pompei
L’Ultima
Notte del Mondo
Ercolano,
24 Agosto 79 d.C., hora tertia [1].
Alzo
la testa, un brivido ghiacciato che si fa strada nella carne, fino al
cuore: un rombo cupo, intenso, serpeggia tra le colonne e i mosaici.
E
poi, accade.
È un tremito
leggero, appena percepibile, quello che increspa l’acqua nel
ninfeo, riduce al silenzio le nostre voci e ferma le nostre mani; e
per quanto cessi immediatamente, quasi fosse l’ultima
immagine di
un incubo, nessuno di noi osa muoversi, come se bastasse un solo,
incauto movimento a far scuotere nuovamente la terra.
Per
lunghi istanti il terrore ci stringe con i suoi artigli; poi la
giovane Mirrina emette un gemito, e nascondendo il bel viso tra le
mani scoppia in pianto e fugge nel peristylium
[2]. Nessuno di noi la ferma o la apostrofa con parole di rimprovero,
ma in silenzio riprendiamo il nostro lavoro.
I
minuti passano senza che più nulla accada, e la domus
ritorna a riempirsi di rumori e di ordini, di fruscii e passi
affrettati; anche i singhiozzi di Mirrina finiscono per morire in
flebili mugolii, e tutti ritornano tranquilli.
Io scuoto il
capo nel tentativo di allontanare amari ricordi e sensazioni ancora
più nere – svaniranno
mai dalla mia mente?
–, e stacco la mano dalla colonna che sto pulendo e ripulendo
forse
da ore.
“È
la prima volta che vedo il marmo risplendere così.”
Mi
volto, e i miei occhi intimoriti incontrano quelli smeraldini,
vividi, del giovane padrone. Dal suo sguardo profondo comprendo che
mi stava osservando da tempo, con curiosità, come se sapesse,
e chino il capo.
Un
mormorio diffuso, seguito da un grido acuto, supplicante, sale
dall’atrium
e ferisce le nostre orecchie; odo poi un sospiro, e rialzo
la testa appena il tempo di vedere l’alta,
slanciata figura del dominus
allontanarsi, confondersi con le statue nella luce abbacinante che
immerge il giardino.
Mentre
lo osservo svanire, il cuore ha una stretta, un singhiozzo abbandona
le mie labbra, lasciandomi sgomento e confuso; solamente il richiamo
sussurrato di un altro servo mi libera dall’orrenda
sensazione che qualcosa stia per accadere.
Hora
quarta.
Gli
splendidi templi, le piazze e le terme sono deserte; solo il
gorgoglio dell’acqua che scaturisce dalle fontane riempie il
silenzio malato che imprigiona la città; e sono tanti
giorni, ormai,
che Ercolano trema.
Il
rombo della terra squassata ci sta divorando lentamente la mente,
conducendoci alla follia, e le notizie che giungono dalle
città
vicine non sono meno spaventose: in alcuni luoghi le fonti si sono
prosciugate improvvisamente, mentre in altri emanano un odore
ripugnante; sulle pendici del grande Vesuvio, nella notte, si vedono
misteriosi fuochi e voci provenienti dal grembo della terra, e molti
degli armenti che vi pascolavano sono morti [3].
Molti
sono fuggiti in preda al panico, abbandonando ogni cosa: nelle domus
gli affreschi danzano sulle pareti senza nessuno a contemplarli, le
placide ninfee si aprono solo per il cielo e le ricchezze giacciono
dimenticate.
Quanto
a noi, la malattia che da qualche giorno divora la nostra domina
ci impedisce di andarcene, e il padrone non abbandonerebbe mai la sua
sposa.
“Fermati,
Aspasio.”
La
gigantesca mole di Arianne mi blocca il cammino, le sue mani mi
strappano dalle mani la pesante anfora ricolma d’acqua; ne
osserva
il contenuto, quindi il suo sguardo si rattrista, le sue labbra
tremano.
Allora,
la prendo per mano e la conduco via dai giardini, nell’angolo
più
buio delle cucine, dove nessuno può notarci; e qui la devo
prendere
tra le braccia, accarezzarla a lungo, per quietare il suo respiro
affannoso e spingerla a parlare. “La padroncina si
è risvegliata,
ma... ma è come se fosse un’altra”,
sussurra a fatica, dopo un
silenzio teso. “Grida, geme, e ciò che dice non ha
alcun senso.
Per quanto continui a bere, la sua pelle è secca e bollente,
il suo
viso sempre più pallido; le labbra sono spezzate e
sanguinanti... e
gli occhi! Opachi, stanchi... così stanchi...” Una
lacrima solca
le sue gote purpuree. “Temo che entro la notte il male che
nutre
nel corpo se la porterà via. Quest’aria strana sta
peggiorando
ogni cosa, e...
e
il mio ragazzo... il mio ragazzo sta impazzendo dal dolore a vederla
soffrire così tanto; lo sento piangere, nella notte e nel
giorno lo
sento levare continue preghiere, una più angosciata
dell’altra.
Aspasio...
se la domina
dovesse morire, lui la seguirà.” La sua voce si
rompe, lascia
sfuggire un singhiozzo per troppo tempo trattenuto. “La
seguirà,
comprendi? Se ne andrà con lei!”, grida, per poi
affondare il viso
nel mio petto e liberare un pianto così disperato da
uccidere ogni
possibile parola di conforto.
Quello
che ora
rivela non è il
dolore di una semplice balia, ma di una madre; e quando si stacca da
me, il suo volto è quasi irriconoscibile da quanto
è stravolto,
eppure lei non tenta di nasconderlo. “Oggi
è il suo dies
natalis; chi
potrà
mai proteggerlo dal male? [4]” Si blocca, incapace di
proseguire;
indietreggia verso la porta, e
dopo pochi istanti della dolce Arianne rimane solo il fruscio della
sua veste che si allontana.
Le
mie mani si chiudono, le unghie penetrano nelle carne; solo quando il
battito del mio cuore è più calmo abbandono le
cucine.
Immediatamente,
percepisco sulla pelle la sensazione che un’ombra sia scesa
sugli
ambienti; sussurri e mugolii mi guidano verso il più lontano
dei
cubicula
che sorgono lungo l’atrium,
fino a raggiungere quello padronale: e qui la porta semichiusa
rivela, distesa sul largo talamo e a malapena nascosta dalle
premurose ancelle, la figura della domina,
che nel viso tirato e nel corpo scosso dagli spasmi reca ancora
l’ombra della sua bellezza.
Seduto
al suo fianco, incurante e sordo a tutto ciò che avviene
intorno a
lui, il giovane padrone le accarezza la fronte e le bacia le mani,
senza sosta. Il pallore del suo viso e le labbra contratte mi
riportano alla mente le parole di Arianne.
Improvvisamente,
la domina
spalanca gli occhi e si riscuote dal torpore, si aggrappa con forza
alle braccia dello sposo come se stesse per precipitare.
“Amami”,
dice, con la voce roca. Deglutisce, respira a fatica. “Amami
un’ultima volta, perché presto sarai solo. Ho
visto gli Inferi...
mi stanno chiamando.”
Il
dominus
chiude gli occhi, le sue palpebre tremano leggermente per domare il
dolore; quindi annuisce e volge uno sguardo alle ancelle, che
obbediscono al suo ordine silenzioso e abbandonano la stanza.
Con
loro mi ritiro anche io, ormai consapevole
dell’oscurità sempre
più densa, intorno e dentro me.
Hora
septima.
Il
profumo intenso delle rose di Gallia riempie il
tablinium [5]
senza soffocare l’aria,
mentre la rara bellezza dei loro cinque petali [6] rivaleggia con gli
affreschi che le circondano, per poi vincerla.
Seduto
al grande tavolo di pietra nera, il padrone accarezza lentamente lo
straordinario dono giunto da Roma, poi lancia uno sguardo al lato
opposto della stanza, dove un giovane dai capelli color grano e dallo
sguardo infervorato si aggira senza pace. “Ti
prego di smetterla; non mi farai cambiare parere consumandoti i
piedi”, mormora dopo un lungo silenzio.
“Sei
un folle!”, esplode l’altro,
sferrando un pugno contro una parete.
“Sono
solo un uomo che teme per la salute della sua sposa.”
“E
che cosa pensi di ottenere restando ad Ercolano? Cecilia non
guarirà
a Roma, ma nemmeno qui; nemmeno gli Dèi potrebbero
sanarla!”
“Così
i medici dicono.”
“E
tu sei così innamorato di lei da non crederci.”
Silenzio.
“Marco,
la situazione in queste zone è spaventosa.”
“Lo
vedo anche io quello che sta accadendo.”
“E
allora, se io fossi te... se io...”
Lo
sguardo del dominus
si carica di lampi. “Forza, prosegui. Se tu fossi me, che
cosa
faresti?”
L’altro
deglutisce, ma non abbassa gli occhi;
si avvicina al tavolo, afferra le mani dell’amico. “Partirei
verso Roma, senza indugiare un solo istante.
Ecco cosa farei.”
“Senza
Cecilia, immagino.”
Il
giovane china lo sguardo, imbarazzato, e il padrone volge il viso
lontano da lui. “Non saresti l’unico”,
sussurra, una bruciante amarezza nel tono.
“Marco...
non ti ha neppure dato un figlio.”
Silenzio.
“Non
pretendo che tu capisca o condivida i miei pensieri; ma non far
entrare nella mia domus
parole d’odio
o biasimo contro Cecilia. Non vorrei mai allontanarti da me con ira e
non desiderare più la tua compagnia.”
“Mi
sei caro, amico mio, e non ti darei mai alcun motivo per scacciarmi;
ma sono venuto qui per portarti a Roma. Stanne certo,
riuscirò nel
proposito, anche a costo di trascinarti.”
“Allora,
Gaio, dovrai rimanere qui ancora per molto... o forse solo per pochi
giorni.”
“E
se in questi pochi giorni accadesse qualcosa?”
“Gaio...”
“Convincimi
che tutto vada bene e che io non abbia alcuna ragione di
preoccuparmi. Provaci.”
Il
dominus
si volta verso di me, che fino ad ora sono stato in silenzio vicino
alla porta, in attesa di comprendere per quale motivo sia stato
chiamato con urgenza. “Avvicinati”,
mormora, e il suo tono gentile non sfugge all’amico,
che corruga la fronte e mi lancia uno sguardo penetrante.
“Gaio
è una delle persone più assennate e sagge che gli
Dèi abbiano
posto sulla mia strada, ma tiene così tanto a me che a volte
queste
doti vengono meno e lasciano il posto a timori ingiustificati. Ti ho
chiamato per allontanare uno di questi.” Una pausa.
“Io ero
troppo piccolo quando successe e non ero neppure qui, quindi non
posso rispondere; ma tu sì. Che
cosa accadde qualche giorno prima del terremoto di sedici anni fa?
[7]”
Le
mie mani tremano leggermente, la voce diviene un sibilo. Stabia.
La mia domus... mio padre. Le mie mani sporche di sangue, le orecchie
piene di grida... gli Inferi stessi.
“N-non accadde niente, padrone. La terra tremò
improvvisamente,
senza che ci fosse alcun segno premonitore della sciagura
imminente.”
“Pensaci
ancora qualche istante.”
Scuoto
la testa, cercando di ricordare. “Non rammento
alcunché, padrone.”
Le
mie lacrime,
quelle le ricordo bene: tante, tante lacrime. Un’intera
esistenza svanita tra le rovine e la polvere.
“Ci
fu solo il terremoto, quindi.”
“Sì,
padrone. Soltanto il terremoto.”
Gli
occhi scintillanti del dominus
si fanno attenti, mi scrutano a fondo; poi sospira, e la sua
attenzione si sposta sull’amico.
“Non
ti
devi preoccupare. Le scosse sono sempre più deboli, e presto
cesseranno del tutto, come successe allora.”
La
bocca dell’altro
si storce in una mossa di disprezzo mentre mi osserva, quindi si
rivolge al dominus.
“La
parola di uno schiavo vale dunque più della mia?”
“Una
persona che ha già vissuto tutto questo, sia essa di
condizione
servile o libera, ha il diritto di parlare e di essere
ascoltata.”
Un
sorriso di scherno solca il volto del giovane. “E allora
facciamolo
parlare di più.” Si volta verso di me.
“E in quanto alle morti
insolite del bestiame, ai fuochi che danzano sul Vesuvio e al
prosciugamento delle fonti che cosa sai dire, schiavo?”
Silenzio.
“Non ho mai visto niente di simile.”
“Come
sospettavo: sei inutile.”
“Frena
la lingua, Gaio; non ti
è permesso insultare i miei
servi.” Il silenzio che segue sembra condurre verso il
più furioso
dei litigi, ma, ancora una volta, è il dominus
ad allentare la tensione. “Ma tu non sei venuto qui solamente
per
portarmi via con te o discutere di morte e aria malsana, vero? Da
quanto tempo è che non festeggiamo insieme il mio dies
natalis? Ora
che sei
qui, non lasciamoci sfuggire l’occasione.”
Passa
qualche istante, quindi il volto contratto del giovane Gaio si
distende lentamente in un sorriso, quindi annuisce, scuote il capo.
“Sono uno stupido: passo metà dell’anno
lontano da te, e quando finalmente ti rivedo non faccio che iniziare
discussioni.”
Il
padrone risponde al sorriso. “Io non sono da biasimare di
meno, mio
caro fratello. Aspasio, raduna gli altri servi: preparate subito il
necessario per il rito, perché gli Dèi non sono
pazienti né
magnanimi con chi non rispetta i propri doveri.”
Obbedisco
e lascio il tablinium;
qualche istante dopo, l’atrium
si
riempie di voci concitate, mentre viene preparato l’altare e
il
fuoco, gli incensi e la focaccia bianca di farina e miele, con le
candele pronte per essere accese e spinte ad ingaggiare una strenua
lotta contro gli Spiriti maligni [4].
Avvolto
nella veste cerimoniale, il dominus
compare quando ogni cosa è ormai pronta, con Gaio e Arianne
al suo
fianco; tuttavia, i festeggiamenti non hanno inizio fino a quando
anche la domina,
con l’aiuto di due ancelle, raggiunge il marito. Un silenzio
rispettoso è il nostro dono per il padrone,
perché il momento sia
solo per lui e la sua sposa.
“Ritorni
questo giorno per anni e anni, mio signore”, mormora la
padroncina,
cercando di non mostrare la sua sofferenza; quindi un servo le porge
la coppa ricolma di vino, e la cerimonia può avere inizio.
Il
fumo del fuoco sacro e delle candele si eleva insieme all’incenso
e ai canti; e anche io, infine, riesco a mormorare una preghiera agli
Dèi lontani.
Hora
octava.
I
giardini sono rimasti deserti, così che è solo
dopo lunghi istanti,
quando vi facciamo ritorno, che ci accorgiamo che qualcosa è
mutato
intorno a noi: nessun rumore, nemmeno il fruscio delle foglie nel
vento, turba la strana quiete del perystilium,
e
un odore acre trasuda dal marmo; è lo stesso del
pericolo imminente, quello che precede le tempeste e l’arrivo
del terribile inverno.
La
prima a rivelare l’orrore
è la domina:
presa da una sorta di incontenibile frenesia, si libera dalla presa
delle due ancelle incaricate di accompagnarla e corre verso il
ninfeo; poi si ferma, e lanciata un’occhiata al sole si
blocca,
indietreggia per la paura.
“Marco!”,
urla spaventosamente, “Marco!”
Il
padrone interrompe il suo discorso con l’amico
e lesto raggiunge la sposa, facendosi largo tra i servi atterriti e
incapaci di muoversi.
La
domina
alza una mano in risposta alla sua tacita domanda, e quando lui alza
lo sguardo, i suoi occhi si caricano di sorpresa e confusione.
Lentamente
ci avviciniamo lasciando la protezione del porticato, e i nostri
occhi incontrano l’impossibile:
un’immensa
nube bianca, silenziosa e viva,
si
eleva come un titano sopra il grande Vesuvio e si libra
nell’aria;
il vento la ghermisce, la trascina con sé verso Pompei. [8]
Non
passano che minuti prima che il sole svanisca, inghiottito dalla
nube.
Le
mie percezioni abbandonano il corpo, perché è
così che reagisco
alla paura, allontanandomi da ogni cosa mi sia intorno e
rinchiudendomi nel mio animo; e in questo modo giungono attutiti i
gemiti, le preghiere, la lite furiosa che avvelena l’aria
mortifera.
“Ti
ho detto di lasciarmi! Lasciami andare!”
“No!
Non andrai da nessuna parte, ma rimarrai qui, dove sarai al
sicuro!”
Una sottile pioggia di cenere
accarezza i mosaici del ninfeo e scivola tra i fiori e l’acqua,
abbraccia le colonne e ricopre come un velo il volto delle statue,
danza nell’aria e penetra con forza nella gola e negli occhi,
facendoli ardere. Ma
le parole che riempiono l’atrium
sono ancora più acri.
“Marco,
Gaio, vi prego... non litigate...”, cerca di dire la domina.
“Lasciami
andare, per gli Dèi!”
“Attendi
ancora un poco, il tempo che tutto questo
finisca!”
“Non
ho intenzione di restare un istante di più. Non vuoi venire
con me?
A questo punto non mi importa più. Ma io me ne
andrò, me ne andrò
da questa città maledetta!” Un grido roco.
“Sì, gli Dèi vi
hanno maledetto, tutti quanti! Tutti!”
Già
da tempo, ragazzo.
La
domina
abbassa il capo, un’onda
color grano scende a nasconderle il volto. “Hai
detto bene, Gaio. Gli Dèi mi hanno maledetto. Me, me hanno
maledetto, non mio marito.” Una pausa. “Lui
può venire con te.”
Il
padrone, che fino a quell’istante
ha tenuto lo sguardo fisso sulle sue rose divenute dello stesso color
della pietra, lo sposta sulla moglie; boccheggia, e afferrandole le
braccia la scuote. “Che
cosa stai dicendo?”
Lei
lo fissa, la luce battagliera che illuminava i suoi occhi ora solo un
triste baluginio. “Perché, amor mio? Il mio morbo
distrugge i tuoi
sogni e anche la tua vita. Perché ti lasci uccidere
così?” Gli
prende le mani, se le porta al volto. “Vuoi che io ritrovi la
felicità? Segui Gaio. Lascia Ercolano e vai a Roma, senza
di me. Non
proverò
né invidia né ira se tra quelle antiche mura
troverai un’altra
sposa. Io sarò felice, se tu lo sarai; e sai bene che non
puoi
esserlo al mio fianco.”
Il
dominus
si stacca da lei, stringe i pugni fino a farsi sbiancare le nocche.
“Chiama le serve, Cecilia, e fatti ricondurre al letto. La
febbre
si è presa anche le tue parole”, mormora, lo
sguardo folle.
La
padroncina non abbassa il suo. “Gaio, baderai a lui come se
fosse
il tuo più caro fratello, vero? Avrà bisogno di
te.”
A
quelle parole, il padrone indietreggia e si aggrappa alle colonne, lo
sguardo che vola dall’amico
alla sposa. “Perché
mi fate questo? Entrambi... io... io non...” La sua voce
grida
parole che non riusciamo ad udire, urla nel silenzio la sua rabbia;
infine, lui abbassa lo sguardo al suolo per alcuni istanti, e quando
lo rialza una lacrima imperla la sua guancia. “Questa
è la dimora
dei miei avi, di mio padre, mia.
Gli alberi che custodisce sono cresciuti con me, gli occhi di queste
statue mi hanno conosciuto ancor prima che fossi in grado di
conoscere loro. Io non voglio andarmene... lasciare tutto questo alla
polvere... non posso, non voglio!”
La
domina
gli si avvicina, leggera come le rondini che tanto ama, e davanti ai
nostri occhi gli cinge la vita con le sue braccia da fanciulla.
“Io
ti comprendo, mia vita, quanto ti comprendo. Questa dimora ha visto
crescere anche me, non ricordi? Ero poco più di una bambina
quando
mi sciogliesti la cintura, e tu solo un giovane uomo.
Sono
cresciuta tra le tue braccia e all’ombra
di questi soffitti, il respiro della tua casa è parte del
mio quanto
lo è del tuo.”
Chiude gli occhi, le sue labbra tremano. “Ma dobbiamo
accettare di
lasciarla... e di lasciarci.”
Nessuno
ha mai udito il pianto del padrone; ma ora le lacrime gli bagnano le
mani come pioggia. “No, Cecilia. La abbandoneremo...
insieme.”
Quando rialza il capo, il suo sguardo è determinato, sicuro.
“Spero
che ci sia molto posto sulla tua nave, Gaio: perché saremo
in
tanti.” Senza attendere una risposta si volta verso di noi,
ci
guarda uno ad uno. “Cinque di voi rimangano con me, per
aiutarmi a
preparare ciò che non posso abbandonare. Tutti voi, portate
solo il
minimo necessario, ciò che avete di più prezioso,
e restate
pronti.”
Per
qualche secondo nessuno si muove; poi, Gaio annuisce, la domina
si abbandona all’abbraccio
del padrone e noi spariamo nella domus,
resi ancora più veloci dal terrore di ciò a cui
stiamo per
sfuggire.
Hora
decima.
Innumerevoli
lucerne risplendono nelle stanze, per permetterci di vedere e portare
a termine il prima possibile i nostri compiti: il cielo si sta
già
tramutando nella notte più nera che Ercolano abbia mai
dovuto
vedere.
“Quei
papiri, quei papiri! Presto, prendeteli!”
“Tutte
le coperte che potete trasportare, la domina
ne avrà bisogno!”
“Lasciate
stare le statue, il padrone ha detto di occuparsi solo delle cose
più
leggere.”
“Non
puoi portare tutto! Non c’è
spazio!”
È
in questo girotondo frenetico di passi in corsa, respiri mozzati
dall’ansia
e lacrime che escono senza controllo, ordini e richiami, che la mano
del dominus
trova la mia spalla, la stringe con forza per avere la mia
attenzione.
Alla
mia espressione timorosa risponde la sua intensa, così
profonda che
mi pare di scrutare nel ventre del mare. “Seguimi”,
dice, quindi
mi conduce verso quella che è la sua biblioteca personale.
Io
mi fermo a qualche distanza, tremiti gelidi che sconvolgono ben
più
che la mia carne. “Non posso... non posso”, dico d’impulso,
quasi urlando, gli occhi fissi sugli innumerevoli rotoli e papiri
ordinatamente disposti sugli scaffali, fragili tesori svelati dalla
porta socchiusa.
“Puoi,
invece.”
Il
padrone entra ma rimane sulla soglia, in attesa.
Una
luce soffusa proviene dall’ambiente...
da
un tempo lontano, che sembra sempre troppo vicino. Questo tempo porta
con sé l’immagine di un’altra
città, un’altra casa, un’altra biblioteca, dove un vecchio chino su un lungo tavolo cerca su
di un papiro la via che conduce alla felicità.
Il
vecchio alza gli occhi, ormai ciechi, e sorride. “Aspasio,
ragazzo mio! Epicuro non si lascia leggere dai miei occhi, ma sono
sicuro che la tua voce lo saprà guidare fino a me.”
“Aspasio.”
Riprendo
il controllo sui miei pensieri, e vedo il dominus
porgermi un papiro. “Svolgilo”, mi ordina, e quando
lo faccio –
quanto tempo è
passato?
–
i miei occhi accarezzano lettere piccole, eleganti.
“Omero”,
mormoro, alzando lo sguardo, e vedo il padrone sorridere. “E
da
quando un semplice
servo conosce il greco?” Non attende una risposta, ma mi
passa un
altro rotolo, e poi un altro ancora. Improvvisamente si ferma, ne
apre uno. “Mio padre mi donò la sua intera
biblioteca quando ero
ancora un bambino”, dice senza staccare gli occhi dal papiro,
quasi
parlasse a sé stesso, “e sempre quel giorno,
quando ritornò dal
foro, tu eri con lui: un uomo alto, dai tratti non raffinati ma dalle
mani splendide, senza un’imperfezione...
mani non segnate dal lavoro, abituate ad amoreggiare con le parole e
lo stilo. Mani che tremavano ancora, ma non per la paura di
ciò che
lo aspettava, ma per ciò che già era avvenuto.”
Una
pausa.
“Mio
padre ti aveva comprato perché tu divenissi il mio
precettore: era
tempo che gli antichi mi facessero udire la loro voce e io imparassi
ad ascoltarla, e solo a pochissimi, a chi non voleva ascoltare, era
sconosciuta la tua cultura. Il tuo padrone – padre
– ti aveva reso così ricco di mente e saggio da
renderti sgradito
ai più, ma ammirevole agli occhi di chi, come la mia
famiglia,
pensa che gli schiavi non siano bestie, ma uomini, uomini come tutti gli altri.”
Chiudo
gli occhi. Non
ho mai udito parlare con tanto amore dell’uomo
al quale devo la vita, e ogni felicità.
“Il
tuo destino sembrava essere già stato scritto: mi avresti
educato,
mi avresti condotto sulla strada della filosofia, della poesia... ma
tu hai rifiutato. Non sei nemmeno entrato nella biblioteca... non
l’hai
mai fatto. Eppure,
il modo in cui parli... in cui osservi il mondo, ti rende diverso.
Sei
esperto, sapiente... e sempre così triste.”
Smette
di parlare, e io rimango in silenzio. Ma non per molto.
“È
accaduto così velocemente, padrone, che neanche io riesco a
ricordare perfettamente come avvenne.
Il
pavimento, le pareti tremarono, si spezzarono; ed è stata
lei... la
biblioteca... a separarci. Il dominus...
mio padre...
non aveva ascoltato le mie grida che lo imploravano di uscire, forse
non mi aveva neppure sentito. Cercai di raggiungerlo: i miei piedi si
aprivano una via tra i mosaici rovinati e le statue distrutte,
le mie braccia tentavano
di afferrarlo, di trascinarlo con me... ma il soffitto lo raggiunse
prima.” Deglutisco. “Non sono più
riuscito a guardare un papiro.
Sento la mancanza delle parole dei poeti... ma ne provo orrore. Ogni
volta che vedo un rotolo, rivedo anche il sangue, e...” E
il silenzio.
Il
dominus
annuisce lentamente. “Lo
so; e ho
sempre
compreso la tua scelta di essere un comune servo, anche se non lo sei
mai stato.”
Sospiro.
È ora di essere forti, e sinceri. “Anche tu sei
sapiente, padrone,
e saggio, umano. Io
vorrei... vorrei che tu non fossi così.”
“Perché
dici questo?”
Forte.
Sincero.
“Perché
sei come mio padre. E come lui, sembri cieco alla morte.”
Il
padrone
volge lo sguardo lontano da me. “Ti sbagli. Io la vedo; ma
non la
accetto... io la combatto.” Si avvicina, mi prende dalle mani
i
rotoli e li ripone in un grande baule alle mie spalle. “La
combatto
in ogni modo, anche se non c’è
alcuna speranza di vittoria. Ho lottato contro di lei fin dal primo
momento che vidi questo mondo, e non ho mai smesso.”
Fruga
dentro il baule per qualche istante, quindi ne trae un oggetto tondo,
avvolto accuratamente in un panno bianco; lo svolge, e la sua bulla
[9] risplende alla luce delle lucerne. La osserva per qualche
istante, poi la ricopre nuovamente e la rimette al suo posto.
“Perché
dovrei arrendermi proprio oggi, nel giorno che mi ha consegnato alla
vita?”
Non
rispondo, e lui non prosegue.
Nel
quasi totale silenzio apro e richiudo rotoli e rotoli, aiuto il
dominus
a riporre i più importanti nel baule pressoché
vuoto.
Lui aggiunge poi qualche veste e
tutto ciò che gli è più caro: accanto
alla bulla
ripone il bracciale opalino della domina,
quello che indossava quando lui la sposò, e un suo mantello;
le rose
che Gaio gli ha portato da Roma, l’anello che ha ereditato
dal
padre, le statuette dei Lari, protettori della famiglia.
“Questi
sono per te, Aspasio”, dice, prima di chiudere il pesante
coperchio, consegnandomi tre papiri.
“Padrone...
non posso accettarli.”
Un
sorriso amaro si dipinge sul suo volto. “Prendili comunque.
Sono
stati loro a renderti tale.”
In
ogni aspetto di me. Accetto,
seppur con riluttanza, e a quel punto il padrone mi indica la porta.
“Ora vai, preparati. Partiremo tra poco”, mormora.
Obbedisco,
e dopo qualche tempo, uno dopo l’altro,
guidati da Gaio e dal padrone, abbandoniamo la domus
che ci ha protetto fino ad ora, sapendo che non vi ritorneremo
più. La
cenere ci avvolge, ci stritola e
riempie la gola
appena i nostri piedi calcano le pietre della strada: è viva
come la
nube che ruggisce sul nostro capo.
Mi
metto a correre; poi mi fermo, confuso. Non sento più nulla,
non
vedo niente.
Tendo
le mani davanti a me: stringo solo nebbia, o buio.
Che
cosa sta accadendo?
Fine
della prima vigilia.
[10]
Il
rombo delle onde contro
il porto e grida laceranti mi riscuotono
con violenza, mi spingono ad aprire gli occhi e comprendere che...
che sono disteso al
suolo. Che non ricordo nulla di quello che è accaduto... e
che sono
solo.
Solo.
“Gaio...
Cecilia! Arianne! Dove siete?”, cerco di gridare, ma le
parole, il
mio stesso respiro sono solo un refolo di cenere che abbandona la mia
bocca con lentezza, quasi con pigrizia.
Mi
alzo sui gomiti, incurante del dolore che devasta anche le ossa.
La
pioggia cenerina
è cessata, ora questa
è
divenuta
una coperta grigia che ricopre cumuli informi, immobili, che si
stagliano contro le tenebre sempre più fitte. No...
grandi Dèi, dove siete?
Mi
trascino verso il corpo – perché è un
corpo, non mi devo illudere
– a me più vicino, e lottando contro il mio stesso
terrore –
fate che non sia
Cecilia... non la mia Cecilia –,
lo afferro e lo giro verso di me, pulisco il suo volto per
riconoscerlo: è un giovane, poco più che un
bambino, che non ho mai
visto.
Lo
lascio andare, abbassandogli le palpebre sugli occhi spenti, e mi
trascino di cumulo in cumulo, togliendo la cenere, abbracciando corpi
di sconosciuti e scoprendo anche quelli, invece, di alcuni dei miei
servi.
La
mia bocca non emette un grido, la voce se ne è andata per
sempre; le
mie orecchie a malapena odono i gemiti dei sopravvissuti al
soffocamento, i miei
occhi spalancati non sentono neanche il dolore delle lacrime, mentre
fissano le mani di Nigro, il più piccolo fra di loro,
protese verso
il cielo, verso quelle fredde stelle che non avrebbero mai potuto
aiutarlo.
Le
bacio, accarezzandogli i capelli dorati, e quando lascio cadere la
mano il mio pianto si libera, sale come il volo di una colomba.
“Cecilia...
Cecilia, dove sei?”, riesco a mugolare, prima di rimettermi a
vagare, in ginocchio, incurante della preziosa veste che si lacera
sulle pietre, del mio sangue che stilla da ogni graffio, bagnando la
strada.
La
cerco, li
cerco: lei, Gaio, Arianne... Aspasio. Lui
sapeva, lui vedeva... e io, sordo, non ho voluto dargli ascolto. “È
tutta colpa mia. Colpa mia! Sono stato io a portare la
morte!” La
mia gola esplode in un urlo che rivaleggia con l’oscurità
da quanto è terribile, la disperazione che in questi giorni
ho
domato ora cammina al mio fianco.
E
grido, ancora e ancora, strappandomi i capelli fino a non sentire
più
niente, la testa che pulsa, le mani che tremano. Morire
nel giorno della propria nascita... non è lecito...,
continuo a ripetere nella mia mente; ma, in verità, sono
già morto.
Basta
cedere, Marco. Solo cedere... e troverai la pace. Che cosa ti resta?
Resisto
ancora per qualche istante, e continuo ad affrontare il marchio della
morte, impresso su ogni volto che le mie dita sfiorano: non mi fermo
nemmeno quando il mantello scarlatto di Gaio lambisce i miei piedi,
svelandomi il corpo del mio migliore amico. “Mi
dispiace, fratello”, mormoro. “Ci
rivedremo.”
No,
Marco; è ora il momento. Anche i più valorosi
guerrieri devono
arrendersi al suo canto. Hai combattuto bene, ma la battaglia
è cessata.
Chiudo
gli occhi. Le
mie gambe ritrovano la loro forza e mi permettono di alzarmi, gli
occhi vedono distintamente, ora: sopra il mio capo, una danza di
fulmini scarlatti e lingue di fuoco si alza dal grande Vesuvio e
fende il buio, un boato scuote la terra. Ma non me.
Lasciati
andare.
I
miei piedi mi guidano verso il canto del mare. È vicino, a
qualche
passo.
Lasciati
cullare.
Avanzo.
Abbandona
ogni cosa.
Cecilia,
Arianne... non le cerco; così, posso abbracciare la speranza
che, in
qualche modo, si
siano
salvate.
Vento
rovente e acqua gelida mi colpiscono il volto; mi lascio cadere.
Le
mie mani toccano la pietra: non mi importa del troppo sangue che mi
abbandona.
Un’immensa
onda di fumo e tempesta rotola lungo il fianco della montagna, verso
di me. Mi alzo in piedi, attendo: un pensiero folle – o
forse no
– mi fa compagnia. Morire
nel giorno della propria nascita non è lecito; ma morire
insieme al
mondo è diverso.
Questo
giorno è diverso dagli altri; forse non sarà mai
dimenticato.
Sarà
immortale, Marco.
Come
tutti
voi.
NOTE
[1]
Corrisponde all’ora che va dalle otto alle nove del mattino.
I
Romani iniziavano a contare le ore dalle sei, denominandole prima,
secunda,
etc.
[2] I ninfei sono
strutture inizialmente dedicate alle ninfe, con molteplici vasche e
piante acquatiche, spesso ornate con meravigliosi mosaici. Il
peristylium
è invece il porticato colonnato che circondava il giardino
interno,
dove sorgeva il ninfeo.
[3] Questi segni
promonitori dell’attività vulcanica sono riportati
nelle fonti
storiche.
[4] Il giorno del
proprio compleanno. Si credeva che in quel giorno gli spiriti maligni
potessero colpire con maggior forza: quindi, indossata una veste
bianca – che veniva messa solo in quell’occasione,
si officiava un rito volto a scongiurare il malaugurio, e veniva
fatta una torta tonda sulla quale si accendevano delle candele: il
fuoco teneva lontano gli spiriti maligni, il fumo che saliva dopo
averle spente li scacciava.
[5]
Lo studio
del dominus,
dove si trattavano gli affari.
[6] Si tratta di
una
varietà di rosa molto amata dai Romani. È
rappresentata in molti
affreschi rinvenuti a Pompei ed Ercolano.
[7] Nel 62/63 ci
fu
un grande terremoto che sconvolse tutta la zona vesuviana, causando
ingenti vittime e danni. Tra le città colpite, Pompei,
Ercolano,
Napoli, Nocera, Stabia.
[8]
Verso
l’una del pomeriggio (sul finire dell’hora
septima), il Vesuvio
iniziò ad eruttare: una nube di lapilli e cenere
fuoriuscì dal
vulcano e, trasportata dal vento, investì Pompei e Stabia,
causando
molte vittime. Ercolano, invece, in quelle ore fu risparmiata.
[9]
Quando nasceva un maschio, a questi veniva donata la bulla,
un amuleto. Il bimbo doveva tenerla fino a quando diveniva un
cittadino romano (a sedici anni), portandola al collo come un
medaglione.
[10]
Corrisponde alle ore che vanno dalle sei alle nove di sera. Ercolano
fu colpita dalla prima colata piroclastica tra le nove e le undici.
ANGOLO
AUTRICE
Salve
a tutti :)
Come
mostrato nel disclaimer, il prompt assegnatomi era descrivere un
compleanno disastroso, e le idee erano tante, anche se non tutte
congeniali o fattibili; la recente lettura del bellissimo libro:
“Pompei è viva” della Cantarella mi ha
dato lo slancio giusto
per creare questa storia.
Inizialmente
doveva parlare Marco in prima persona, e non Aspasio; poi ho
cambiato, lasciando che fosse Aspasio a parlare e lasciando solamente
la parte finale al triste e dolce dominus:
un personaggio che definirei tragico, nel suo opporsi ad una sorte
inevitabile.
Ho
scelto di ambientare la vicenda ad Ercolano perché quando si
parla
dell’eruzione del Vesuvio si pensa solo a Pompei,
dimenticandosi
delle altre cittadine che subirono la medesima crudele sorte:
Ercolano, appunto, ma anche Stabia.
Ercolano
ebbe realmente una sorte diversa da Pompei, perché
evitò la pioggia
di lapilli, subendo solo quella di cenere, ma fu investita dalla
prima colata piroclastica e sepolta (Pompei cessò di
esistere alle
sei del mattino successivo, quando una seconda e terza colata, una a
poca distanza dall’altra, si abbatterono su di lei); ed
è anche
vero che coloro che non erano scappati prima dell’inizio
dell’eruzione – circa trecento persone –
tentarono di
rifugiarsi sul porto per salpare; e qui trovarono la morte, come ci
viene testimoniato dai molti corpi rinvenuti durante gli scavi
archeologici.
Alcune
fonti ci testimoniano anche
il fatto che molte persone, pochi giorni prima della tragedia,
abbandonarono la cittadina per
le continue scosse sismiche (e il timore di qualcosa di peggiore).
Il titolo riprende una
frase di Plinio il Giovane, che in una lettera, descrivendo
l’eruzione, dice che coloro
che la subirono
credettero che gli Dèi li avessero abbandonati e fosse
giunta
“l’ultima notte del mondo.”
Ok,
credo di aver finito con le note XD
Spero
che la storia possa piacervi, e alla prossima :)
Manto
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