Tu ed io, contro il Mondo, contro il Tempo di Lory221B (/viewuser.php?uid=660415)
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Questi
personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà
di sir A.C.Doyle, Moffatt, Gatiss BBC ecc.; questa storia è
stata
scritta senza alcuno scopo di lucro per il mio puro divertimento
Premessa dell’autrice: è una storia un
po’
complessa, che si ispira come idea a Cloud Atlas - l’Atlante
delle Nuvole. C’è la parte canon e poi, con un
collegamento, si viaggia nell’AU e nel tempo, senza
rispettare
l’ordine cronologico. Per cui un capitolo inizia e non
esaurisce
la sua storia, che verrà ripresa nei capitoli successivi.
Spero
sia chiaro. Forse si viaggia anche un po’ nell’OOC,
ma
farò di tutto per mantenerli IC.
Tu ed io, contro il Mondo, contro il Tempo
L'avventura
del porto e il diario di Sir William Sherlock Scott Holmes
«
Sherlock? » sussurrò John. Respirava a fatica, il
cuore che batteva all’impazzata e un suono appena
percettibile in
lontananza. Sembrava lo squittio di un ratto o qualcosa di simile.
«
Sherlock? » riprovò, a voce più alta.
Si
portò una mano sulla testa, massaggiandola piano e cercando
di
aprire gli occhi. Sentiva freddo, probabilmente
perché era
disteso a terra, sul pavimento umido. Riuscì ad aprire
completamente gli occhi, a fatica, sbattendo più volte le
palpebre per mettere a fuoco la situazione. Era tutto buio, lugubre,
tranne uno spiraglio di luce che proveniva da una finestra del
magazzino dove si trovava disteso a terra.
Era
con Sherlock, avevano visto il sospettato, lo avevano inseguito per il
porto, fin dentro il magazzino.
Doveva
essere ancora lì.
Ricordava
perfettamente ogni secondo di quella folle corsa, ma non riusciva a
ricordare come fosse finito steso a terra.
Sentiva
l’odore del mare proveniente dal porto, il rumore delle
onde che si infrangevano contro la banchina, quel continuo squittio
fastidioso, ma nessun rumore di persone o veicoli. Sembrava che Londra
fosse addormentata. Era solo.
Percepì
che non stava bene, che c’era qualcosa che non
andava. Era affaticato, lento. Capì che se sentiva freddo,
non
era per colpa del pavimento umido, c’era
qualcos’altro.
Lentamente
comprese perché era a terra; scese con la mano lungo
il fianco e percepì una spiacevole sensazione sotto i
polpastrelli: qualcosa di bagnato e vischioso, che conosceva bene. Era
sangue, il proprio sangue, un proiettile lo aveva colpito sul fianco.
Come
in un flash ripercorse gli attimi precedenti, che prepotentemente
gli esplosero davanti, appena raggiunta la consapevolezza che gli
avevano sparato: stavano correndo, Sherlock gli aveva urlato qualcosa e
poi il buio. Probabilmente gli aveva intimato di stare attento e non
aveva visto l’uomo che poi lo aveva colpito.
Stava
morendo? Da medico sentiva di dire di sì. Non
nell’immediato, ma se non fossero arrivati i soccorsi,
sarebbe
stata la sua ultima sera. Ma quello che più lo preoccupava,
più della sua salute e di tutte le cose irrisolte che
avrebbe
lasciato se fosse morto, era che Sherlock non era accanto a
lui.
Il
detective non lo avrebbe mai lasciato a terra, in quelle condizioni,
con una ferita e in fin di vita. Forse era andato a cercare soccorsi?
Forse non si era accorto che era grave? Possibile?
Sperava
ardentemente che fosse così, perché
l’altra
ipotesi era peggiore. John tremò sotto il peso delle sue
deduzioni, tremò temendo che fosse successo qualcosa a
Sherlock,
tremò perché la sola idea non era possibile, il
suo
detective era sopravvissuto anche ad un salto da un palazzo, non poteva
essere morto.
«
Sherlock! » gridò più forte, un urlo
disperato che rimbombò nel magazzino. Lo sforzo gli
costò
caro, iniziò a tossire con forza e temette che avrebbe perso
conoscenza. Cercò di farsi forza, doveva vedere Sherlock,
doveva
trovarlo, voleva vedere quel viso, per essere sicuro che stesse bene e
per poterlo salutare un’ultima volta, se quella fosse stata
la
sua ultima sera.
La
pallottola aveva trapassato la sua carne ma non era ancora
uscita, sentiva un dolore acuto dove era entrata, ma cercò
di
non pensarci, di concentrarsi su qualcosa che non fosse lui, qualcosa
che faceva più male ancora, l’idea che Sherlock
non ci
fosse più.
“Perché?”
era l’ultima parola che aveva
pronunciato il detective, prima di iniziare la folle corsa per il
porto, dentro al magazzino dove si trovava John.
Aveva
solo chiesto “perché?”, con un leggero
tremore
nella voce, per niente da Sherlock. Si era vergognato subito, di averlo
detto a voce alta, come se il pensiero gli fosse sfuggito di bocca,
senza poterlo fermare.
Era
uscito dalle sue labbra e aveva colpito John con la forza di un
pugno. Il dottore non aveva avuto il tempo di pensare a quell'unica
parola, di esitare davanti alle mille frasi che avrebbe dovuto usare
per spiegarsi. Forse sarebbe bastato dire “te ne sei
andato”. No, era troppo riduttivo.
Avrebbe
balbettato qualcosa, di incoerente e stupido, e Sherlock si sarebbe
arreso, ancora una volta.
Ma
era arrivato quell’uomo, quello che cercavano da giorni e
tutte le parole erano morte in un secondo. Nuovamente il gioco era
davanti a loro, impedendo una conversazione imbarazzante che John non
voleva sostenere.
Ricacciò
quei pensieri e cercò di girarsi sul fianco
sano, per trovare un appiglio che lo aiutasse a mettersi in piedi. Non
vedeva che ombre di scatoloni ammassati lungo i lati e
null’altro.
Una
lacrima iniziò a rigargli la guancia « Se
è uno
scherzo, ti uccido Sherlock » sussurrò John,
iniziando a
strisciare in direzione del fiotto di luce, quando sentì un
peso
fastidioso nella tasca e ricordò, dandosi
dell’idiota per
non averci pensato prima, che aveva ancora il cellulare con
sé.
Estrasse
lo smartphone e premette la selezione rapida per chiamare
Sherlock. Curioso come il suo numero fosse ancora memorizzato sulla
prima posizione, anche se lo aveva dato per morto, anche se aveva
sposato Mary, anche se si vedevano sempre meno. Era ancora al numero 1
e sembrava ricordargli sfacciatamente, chi era, da sempre, la sua
priorità.
Premette
invio e rimase in attesa, finché non sentì una
suoneria in lontananza. Il battito accelerò nuovamente; non
era
il solito suono preimpostato che sentiva quando il cellulare di
Sherlock squillava. Solo in quel momento apprese che Sherlock gli aveva
assegnato una suoneria specifica, un pezzo di opera classica, tratto da
“Le nozze di figaro”, l’unica opera che
avevano visto
assieme, una sera di tanti anni prima, quando Moriarty non era ancora
la grande minaccia e la vita sembrava perfetta così
com’era.
Il
dottore sorrise amaramente e cercò con tutte le forze di
raggiungere il luogo da dove proveniva il suono, chiedendosi se avrebbe
trovato Sherlock e in che stato.
***** * *****
18
agosto 1790
Porgi,
amor, qualche ristoro
al
mio duolo, a’ miei sospir.
O
mi rendi il mio tesoro.
O
mi lasci almen morir!
Siamo
partiti dal porto di Londra e continuo a canticchiare
quest’aria
de “Le nozze di Figaro”. A tutti sembro
sfacciatamente
allegro, poveri idioti incapaci di distinguere la felicità
artefatta da quella vera.
Inutile
dire che non capiscono il testo.
Se
Mycroft non vi avesse costretto a partecipare al suo viaggio, sarei in
qualche sobborgo di Londra, con la mente persa grazie a qualche
sostanza in grado di farmi dimenticare, per un attimo, il brusio di
questa metropoli. Il brusio dei miei mille pensieri.
Nonostante
la mia ritrosia, dovuta anche a voler contraddire mio fratello a
prescindere, l’avventura si prospetta interessante.
Sarà
un viaggio lungo, tutto un Oceano tra noi e l’America, con la
Gran Bretagna alle nostre spalle.
M
sento strano, come se fosse il sogno di una vita che finalmente si
realizza: andare per mare, vedere altre terre, lasciare la noia di una
vita grigia a Londra. Non credo sia questo, ma voglio pensare lo sia.
C’è
un mondo nuovo che mi attende; non ho altre soluzioni in ogni caso,
ormai sono su questa nave e non posso andare da altre parti.
Mi
trovo a scrivere un diario, per la prima volta nella mia vita. Un
diario, un posto dove riversare pensieri. Non sembra una cosa da me, ma
mi è stato regalato, sembrava importante ed eccomi qui,
fintamente felice, fintamente allettato dalla prospettiva del viaggio
verso l’America, un po’ felice di lasciare Londra.
17
ottobre
Due
mesi e non riesco a togliermi quest’aria dalla testa.
E’
come un tormento, la mia mente è come travolta, non riesco
più a ragionare lucidamente. Mio fratello mi guarda con una
strana espressione negli occhi, un misto di stupore e pietà,
come se avesse capito che non riesco più a pensare.
Non
sono malato.
No,
è quell’aria, anche se non capisco cosa mi
sconvolga tanto
di un’opera come “Le nozze di Figaro”.
La
mia mano sta tremando alla luce della candela, la fisso e non vuole
saperne di stare ferma. Sto sporcando tutto il foglio con
l’inchiostro, forse sto davvero impazzendo.
Non
mi è mai capitato, in tutto il corso dei miei
trent’anni, di sentirmi così.
Da
quando la nave è salpata dal porto di Londra, sento uno
strano
senso di vuoto. Non capisco perché al secondo mese di
viaggio
stia già perdendo la lucidità, il raziocinio. La
mia
mente si sta impigrendo, ho bisogno di stimoli, ho bisogno di qualcosa
che occupi il mio tempo.
Qualcosa
di interessante che solletichi il mio interesse.
E’
insopportabile stare sulla nave, camminare per il ponte, fissare
l’acqua sempre uguale, i marinai che lavorano attorno a me,
con
l’aria scocciata di chi deve guadagnarsi da vivere
così,
mentre io sono qui, solo per accompagnare mio fratello nel suo viaggio
d’affari.
Vorrei
fare qualcosa anch’io, ma non c’è lavoro
per l’aristocratico della nave.
Il
viaggio, quello che credevo fosse comunque interessante e pieno di
esperienze, si sta rivelando di una noia assoluta. Non ho niente da
fare, se non suonare il mio violino e scrivere su questo stupido diario.
Sto
perdendo la mia preziosa mente in questa situazione di pigrizia, sto
perdendo il raziocinio.
Mycroft
direbbe che non l’ho mai avuto o che è rimasto a
Londra, assieme
a una parte di me.
30
ottobre
Sono
sempre più insofferente. Il tempo sembra non passare mai, i
giorni sono tutti uguali su questa gabbia galleggiante.
Uno
degli uomini dell’equipaggio, l’unico
apparentemente
sopportabile, mi sembra si chiami Victor, ascolta curioso le mie
deduzioni. Sono riuscito a capire ogni cosa di tutte le persone
presenti, con gran fastidio della maggior parte
dell’equipaggio.
Dice che sarei un ottimo poliziotto da un punto di vista
investigativo, ma pessimo come capacità di
prendere gli
ordini. Mi
fa ridere, mi ricorda un po’ John.
Per
il resto, non sopporto nessuno.
Come
sulla terraferma, anche in mare non riesco a trovare un motivo per
apprezzare la compagnia delle persone. Saluti falsi, discorsi
ripetitivi e frasi fatte.
Gli
uomini dell’equipaggio non vedono me e Mycroft di
buon
occhio, siamo i due snob che hanno ereditato la fortuna della famiglia.
Mio
fratello si limita ad ignorarli, li vede come tanti pesci rossi che
saltellano per la nave. Io li evito, sto meglio da solo, con il mio
violino.
Mi manca John.
Mi direbbe di non
restare solo.
2
novembre
Perché
l’ho scritto? Non mi manca John.
Non
so nemmeno perché stia scrivendo di lui.
4
novembre
Victor,
si chiama Victor, eppure l’ho chiamato John.
Davanti
a tutti.
Anderson
mi ha chiesto “chi è John?”, con un
sorriso maligno.
Gli ho spaccato il naso e ho ancora le nocche che mi fanno male. Ma non
importa. Non ascolto nemmeno le minacce inutili di mio fratello. Come
se potesse davvero punirmi in qualche modo.
Siamo
in mezzo all’Oceano. Lo sa che non può togliermi
il cibo,
già così si lamenta che mangio poco e sto
dimagrendo.
Non
può togliermi il violino o potrei davvero dare di matto,
senza altro da fare.
Non
lo so perché l’ho chiamato John, non si somigliano
nemmeno. Victor è alto, castano, ha i capelli ricci e gli
occhi
azzurri.
Semplicemente,
Victor non è John.
5
novembre
Vorrei
tornare a quel giorno, vorrei tornare indietro. Inutile continuare a
fare finta di niente. Non sto diventando matto, non sto impazzendo, non
sopporto di stare così male. Non è nella mia
natura, io
non do importanza ai sentimenti, io mi controllo, non sento dolore. Non
voglio sentirlo.
Non
voglio sentirlo più.
Ti
odio.
***** *****
Angolo autrice:
Prima di tutto, per chi
stesse
seguendo altre mie storie, non le ho abbandonate, ci mancherebbe, solo
quando mi si fissa un tarlo in testa, non c’è
verso, devo
scrivere.
Un sentito grazie a chi
leggerà e commenterà questa storia, nata da una
vignetta
che mi fatto pensare a Cloud atlas, che mi ha fatto pensare a tutte le
vite che Sherlock e John potrebbero vivere.
Alla prossima
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