Daiki si stava quasi
addormentando.
Colpa della palestra
troppo lontana dall'appartamento in cui si era stabilito, del ritardo
accumulato nel festeggiare il compleanno di un compagno di squadra -a
lui non erano mai importate davvero queste cose, ce l'avevano
trascinato- e di quella piacevole abitudine di finire le serate
addosso al proprio coinquilino, dopo una doccia destinata a ripetersi
subito dopo.
Ryouta non smetteva
di lamentarsi, la mattina successiva, delle occhiaie e le possibili
rughe che avrebbero compromesso il suo lavoro. Lui lo fissava
nascondendo il proprio divertimento nel cuscino, sprofondando del
tutto quando sentiva il sonno tornare all'attacco.
Era una bella
routine, quella, anche se non l'avrebbe mai ammesso.
Accelerò il
passo senza rendersene conto, il borsone con i vestiti per
l'allenamento su una spalla, in una posa noncurante decisamente
curata. Si bloccò, guardandosi i piedi come per accusarli di
una tremenda infrazione, chiedendosi come quel pensiero alla propria
abitudine serale potesse spingerlo verso casa più rapidamente.
"È il
sesso." si giustificò, a bassa voce, pur essendo certo di
essere da solo, in quella via laterale. Chiuse gli occhi, fissando il
cielo scuro con una smorfia. Avrebbe voluto godersi il momento di
solitudine e camminare tranquillamente fino a casa, ignorando la
propria testa che tentava di causargli il senso di colpa per il
compagno abbandonato a casa con la cena.
Aveva imparato ad
apprezzare i momenti di calma, seppur noiosi le prime volte. Per
forza di cose si era ritrovato da solo molto più spesso di
quanto era abituato e lui, semplicemente, vi si era adattato.
Era una colpa
volersi allontanare dal continuo parlare di Ryouta?
"Fratellone,
pensi alla tua fidanzata?"
Dall'alto del
proprio metro e novantadue, Daiki fece uno scatto in avanti,
voltandosi poi di centoottanta gradi per guardare chi avesse parlato.
Non che avesse avuto paura, ma a mezzanotte in un vicolo buio...
C'era un bambino. Un
bambino che non doveva neppure avere sette anni, con la sua divisa in
miniatura e la cartella sulle spalle, i capelli neri un po' troppo
lunghi sugli occhi scuri che lo fissavano dal basso con
un'espressione così seria da sembrare buffa.
"Dev'essere
bellissima, perché sospiravi un sacco." aggiunse il
piccolo, non distogliendo un momento lo sguardo dall'adulto.
Uno: cosa ci faceva
un bambino così piccolo fuori a quell'ora? Due: perché
non si faceva gli affari suoi?
Si voltò di
nuovo, proseguendo per la propria strada e sperando che qualcun altro
lo trovasse. Non era il tipo da rassicurare i bambini. Quello era
Ryouta. La sua ragazza.
Sghignazzò
senza volere. Anche a voler far conversazione, non avrebbe potuto
spiegare la propria situazione al bambino.
"Fratellone,
perché sei così abbronzato?" chiese il bambino,
aggrappandosi ai suoi pantaloni con una mano. Era fatta. Non se lo
sarebbe più staccato di dosso.
"Non sono
abbronzato." borbottò, cercando di accelerare il passo
per seminarlo, tanto che il bambino inciampò e cadde in
avanti. I riflessi di Daiki gli impedirono di sbattere per terra,
afferrandolo per la cartella e sollevandolo. Non ci teneva a farlo
piangere e passare per un maniaco, per quanto fosse irritato dalla
sua presenza.
"Ma sei marrone
come la torta al cioccolato della mia mamma!" commentò il
piccolo ingrato. Per un momento meditò di lanciarlo dentro
qualche cortile, ma desistette.
Un crimine avrebbe
compromesso di sicuro la sua carriera. Inoltre non ci teneva affatto
a sentire Ryouta lamentarsi e piangere ad ogni visita al parlatorio,
vestito come una vedova.
L'immagine gli fece
sfuggire una risatina, che il bambino intercettò
immediatamente.
"Anche io
voglio essere grande e sposarmi, fratellone!" esclamò,
ben lontano dal capire effettivamente perché ridesse. Daiki lo
sollevò e lo guardò in modo severo.
“La tua
fidanzata te le fa le torte al cioccolato?” chiese il bambino,
ignorando completamente il pericolo immediato in cui si trovava.
Daiki cercò
di non pensare a Ryouta intento a preparare una torta al cioccolato,
con tanto di grembiule rosa, sguardo sognante e guance rosse mentre
gli presentava una cosa informe e bruciacchiata -l'immaginazione
poteva arrivare solo fino ad un certo punto- sperando l'accettasse,
in un tipico esempio di karma che si vendicava per tutte le volte che
alle medie il modello era stato sommerso da dolci per San Valentino.
Sghignazzò,
ma i tacchetti del bambino sul cemento lo distrassero immediatamente.
“Lo sai,
piccola piattola, non tutti si fidanzano per avere una seconda
mamma.” gli fece notare, cercando di non pensare troppo ai
problemi morali di quel tipo di ragionamento.
Ma il bambino aveva
sette anni, cosa poteva saperne lui di tutte le implicazioni
dell'essere fidanzati?
“E allora per
cosa?” chiese appunto, incuriosito.
Lo lasciò
andare, visto che ormai penzolava a mezzo metro da terra da un bel
po' e il mostro pensò bene di imbronciarsi, invece di esserne
sollevato.
Non aveva proprio
nessun senso del pericolo.
Rimase a fissarlo
con occhi immensi, così fissi da ricordargli un po' Tetsu -un
po' troppo, la somiglianza lo metteva a disagio- e Daiki sbuffò,
ficcando le mani in tasca.
"Non ce l'hai
una casa?" domandò, irritato. Sentiva il bisogno di
arrivare a casa e lanciarsi nel futon a faccia in giù,
mandando al diavolo la routine, per quanto piacevole.
“La mia casa è
bellissima!” esclamò il bambino, facendo finalmente
qualche passo verso casa. “Però non mi hai ancora detto
perché le persone si fidanzano!” aggiunse, con un
sorriso fin troppo innocente. Gli tolse completamente la voglia di
traumatizzarlo parlando di sesso.
Perché le
persone stavano insieme?
Intorno a lui vedeva
solo coppie formate da un povero martire e la persona insopportabile
con cui stavano, certo non poteva essere solo per sesso?
Di certo non era il
motivo per cui Midorima aveva un ragazzo. Almeno così credeva.
Sperava. Non si sarebbe messo a pensare a Midorima e sesso nella
stessa frase. Mai. Nossignore.
Ravanelli al vapore.
Quello sì che era un pensiero molto più invitante. E
odiava i ravanelli.
“Fratellone?”
lo chiamò il bambino, riappendendosi ai suoi pantaloni.
Ryouta. Ryouta,
Ryouta, Ryouta.
Le giornate non
erano del tutto insopportabili. Certo, Ryouta era rumoroso e
probabilmente avrebbero fatto meglio a scegliere un appartamento con
due bagni, perché impiegava la bellezza di tre quarti d'ora
ogni mattina a prepararsi -entrando e uscendo dalla stanza identico a
prima, tra l'altro- lasciandolo fuori come se non l'avesse mai visto
appena sveglio, ma...
C'erano giornate in
cui entrambi erano liberi e Ryouta, nonostante vi avesse rinunciato
da tempo, gli chiedeva di giocare a basket con lo stesso entusiasmo
di quando avevano quattordici anni.
C'era il modo in cui
se ne stava in silenzio quando era troppo stanco o depresso per
parlare, dopo che il lavoro era andato male o qualche contratto a cui
teneva era saltato, accoccolato al suo fianco come se tentasse di
tenere meno spazio possibile, seduti entrambi sul divano a guardare
qualcosa di stupido in televisione.
E se davvero si
sforzava, c'era il modo in cui gli occhi di Ryouta si illuminavano
quando andava a trovarlo sul set di un nuovo drama di cui non aveva
ben capito la trama e quel buffo non riuscire a smettere di muovere
le mani quando gli parlava delle scene che aveva appena girato, prima
che la sua manager lo trascinasse di nuovo a recitare.
“Le persone
stanno insieme quando hanno qualcosa in comune, da condividere.
Credo. E quando non si annoiano l'uno dell'altro. E non è male
nemmeno stare in silenzio ogni tanto a non fare niente di speciale.”
cercò di spiegare, anche se non era troppo chiaro nemmeno a
lui.
Era come se,
improvvisamente, avesse realizzato che si stava prendendo in giro da
troppo tempo.
Non sarebbe mai
andato a vivere con qualcuno di insopportabile, che non aveva nulla
in comune con lui o con cui non andava d'accordo. Non era stupido,
eppure fino ad allora aveva finto di esserlo.
Uno stupido che
viveva con un'insopportabile inquilino con cui faceva solo sesso. Uno
stupido che giocava a basket in una squadra che non lo interessava.
Non era un po'
troppo vecchio per questo genere di bugia?
Scosse la testa,
sentendo nuovamente la presa del bambino sul pantalone.
“Gli adulti
sono strani.” sentenziò e Daiki ridacchiò,
scuotendo la testa. Aveva davvero provato a spiegare qualcosa di
tanto complicato ad un bambino delle elementari?
“Alcuni si
fidanzano con persone che un po' ricordano delle mamme preoccupate,
però.” aggiunse, spingendo appena il bambino in avanti
per fargli accelerare il passo.
La suoneria dei
messaggi del telefono risuonò nella via vuota come se qualcuno
avesse letto nei suoi pensieri, ma decise di ignorarla. Il
commissariato di polizia non era lontano, la casa era poco distante
da esso, avrebbe portato la piccola piattola dove non poteva seguirlo
e non ci sarebbe stato bisogno di avvertire.
"La mamma sarà
triste perché non riesco a tornare." mormorò il
bambino, rattristato, abbassando lo sguardo.
Il giocatore di
basket si chinò appena per posargli la mano sul casco giallo,
facendoglielo cadere sugli occhi. Non aveva idea di come trattare un
bambino triste e risolse superandolo e sperando lo seguisse senza
fare ulteriori domande filosofiche.
Neppure un
chilometro. Poteva farcela.
Cominciò a
camminare, sentendo le scarpette del bambino seguirlo con un ritmo
regolare. Peccato che il silenzio non fosse destinato a durare più
di un minuto.
"La mia mamma
dice sempre che se mangio tanto diventerò altissimo! Tu
cos'hai mangiato? Quando piove senti tutte le gocce?" chiese a
raffica il bambino, tornando ad aggrapparsi ai suoi pantaloni.
Daiki lo ignorò,
chiedendosi se ci fosse la possibilità che quelle stupidaggini
fossero ereditarie e che quello fosse un figlio segreto di Ryouta.
Il telefono suonò
di nuovo: un nuovo messaggio. Non era nella natura del suo
coinquilino quella di non telefonare e non tentare di invadere i suoi
spazi, quindi, per un momento, pensò che non fosse lui e che
potesse essere davvero importante.
Frugò in
tasca, camminando e guardò lo schermo del telefono. Sette
nuovi messaggi, nessuna chiamata, un solo mittente.
Quattro messaggi
erano quanto di più melenso esistesse sul pianeta, inviati
durante l'allenamento. Gli altri chiedevano in modo più serio
della cena e di dare notizie.
Ryouta serio era un
avvenimento piuttosto raro e gli ultimi messaggi stridevano con i
soliti sentimentalismi e le mille faccine con cui farciva i suoi
messaggi inutili. Era davvero così preoccupato? In fondo era
passato l'orario per l'ultimo treno...
"Anche io ho un
telefono!" esclamò il bambino, estraendo dalla tasca un
giocattolo che prese a suonare in tredici modi diversi nel giro di un
minuto.
Glielo rinfilò
in tasca alla velocità della luce, chiedendosi che cosa avesse
fatto di male per meritarsi una punizione del genere.
"Fratellone, la
tua ragazza è triste perché è tardi?"
chiese il piccolo, di nuovo improvvisamente malinconico. Quel
continuo passare da un clima allegro ad uno troppo triste per essere
adatto ad un bambino tanto piccolo gli fece storcere le labbra.
Certo, era una rottura, ma non poteva comportarsi troppo male con
lui, in fondo doveva essere spaventato e forse parlare gli avrebbe
fatto bene?
Fissò la
strada, corrucciandosi.
"Credo. Non so,
piagnucola sempre un sacco. Tu piagnucoli molto?" domandò,
dando un calcio ad un sasso e colpendo un palo della luce.
"Io n-non
piango!" sbottò il bambino, tirando la stoffa dei
pantaloni con forza. "Sono grande e i grandi non piangono!"
"Vaglielo a
spiegare." borbottò, con un mezzo ghigno che un po'
stonava in mezzo a quell'espressione così lontana dal
divertimento. Il bambino non sentì, ma allentò un po'
la presa.
"La mia mamma
dice che faccio i capricci ed un po' è vero... Ma quando
arrivo a casa chiedo scusa e tutto torna a posto! La tua ragazza ti
chiede scusa?" domandò, pescando una caramella dalla
tasca e mettendosela in bocca.
Se... gli chiedeva
scusa? Certo, il suo piagnucolare e stargli addosso lo irritava,
ma... non era una ragione per chiedere scusa, non era un capriccio.
Erano cose diverse, faceva parte del suo carattere e ormai l'aveva
accettato. Tutte le volte in cui Ryouta cercava di nascondersi nel
suo petto per lamentarsi di aver perso questa o quella ricorrenza o
restava sveglio quando arrivava in ritardo a casa, lamentandosi poi
per il sonno, non erano motivi per cui chiedere scusa.
Erano -odiava
ammetterlo- gesti teneri che facevano parte della loro quotidianità,
come coppia. Ecco, l'aveva pensato. Di nuovo.
"Ieri
pomeriggio ho fatto i capricci, volevo un nuovo robot. Stamattina mi
ha portato a scuola papà e mi sono sentito triste."
raccontò il bambino, con un tono così demoralizzato da
fargli abbassare la testa.
Che cos'era quello?
Si sentì a disagio, per un lungo momento, come se quella
tristezza non fosse quella di un bambino che si sentiva in colpa, ma
qualcosa di più grande, di più pesante, più
adatto ad un adulto o un vecchio con la schiena piegata dai
rimpianti.
Rabbrividì,
inconsapevole della sensazione precisa che l'avesse portato a quella
reazione, ma ormai vicino al commissariato.
"Fratellone...
io non posso seguirti lì." mormorò il bambino,
lasciandogli i pantaloni. Chissà perché non aveva alcun
dubbio che ci sarebbero stati altri problemi, prima di arrivare a
destinazione. Sbuffò, voltandosi verso il marmocchio.
Ma quello era
sparito.
Si guardò
intorno, tornò persino indietro alla prima stradina verso
sinistra che si inoltrava tra altre case, ma non trovò nulla.
"Hai incontrato
Hikaru."
Si voltò di
scatto, scontrandosi con un poliziotto. Barcollò appena, il
più del danno ricevuto dalla spalla dell'uomo, decisamente più
basso di lui. Si scusò a bassa voce, cercando di defilarsi
rapidamente.
“Hikaru?”
Ecco, non sarebbe
mai più tornato a casa, ma la sensazione di freddo che l'aveva
accompagnato per quel chilometro scarso che l'aveva separato dalla
stazione di polizia non se n'era andata e, sul serio, il bambino
doveva essere un teppista rinomato, se anche i poliziotti lo
conoscevano.
Palpò le
tasche alla ricerca del portafogli e del cellulare, sperando che non
gli avesse rubato nulla. Il che era stupido, visto che non arrivava
al suo ginocchio, ma non si poteva mai sapere.
“Hikaru è
il fantasma del quartiere.”
Il gelo che sentiva
nelle ossa fu sostituito da una stretta allo stomaco che lo fece
barcollare decisamente di più dello scontro precedente.
Lui non credeva ai
fantasmi. Era più probabile che si fosse addormentato a metà
strada, visto quanto aveva sonno e che avesse percorso la casa verso
casa da sonnambulo, immaginando la piattola nana e i propri personali
rimpianti.
Anche perché
era mattina.
“Cosa...?!”
Era mattina presto,
il cielo che già era passato dal rosa al tenue azzurro che
segue l'alba, gli uccellini, tutte quelle cose fastidiose che
annunciavano un nuovo giorno erano lì, sotto gli occhi di
Daiki.
Di preciso, quanto
aveva bevuto, al compleanno? Ricordava due bicchieri scarsi di una
sottomarca della Coca-Cola, possibile che qualcuno potesse averglielo
drogato?
Il poliziotto lo
stava osservando con interesse, né divertito né
preoccupato, probabilmente abituato ai soliti alcolizzati del...
mercoledì notte? No, niente stava andando per il verso giusto.
“Hikaru è
morto due anni fa al ritorno da scuola. Una brutta storia, fu
ritrovato impigliato a dei rami in riva al fiume, l'indagine non
portò a nulla, a parte disgregare la famiglia. Non è
cattivo, ma tende a far fare alle sue vittime la strada più
lunga per tornare a casa, sarà meglio che tu avverta casa.”
spiegò, dandogli una pacca sulla schiena. Evidentemente doveva
avere un'espressione ben più stupita di quanto volesse far
trapelare.
Aveva male alle
gambe, in effetti e il bisogno di essere a casa era più forte
che mai.
Ryouta.
Si congedò
rapidamente dal poliziotto, accelerando il passo mentre cercava il
cellulare in tasca e sbloccava lo schermo.
Aveva un solo
messaggio non letto, ma, aprendolo, invece di essere sollevato che il
suo coinquilino non avesse chiamato polizia, il gelo che l'aveva
accompagnato per tutta la notte -non riusciva a crederci, doveva
esserci un'altra spiegazione- tornò a penetrargli fin nelle
ossa.
I messaggi inviati
da Ryouta erano molti di più, perché Daiki aveva
risposto, da mezzanotte e quarantasette alle quattro e trentadue.
Daiki, qualunque
cosa sia successa, dovunque tu sia, dimmi solo che stai bene.
Mi dispiace.
Grazie al cielo!
Stai bene? Fa un po' strano leggere le tue scuse, Aominecchi!
Mi dispiace.
Aominecchi?
Mi dispiace. Non
posso più tornare a casa. Scusami.
Hai perso
l'ultimo treno?
Non sono stato
buono con te. Non posso più tornare a casa. Mi dispiace.
Ok, a volte sei
veramente una spina nel fianco, per non dire altro, però non
esagerare.
Mi dispiace.
Aominecchi, se
torni a casa puoi dirmi che ti dispiace anche in ginocchio, lo sai?
Mi dispiace.
Ho appena sentito
il tuo capitano, ti ha mandato a casa due ore fa. Cosa sta
succedendo?
Mi dispiace. Mi
dispiace. Mi dispiace. Mi dispiace.
Daiki? Rispondi
al telefono!
Non
aveva mandato quei messaggi. Non aveva fatto nemmeno i chilometri che
l'avevano fatto arrivare a casa con sei ore di ritardo e gli
bruciavano i polpacci, eppure con un terrore inspiegabile coprì
gli ultimi metri che lo separavano da casa di corsa.
Fece
le scale con la stessa fretta e ignorò il tremore alle mani
mentre apriva la porta di casa.
Mollò
la borsa e le scarpe all'ingresso, affannato. Non era l'incontro con
qualcosa di sovrannaturale a terrorizzarlo. Non era quello che gli
ghiacciava le vene.
Era
qualcosa di più profondo e inspiegabile, che aveva origine
laddove, nascoste, erano tutte le proprie paure.
La
paura di trovare una casa vuota, al ritorno.
E
allora fingere che non importa, ignorare l'istinto che lo portava a
circondare con le braccia Ryouta quando cercava in silenzio il suo
supporto, chiudere gli occhi quando era il primo a svegliarsi e le
ciglia di Ryouta erano lunghissime, non ridere quando il suo ragazzo,
un rinomato modello, si svegliava con le pieghe del cuscino sulla
guancia e, in fondo, era un essere umano come gli altri.
Ignorare
la stretta al cuore nel sentire la voce rotta di Ryouta provenire
dalla camera, stanca, segnata da una disfatta che nemmeno lui poteva
accettare.
“...hai
ragione, Kurokocchi. Magari si è solo addormentato da qualche
parte. Però...”
“Sono
a casa!”
Non
era riuscito a non gridare, Daiki. La fretta di soffocare quel tono
troppo grave, così poco adatto a Ryouta.
Davanti
alla porta socchiusa della camera esitò solo un momento. Non
sapeva cosa avrebbe detto o come avrebbe reagito una volta di fronte
a Ryouta, se il terrore sarebbe tornato e con esso il bisogno di
fingere non gli importasse.
“Daiki?”
La
voce rotta di Ryouta era vicina, ora, appena dietro la porta. Era già
così diversa da quando l'aveva sentita entrando, piena di una
speranza che sembrava completamente persa, di un'attesa che per
Ryouta non sembrava esaurirsi mai, quando si trattava di Daiki.
Era
un terrore diverso, ma per natura simile al suo.
E
fu tutto quello che servì per spingere la porta e fare un
passo avanti.
Note
dell'autrice
Sono
letteralmente anni che non scrivo in questo fandom, ma qualche mese
fa sono tornata a fissarmi con la serie e ho deciso di riprendere
alcune trame abbandonate... e ovviamente ho scelto quella più
strana per cominciare!
Mi
ricordo che quando ho cominciato a impostare la storia avevo un'idea
molto diversa di Aomine e della coppia in generale (abbastanza
diversa dal carattere che hanno effettivamente nella serie),
rileggere gli appunti mi ha sorpresa moltissimo.
Era
un po' che volevo cimentarmi con una storia di fantasmi tradizionale
e sono abbastanza soddisfatta del risultato, però lascio tutti
i commenti a voi!
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