prima di dormire
Maat-hor si concedeva sogni ad occhi aperti dove il suo Zeev non era un
lavoratore massacrato, ma un rispettabile egiziano come qualunque
altro. E poteva sposarlo.
Più volte
aveva dovuto far leva al buon senso e alla calma per non mandare un
messaggio al padre dove chiedeva l’allontanamento del
capomastro. I segni terribili che lasciava sul corpo
dell’ebreo la turbavano, ma una così esplicita
richiesta avrebbe scatenato le attenzioni non volute dello scriba
reale. Zeev poi era abbastanza orgoglioso da mentire sul dolore che gli
veniva inflitto e, se avesse intuito la partecipazione della giovane in
un eventuale trasferimento del suo aguzzino, probabilmente non si
sarebbe fatto vedere più con molta facilità.
Dovevano incontrarsi
quel giorno di pioggia, ma le condizioni atmosferiche obbligarono i
mattonai a tornare a casa senza paga perché non avevano
lavorato. Zeev avvertiva un senso di inquietudine quel pomeriggio, come
se da un momento all’altro il suo mondo venisse travolto.
Il ricordo del dolce
canto di Maat-hor lo rincuorò mentre lentamente seguiva la
folla di ebrei che ritornava alle sudice abitazioni. Alcuni di loro
erano davvero rabbiosi della situazione incresciosa che privava loro
del denaro necessario per mangiare.
Il capomastro lo
fermò, indicandogli la direzione opposta al cammino
intrapreso. Era il tempio in fase di costruzione; era l’unico
edificio con un tetto, messo da poco. Secondo il progetto doveva
allargarsi e comprendere altre stanze. Vi erano già
all’interno delle statuette del dio Horus, alla quale era
dedicato il complesso.
“Ti hanno
convocato Zeev. Seguimi.” Il tono era deciso, di quelli che
non ammettevano repliche. Il sangue raggelò a quella
richiesta e la pioggia che imperversava sul suo capo perse
d’importanza. Anche quelli che vicino a lui avevano sentito
le parole del capomastro, si fermarono sconcertati per pochi secondi.
Ripresero poi ad avanzare a passi veloci per non essere coinvolti.
Zeev si fece coraggio
e, anche se a testa bassa a causa della forte pioggia, cercò
di non mostrarsi spaventato.
Nella sua mente si
formarono tanti scenari di quello che poteva succedergli, tutti molto
orridi e negativi. Una preghiera accorata fu la sua unica arma contro
la minaccia ignota.
Rimase sconcertato nel
vedere che il capomastro non sarebbe andato oltre l’ingresso
principale. Apparentemente il tetro tempio sembrava desolato, ma un
uomo vi accese una torcia rischiarando l’oscurità.
Era il nobile Userhat, l’aveva riconosciuto dalla
sontuosità del vestito e dagli stessi occhi della sua dolce
Maat-hor. Era imponente e fiero come un leone, ai suoi piedi vi erano
tavolette d’argilla, quasi a simboleggiare la sua carica di
scriba.
“Tu saresti
Zeev, è corretto?” Domandò,
allontanandosi dalla parete dopo aver sistemato la torcia nel supporto
apposito. Sotto la luce traballante della fiamma, ogni ombra appariva
viva, perché ballava seguendo la lingua di fuoco.
“Sì,
sono io, Zeev l’ebreo.” Rispose, lasciandosi
sfuggire un commento ironico. Era da tempo abituato ad essere
considerato inferiore solo perché giudaico e per sfuggire a
quel senso di inadeguatezza anticipava il suo essere semita, riducendo
e riducendosi ad un aggettivo. Poteva essere Zeev il mattonaio, Zeev
occhi smeraldo ma a lui era toccato Zeev l’ebreo.
“Io e te
abbiamo molti interessi che vanno paralleli se non a
braccetto…” Per tutto il tempo non aveva smesso di
fissarlo, come se i suoi occhi potessero spogliarlo per esaminare ogni
parte di quel ragazzo e decidere se il suo cuore fosse più
leggero della piuma. “Io, per omaggiare il grande Faraone
Seti, farò di questa città il fulcro
dell’Egitto. Tu hai messo mattone su mattone per aiutarmi a
realizzare questo mio sogno.” Aggiunse, camminando verso di
lui. Zeev retrocesse lentamente; se c’era qualcosa che sapeva
con certezza, oltre all’esistenza del solo suo dio, era che
un complimento da parte di un uomo così potente non poteva
che celare due cose. O il profondo rispetto, quindi essere un moto di
sincero riconoscimento degli sforzi, o il profondo disprezzo.
“Per
mostrarti quanto io abbia apprezzato ogni tua goccia di sudore versata
per la mia causa, voglio farti dono di tre cose.”
Continuò a parlare, allargando le braccia in segno di
accoglienza paterna al giovane. Con la mano destra
indicò il numero tre, prima di cominciare ad elencare i
sommi frutti della sua generosità.
“Il primo
dono che posso offrirti, grazie alla benevolenza del grande
Horus” Si inginocchiò davanti alla statuetta del
dio prima di continuare “ è una casa, distante da
qui, ma degna delle tue fatiche. Ha con sé,
nell’atto di proprietà che riporta già
il tuo nome, un appezzamento di terra per te e la tua
famiglia.” Prese una delle tavolette d’argilla e la
porse a Zeev che era rimasto paralizzato dallo stupore. Non
pensò al motivo che aveva spinto Userhat a fargli questa
concessione, troppo preso da quella che era la sua felicità.
Da sempre aveva desiderato liberare la famiglia dalla situazione
avversa e misera in cui versava. Un campo da coltivare costituiva
sostentamento e rendita.
“Il secondo
dono è più concreto. È di
centocinquanta deben d’oro, che troverai già nella
casa. È al sicuro in una cassetta nella stanza da letto
più grande che spero spetti a te.” Aveva il
sorriso del pescatore che, buttato l’amo con l’esca
nel fiume, è certo che il pesce abbia abboccato. Zeev era
perso, nella sua fantasia non c’era mai stato così
tanto oro.
Poi, come un dardo
lontano, qualcosa lo colpì, non fisicamente. Nella sua
coscienza comparve una domanda, un perché che suonava forte,
che voleva chiarimenti.
“Il terzo
dono è quello più importante, a mio parere. Ti
faccio il dono di allontanarti per sempre da mia figlia, Maat-hor.
Potrai andare via senza ripercussioni, non nuocerò la tua
salute né quella della tua famiglia. Sarai libero da quella
piccola egiziana che non vuoi più tra i piedi, che
disturbava il tuo lavoro. In cambio voglio la tua parola, quella
solenne, che farai cessare ogni voce che circola su una certa
infatuazione tra te e la mia figliola. Ti vedo sveglio, giovanotto,
sono certo che sai benissimo che tutta questa generosità
darà stabilità alla tua famiglia, riposo alle tue
braccia e a quelle del tuo vecchio e stanco padre.”
Lasciò la frase in sospeso, certo ormai di aver fatto
breccia nella sua preda.
Il nobile Userhat era
di ritorno dalla spedizione presso Babilonia quando fu informato che,
nella città che dà sul fiume, vedevano spesso
passeggiare la graziosa Maat-hor con la dolce compagnia del
bell’ebreo. La spia era quell’esile portantino che
l’aiutò a scendere dal suo baldacchino, al primo
incontro tra i due amanti.
Sapeva che
l’informazione succulenta era ben retribuita. In cambio della
lealtà verso il suo padrone ottenne dieci deben
d’argento.
Sulle prime lo scriba
fu preso da un profondo sconforto. Non sapeva cosa fare e impedire alla
figlia di andare in città avrebbe reso più
allettante l’incontro tra i due. Elaborò allora un
piano che prevedeva l’allontanamento pacifico del giovane,
perché un omicidio di un ebreo, per quanto insignificante
rispetto al sangue egiziano, avrebbe destato sospetti senza annullare
le dicerie della gente.
Si mosse in fretta e
la giornata piovosa gli fu propizia. Dolcemente, senza prepotenza o
autorità, invitò la ragazza a non lasciare i suoi
alloggi, visto il tempo molto avverso. Maat-hor non poté
fare nulla e non sospettò minimamente che il padre fosse a
conoscenza del suo amore verso il bellissimo Zeev.
Dentro di
sé, Zeev era un concentrato di confusione. Prese tempo per
capire quale fosse la scelta giusta, perché sapeva bene che
tra lui e Maat-hor non poteva nascere un legame accettato dalla
famiglia e dalla comunità egizia. L’unica
alternativa era l’allontanamento da quella che era la loro
realtà e cercare il modo di ricominciare da zero insieme. Ma
se lei non avesse voluto rinunciare ai lussi per cominciare una vita di
stenti con un uomo che sapeva solo lavorare il fango per fare i
mattoni?
Se li avessero presi,
cosa avrebbero fatto a lei? No, non poteva ricominciare senza avere
neanche un soldo in tasca.
“Non posso
fare altro che accettare i frutti della tua generosità,
nobile Userhat.” Il semita comprese cosa fare e si
prostrò ai piedi dell’egizio, baciandone le
calzature che li proteggevano. Pensò immediatamente alla
splendente Maat-hor, al loro legame speciale, alla spensieratezza del
suo canto. Qualcosa dentro di lui germogliò. Era la
speranza. Con la casa e il terreno avrebbe dato sostentamento alla
famiglia. Con l’oro avrebbe fatto ritorno, al momento giusto,
per sposare Maat-hor e fuggire da quella città, cambiare
nome e vivere la loro vita, così come l’avevano
sempre immaginata sulle rive del Nilo.
Maledisse la sua
incapacità di saper scrivere, perché non aveva
modo di lasciare messaggi alla sua amata. Con la morte nel cuore,
cosciente dell’odio che lei avrebbe riversato nei suoi
confronti, lasciò il tempio da uomo libero dalla
schiavitù di un lavoro mal retribuito. Era quello il prezzo
della libertà, la rinuncia all’amore, quello puro
che esisteva tra i due, nella speranza di poter ritornare.
Dopo tre giorni di
cielo plumbeo, con le nuvole gravide di pioggia, il sole
tornò a fare capolinea sulle terre del Nilo. Il calore
colpì nuovamente i lavoratori, più forte che mai.
La giovane egizia, dopo aver passato interi pomeriggi in casa a giocare
con le ancelle approfittò del bel tempo per recarsi alla
città sul fiume. Si fece accompagnare con il baldacchino,
come il primo giorno di visita.
Non destò
più lo stesso stupore però, l’evento
eclatante che era stato aveva completamente dissipato ogni attenzione
dal corteo di Maat-hor.
La fanciulla
ordinò più e più volte di percorrere
ogni strada accessibile, alla ricerca del bell’ebreo, ma
tutto fu vano. Lui era già partito, accompagnato dalla
scorta personale di Userhat. Lo scriba non aveva lasciato nulla al caso
e aveva provveduto al suo trasferimento immediato.
Scese dal baldacchino
in malo modo, irritata dal comportamento fiacco dei suoi portantini.
Tutti sapevano cosa il loro padrone aveva fatto, ma con un giuramento
erano costretti al silenzio. Nei cuori teneri si formò un
nodo di dolore per il comportamento smarrito della piccola ragazza,
nell’animo del traditore non si mosse nulla se non
l’avarizia del guadagno facile.
Dopo aver domandato ad
ogni mattonaio che lavorava dove fosse Zeev e non aver ottenuto nulla
se non uno sguardo impaurito dall’idea della punizione del
capomastro, si recò al fiume, nel loro posto privato, dove solo gli dei
avevano il permesso di volgere lo sguardo. Il volto di Ra, nel pieno
delle sue forze, le bruciava il capo, ma lei non volle allontanarsi da
lì e né ricevere il conforto di un ombrello
protettivo. Dopo qualche tempo cominciò a vedere strane
colonnine di calore che prendevano vita dalla sabbia rovente e
altrettanto anomale macchie scure. Per la secchezza, le rosee labbra si
spaccarono, lasciando una goccia di sangue a testimonianza del loro
dolore.
Trovò
sollievo nell’immergere i piccoli piedi nudi nelle acque
turbolenti del fiume. Ripensò a quando aveva cantato per
Zeev e anche allora aveva sfilato le calzature per bearsi delle acque
fresche. Anche il giudeo aveva fatto altrettanto, senza accingersi a
cantare. Trovava orribilmente stonata la sua voce a confronto con il
timbro delicato della ragazza.
Dove era finito
l’orgoglio che sempre l’aveva contraddistinta?
Dov’era il suo amore, perché non aveva aspettato
un solo giorno di più per dirle addio?
Il sole era tramontato
da poco e nel cielo vi era un riverbero arancione, nel mare di violetto
che contraddistingue la sera dalla notte nera. Solo allora
accettò di andare via. Non versò una sola lacrima
in presenza di altre persone, le aveva già donate tutte al
suo amato fiume.
Una volta a casa era
decisa più che mai a non soffermarsi mai più nel
pensiero delle braccia forti dell’ebreo o nel suo sguardo
enigmatico e profondamente bello. Scoprì di non avere la
volontà che aveva sempre vantato con le sue ancelle.
“Troverai
altri uomini più belli e sicuramente più ricchi
di lui mia signora. Lei è bellissima.” Disse una
delle sue alleate una sera, quando Maat-hor si era soffermata a
guardare il volto pallido della luna piena, sospirando sconsolata.
“Non esiste
uomo più bello di lui e non mi interessano i soldi,
papà ha già tutto il denaro che basta per vivere
senza pensieri e non sono ugualmente felice. Non senza di
lui.” Rispose la giovane, senza staccare gli occhi dal cielo
trapunto di stelle. L’ancella si sentì in colpa,
mortificata al solo pensiero di aver suggerito una soluzione
così vile ai problemi della sua padrona.
Gli anni passarono e
il ragazzo ebreo diciottenne era cresciuto, diventando un uomo il cui
nome era molto conosciuto nell’ambito dei commerci. Non vi
era luogo dove non erano passati i suoi carri colmi di ogni bene di
lusso che provenivano da oriente.
Molte donne volevano
conquistare il cuore di Zeev, ma non c’era posto per altre
che non fossero la bella Maat-hor. Nella sua mente ricordava ogni
lineamento di quella sedicenne piena di bellezza e di dolcezza. Il naso
piccolo, gli occhi felini e scuri e i morbidi capelli che molto spesso
aveva carezzato. Quando era solo cantava sommessamente le melodie della
sua amata, in una stretta al cuore piena di malinconia.
La sua gelosia era
molto forte e non ebbe il coraggio di fare ritorno alla
città sul fiume, dove aveva lasciato la sua anima;
l’assaliva il terrore di saperla sposata ad un altro uomo,
ora che i suoi venti anni le avevano sicuramente dato tutto lo
splendore che ancora adolescente nascondeva. Non chiedeva
informazioni ai mercanti che spediva lì.
Il nobile Userhat
aveva davvero una mente ambiziosa e ogni suo piano, poiché
ben congeniato, andava a segno. La città che aveva plasmato,
prima sulle sue tavolette di argilla, poi nella realtà, era
molto irrorata di commerci. Non potevi evitare di passare per le porte
altissime della sua città.
Il nobile Faraone Seti
aveva rivestito di ogni tipo di carica il suo scriba per il lavoro ben
riuscito.
Maat-hor ogni anno,
dopo l’inondazione del Nilo, si recava alle rive
dell’amato fiume, per immergervi i piedi e ricordare quel
dolce amore che era sbocciato nell’arido deserto.
Sperava di poterlo
rivedere e porgli tutte le domande che l’assillavano da
quando l’aveva lasciata sola, in balia dei suoi
dubbi. Ma l’unico ad esserci sempre era il grande
Nilo, con le sue acque purificatrici e vitali.
Il padre non le aveva
mai rivelato nulla, nonostante il tempo passato e il velo di tristezza
che sempre aleggiava nello sguardo della figlia. Non volle
sposare nessun uomo, neanche il figlio del Faraone Seti, chiaramente
invaghito di lei fin da quando erano piccoli. Userhat era molto geloso
della sua bambina e per questo motivo non la forzò a
sposarsi neanche con il principe.
A dirle la
verità fu un’ancella che per caso aveva assistito
ad una conversazione tra il padrone Userhat e il portantino traditore.
I due non avevano fatto caso alla sua presenza e pertanto parlarono
liberamente. Il nobile scriba si lamentava dell’insistenza
del giovane a voler sposare Maat-hor adesso che era divenuto ricco e
famoso nei commerci, grazie alla somma di denaro che la
generosità di Userhat gli aveva elargito.
Lo scriba la
portò con sé a Tebe, la capitale del Regno
d’Egitto. La magnificenza del carro sulla quale viaggiarono
non passò inosservata e ogni mercante che sostava ai piedi
dell’entrata alla città li fissarono sbalorditi.
Dentro di lei si fece
forte il ricordo di quando più piccola ogni mattonaio ebreo
venne rapito dalla visione del suo baldacchino. Cominciò
allora a cantare, intonando le stesse parole di quella giornata che le
cambiò la vita.
Poco distante da
lì si sentì giungere un’altra voce,
più roca e bassa, che seguiva il suo canto. Per lo stupore
lei si interruppe e chiese immediatamente aiuto per scendere dal carro.
Si precipitò letteralmente tra le strade alla ricerca di
quella voce e lo ritrovò. I capelli scuri mossi dal vento,
gli occhi verdi profondi e il fisico asciutto e allenato. Il tempo
parve fermarsi e riavvolgersi per riportali sulle sponde del fiume, con
il viso di Ra che li baciava benevolmente, e le acque fresche che
teneramente solleticavano le gambe, dando sollievo dal forte caldo.
“Siete
ancora più bella e splendente delle dee alla quale donate la
vostra devozione.” Zeev si avvicinò lentamente,
cauto come la prima volta nella quale scorse la bellezza delle sue
labbra e quanto soffici fossero i suoi capelli. Volontariamente fece
ricorso alle parole che le aveva già sussurrato anni
addietro, perché nulla aveva dimenticato, nulla che fosse
appartenuto a loro.
“Il tempo
adesso si è fermato, possiamo rimanere qui per
sempre?” Maat-hor tese le braccia e ottenne
l’abbraccio che in tutti gli anni aveva sempre sognato e
atteso. I passanti applaudirono perché l’amore che
li avvolgeva vibrava nell’aria, diffondendosi come un buon
profumo. Tutti si riscoprirono felici, ebbri d’affetto. Anche
il nobile Userhat, dall’alto della sua posizione e immobile
sul carro comprese di non potere nulla contro quell’unione
così forte. Non aveva più il potere di impedire
nulla alla sua bambina, ormai donna, e non aveva più
l’età per opporsi. Le rughe ormai profonde
segnavano il suo viso e pensò che lasciarla libera di amare
l’ebreo avrebbe purificato il suo cuore, per renderlo leggero
ed entrare nella grazia degli dei.
Maat-hor si
svegliò di soprassalto, il cuore le batteva
all’impazzata e del sudore freddo colava dalla sua fronte.
Era nel suo alloggio non a Tebe e fuori dalla finestra una notte senza
luna troneggiava minacciosa.
Si rese conto di aver
trasmesso nel sogno il suo più grande desiderio e non
comprese come fosse possibile credere una fantasia così
reale. Scese dal letto, perché aleggiava ancora nella stanza
quel fantasma della sua felicità, incamminandosi per i bui
corridoi.
Dallo studio di suo
padre si propagava una luce, quella di una torcia. Quando vi si
affacciò per scorgere il padre la trovò
letteralmente vuota: mancava tutto, eccetto ciò che era il
mobilio. Pensò di non essersi ancora destata dal sonno e di
vivere una specie di incubo. Sul pavimento vi era un pezzo di papiro
strappato in malo modo, lo raccolse e nonostante la luce traballante
della torcia che si stava consumando, riuscì a leggere un
messaggio, rivolto al padre.
Nella notte senza luna
gli dei riceveranno la tua anima per mano mia.
Sentì le
gambe cedere e senza accorgersene fu a terra. Quel pezzo di carta era
maledetto e il suo bruciore malefico provocò un pizzicore
anomalo nella mano che reggeva la carta. Era completamente saturo della
crudeltà di Seth. Il fetore immondo di putrefazione iniziava
ad aleggiare nella stanza e comprese che stava arrivando dalla porta.
Prima di incamminarsi nuovamente pensò bene di usare la
torcia come guida nel buio. Il corridoio sembrava vuoto e tranquillo,
come ogni notte ma l’odore di morte era sempre più
forte ed ogni passo costava fatica. Doveva essere coraggiosa e
affrontare il pericolo, scioccamente pensava di p0ter ancora salvare il
padre e evitare la morte anche a se stessa.
I piedi nudi sulla
pietra erano silenziosi ma la torcia era in procinto di spegnersi.
Raggiunse appena in tempo la camera del genitore quando del tizzone di
legno non era rimasto che una carbonella. La porta non era ben chiusa e
il cigolio fu impossibile da nascondere.
La madre di Maat-hor
era morta da anni, quando lei era ancora una bambina dai ricordi molto
volatili e quasi nulla le era rimasto di lei, se non il portagioie che,
con il permesso del padre, apriva di tanto in tanto. Gli amuleti erano
sempre i più belli mai visti e le pietre scintillavano come
se fossero state appena lavorate e incastonate.
Riverso sul suo letto
vi trovò il padre, di spalle alla porta. Se non fosse stato
per l’odore pungente di decomposizione pareva riposare come
suo solito. Il cielo cominciava a rischiararsi, le prime luci
dell’alba fecero capolinea. La donna si avvicinò
al padre e vide il pugnale nel cuore dello scriba, incrostato di
sangue. L’elsa dorata era invece pulita e poco più
in là un panno di lino era invece pieno di macchie ematiche.
Il volto era contratto di dolore e le mani stringevano con forza un
piccolo oggetto.
Ingoiò il
magone di dolore che la stava divorando e cercò con
delicatezza di dischiudere le mani del vecchio padre. La
rigidità della morte stava facendo i suoi effetti sulle dita
ossute, ma era ancora troppo presto per avere la meglio sulla forza
della giovane. Liberò l’oggetto e
l’esaminò alla luce del sole che sorgeva. Un
occhio d’oro, grande la metà di una mano con al
centro uno smeraldo che luccicava come fosse vivo. Gettò a
terra quell’oggetto, turbata dal messaggio nefasto che
racchiudeva.
Poteva mai essere il
gentile Zeev, dalle mani callose e piene di tagli, ma sempre delicate,
ad aver inferto un colpo fatale al vecchio padre? Iniziò a
gridare aiuto a tutta forza, cercando di svegliare più
persone possibili. Nascose l’occhio nello scrigno della
madre, certa che nessuno avrebbe mai fatto caso a quel portagioie. Poi,
finalmente, si concesse di piangere l’anima del padre e il
primo ad accorrere al suo grido fu il portantino traditore.
Lanciò un grido anche lui, alla vista del sangue, poi corse
via per richiamare tutti gli altri.
La notizia
dell’assassinio del nobile Userhat ave velocemente raggiunto
ogni città e anche le orecchie dell’ebreo Zeev
avevano accolto la terribile novella. Il Faraone per omaggiare il suo
fedele servitore, concesse altre ricchezze da mettere nella camera
mortuaria, in modo da facilitare il suo passaggio all’altro
mondo.
Subito la mente di
Zeev pensò alla giovane Maat-hor; aveva saputo ogni cosa dai
suoi mercanti e anche il fatto che fosse stata lei a trovare il corpo
esamine del padre. Si fece forte il desiderio di consolare il suo
pianto e di farle visita. Ma non poteva avvicinarsi a lei senza le
dovute precauzioni. Nel corso del primo anno di
allontanamento aveva sempre cercato udienza al cospetto di Userhat per
ottenere un matrimonio con la figlia, senza doverla strappare alla sua
quotidianità, ma non ottenne nulla che
non fosse minaccia di morte.
Dopo poco smise di
insistere, comprese che convincerlo non sarebbe mai bastato
perché ogni egiziano avrebbe visto nella loro unione una
fatalità negativa, ricoprendo la giovane Maat-hor di
vergogna e rimpianto. Il nobile scriba aveva, in ogni caso, allertato
ogni guardia della città di tenere lontano quel giovane
ebreo che senza ritegno lo importunava.
Per la prima volta
partì per quella città insieme ai suoi mercanti,
deciso più che mai a voler incontrare Maat-hor e sostenerla
nel lutto che stava vivendo. Una volta arrivato alle porte prese dalle
sue merci gli abiti migliori, quelli che provenivano dalla Babilonia e
si vestì di quelli. I colori sgargianti, le maniche larghe e
il tessuto leggero coprivano il suo fisico olivastro senza opprimerlo.
Si lasciò truccare da Hashepsut, una donna che aveva accolto
come una sorella dopo che era stata cacciata da corte. Era la
truccatrice dell’harem del Faraone e la sua bellezza naturale
aveva suscitato l’invidia della regina.
Con il suo aiuto e
l’uso di un copricapo di Zeev l’ebreo era rimasto
solo lo sguardo magnetico e verde, come la bellissima pietra preziosa.
I capelli mossi erano raccolti in modo da non fare capolinea e il
trucco bianchissimo aveva dato pallore a quella pelle che per molti
anni era stata bagnata dai raggi solari. Le guardie si prostrarono ai
suoi piedi, credendolo un nobile egizio, mentre gli chiedevano il nome.
Zeev pensò anche a quello e alla pronuncia di Merenptah le
lance delle guardie si ritirarono, lasciando passare il suo carro e
quello del suo seguito.
Raggiunse senza
problemi l’abitazione che era di Userhat, ma le ancelle gli
rivelarono che la figlia non era in casa. Una tra quelle riconobbe lo
sguardo e, nonostante il suo silenzio, a parlare fu la sua espressione
stupita. Fu l’ultima ad allontanarsi e sussurrò la
parola Nilo, prima di dileguarsi. Comprese dove trovare il suo amore e
si recò senza indugi sulle rive del fiume.
La trovò
lì, intenta a guardare lo scorrere incessante, lo sguardo
perso nei pensieri, i sensi tesi al massimo per captare ogni movimento
estraneo. Infatti, al primo passo che lui mosse verso di lei, Maat-hor
si girò di scatto con il respiro accelerato e impaurita
dalla sua posizione di impotenza.
Zeev si tolse il
copricapo e con la manica del vestito cercò di rimuovere il
trucco bianco. Il risultato era mostruoso, linee bianche sul suo
incarnato scuro seguivano il movimento ondulatorio del braccio,
sparpagliandosi sul viso senza andarsene.
“Sono io,
Zeev, non mi riconosci più?” Gridò;
erano soli e non aveva paura di essere arrestato.
“Va via, non
ho intenzione di parlare con te!” Rispose alla sua domanda
con un acuto più forte.
Zeev
associò la paura al suo aspetto e con cautela
cercò di avvicinarsi.
“Mi sono
dovuto truccare per incontrarti, altrimenti le guardie mi avrebbero
preso.” L’ebreo cercava ancora di ripulire il viso,
sempre con la manica larga della veste. La tinta rossa si macchiava di
bianco e incominciava a sembrare più umano.
“Avrebbero
fatto bene, sei solo un assassino. Solo perché ti sei
protetto le mani dal sangue di mio padre quando l’hai
pugnalato non ti rende meno sporco!” Maat-hor era in preda ad
un isteria, senza più freni. Indietreggiò troppo
e cadde nel fiume.
Senza perdere tempo il
giovane si buttò nel Nilo, recuperando la donna per non
farla affogare. Con un braccio intorno al ventre di lei e
l’altro teso verso la riva la tirò su,
strappandola all’acqua. Il viso era stato completamente
pulito dallo scorrere del fiume e adesso era davvero il giovane di una
volta. La mise di lato, dandole dei colpetti leggeri dietro la schiena,
per facilitare l’espulsione dell’acqua dai polmoni.
Dopo tre o quattro colpi di tosse Maat-hor si mise a sedere, fissandolo
incerta. Non sapeva se fidarsi o meno di lui.
“Io non sono
più tornato qui da ormai quattro inondazioni, non ho ucciso
io il nobile Userhat, te lo giuro sul mio Dio, che rende grande i
cieli.” A quelle parole parve calmarsi. Mai nessuno
giurerebbe il falso se forte è la sua fede.
“Nelle mani
di mio padre vi era un occhio con uno smeraldo.”
Mormorò, per giustificare il suo comportamento. I capelli
neri gocciolavano e le vesti bagnate aderivano al corpo diventando
fastidiose.
“Qualcuno ha
voluto incastrarmi, devi credermi. Troverò chi è
stato e vendicherò l’anima di tuo
padre.” Porto una mano sul petto per consacrare la sua
affermazione ma quelle piccole di Maat-hor lo fermarono.
“No, non
puoi farlo adesso. Se è vero che non sei tu
l’assassino di mio padre vuol dire che chi si è
macchiato di questa colpa è stato scaltro abbastanza da
incastrarti.” Prese fiato per poi riprendere
“È a conoscenza di molte cose. Quello che puoi
fare è portarmi via da qui, non sono al sicuro.”
Le parole di lei non erano più cariche di rabbia come quelle
che gli aveva scagliato contro prima. Adesso sembrava fragile e
indifesa e Zeev comprese che aveva ragione.
Scapparono nella
notte, con la luna calante che illuminava il loro cammino. Maat-hor
aveva preso con sé tutto l’oro che aveva sotto
mano, quello rimasto dalla sepoltura del padre. Portò via
anche il porta gioie ma l’occhio maledetto lo
regalò a un mendico che avrebbe ricavato da bere e mangiare
per almeno un mese. Zeev, scampato alle guardie grazie
all’aiuto di Hashepsut, l’attendeva poco distante
dall’entrata della città, aveva già
caricato sul suo carro il corredo dell’egizia.
La guardia che era
rimasta sveglia assopì la sua smania di domande quando si
ritrovò per le mani un sacchettino con dentro quindici deben
d’argento. La lasciò passare, divertendosi a
contare quante monete contenesse il sacchettino, soppesandole, fiero
del guadagno. Maat-hor prese a correre, cercando in ogni direzione le
fila di carri che l’attendeva. Cominciò a
disperarsi, credendosi persa, dopo aver vagato quasi un’ora.
Poi intravide una figura maestosa che la salutava, sbracciandosi per
farsi notare nella notte. Le stelle, luminose come non mai, rendevano
visibile l’ebreo, donandogli una bellezza eterea.
Quando salì
sul carro, Zeev ringraziò il suo Signore per aver benedetto
le loro azioni e aver favorito la buona riuscita dal loro piano.
Maat-hor pregò insieme a lui per la loro riconciliazione.
Poi, quando fu lei a voler invocare la benevolenza delle sue
divinità lui non si intromise per dirle che era sbagliato.
La osservò parlare alla dea protettrice del suo cammino e le
parve sempre la bella e testarda Maat-hor, rispettosa nei suoi
confronti e ben devota alla sua religione.
Dopo diversi giorni di
errante cammino decisero di sposarsi, senza violare la fede
l’uno dell’altra. Trovarono una dimora nella quale
abitare stabilmente e lì consacrarono la loro unione.
Invitarono i pochi fidati che avevano reso possibile la loro fuga e
festeggiarono, bevendo buon vino. Così poi celebrarono il
matrimonio sotto l’occhio vigile del buon Dio di Zeev,
affiancati dalla famiglia di lui. Non tutti appoggiarono
l’unione con una donna che non credeva nel Signore, ma non
fecero nulla per impedirlo.
L’identità
di colui che aveva assassinato il nobile Userhat rimase sempre celata.
Il portantino dall’aria innocente e lo spirito debole aveva
un forte vizio per il gioco e ricattava lo scriba. Come una sanguisuga
che prosciuga la preda, aveva compreso che il nobile padrone non fosse
più intenzionato a pagarlo e che avrebbe reso il Faraone
partecipe del ricatto. Timoroso della punizione del Grande Egitto,
progettò di accusare quel sudicio semita dagli occhi verdi
dell’omicidio. La sua ignobile e mai calcolata presenza gli
valse la libertà e nessuno sospettò di lui.
Ma il male che aveva
commesso non era stato cancellato dalla memoria degli dei. Terribili
sofferenze accompagnarono gli ultimi giorni della sua esistenza. Quando
ne esaminarono il cadavere lo trovarono martoriato
dall’immonda presenza della punizione di Seth. Fu quella la
sua condanna per aver sottratto ingiustamente la vita ad un altro uomo.
Maat-hor e Zeev,
nonostante il loro matrimonio fosse ormai consacrato, non sempre
trovarono sguardi cortesi, ma con il tempo si abituarono a vivere bene
solo loro due, viaggiando anche fuori dall’Egitto. Ogni anno
però, dopo l’inondazione, tornarono sulle rive del
fiume, per beneficiare della sua vitalità e per riconfermare
il loro amore, cresciuto di giorno in giorno dopo il loro primo
incontro.
-Buonasera a tutti coloro che
sono arrivati alla fine, sono molto felice di potervi salutare e
ringraziare di cuore. Questa storia nasce dalla Sfida dei
cliché del gruppo di Facebook EFP Famiglia: recensioni,
consigli e discussioni.
La mia consegna era la numero
34: I genitori di personaggio A
non approvano al relazione tra personaggio A e personaggio B e pagano
personaggio B per stare lontano da personaggio A.
Spero
di aver ben incentrato il tema e di aver dato vita ad una bella storia
che non annoi durante la sua lettura. Un grazie in più a chi
lascerà il
suo parere sincero!
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