THE
EMPTY HEART
Part 1 : The
Fall
Come è
possibile andare avanti a vivere quando i fili che fungono da sostegno
sono
stati recisi? Quando la fonte della propria forza
s’è inaridita mentre quella
della disperazione si rifocilla di nuove lacrime?
John aveva
ritrovato il gusto della vita dopo l’esperienza devastante
della guerra in
Afghanistan. Si era riadattato ad un’esistenza
civile… o meglio, ne aveva avuta
una straordinaria
accanto a Sherlock e
avere la consapevolezza che tutto fosse finito, che il suo migliore
amico si fosse
schiantato al suolo lanciandosi dal tetto di quel maledetto ospedale era inaccettabile.
Vedeva
ancora nitide quelle immagini, udiva la sua voce commossa e rotta
dall’altro
capo del telefono che lo faceva sussultare nella notte. Non riusciva
più a
dormire serenamente perché durante il sonno
l’angoscia lo faceva arrovellare
tra le lenzuola e lo destava di soprassalto in preda ai sudori freddi.
Allora si
alzava in piedi prendendosi la testa fra le mani e si recava in salotto
o verso
la camera da letto dell’investigatore, aspettandosi il suo
sguardo acuto e
tagliente che lo rimproverava: “ John, ti pare che stiamo
giocando a
nascondino? Almeno potevi invitare Mycroft: batterlo in qualcosa
è più
divertente di qualsiasi gioco.” Invece c’era un
vuoto pesante, un eco
silenzioso e terribile.
Gli pareva
di impazzire: vedeva l’ombra alta del coinquilino, udiva un
suo commento
sprezzante, percepiva i suoi passi felpati. Era come vivere in una casa
infestata dalla quale non poteva uscire, in quanto i fantasmi erano
nella sua
mente e nel suo cuore.
Si sentiva
distrutto, defraudato, tradito e a coronare quei tremendi sentimenti
c’erano la
solitudine e la colpa, regine di quella sofferenza. Inoltre con il passare del tempo
aumentava sempre più la
morsa che gli stringeva la gola, stretto da quelle pareti tappezzate e
dalla
moquette polverosa. Capì che per guarire da quella specie di
claustrofobia
doveva andarsene: non poteva più tollerare
quell’ambiente pregno del suo odore
e della sua assenza.
Cercò in
fretta un’altra abitazione, possibilmente lontana da Baker
Street, dal Saint
Barts… credette che scappare fosse la soluzione. Si
recò dalla signora Hudson e
chiese lo scioglimento del contratto. Ella quasi se lo aspettava la
mattina che
se lo vide entrare in cucina con l’espressione seria che
mascherava il dolore.
Quello che non poteva immaginare era il lancinante male di vivere, o
forse di
sopravvivere, che torturava John e che lo avrebbe portato a
interrompere
perfino i rapporti. In fondo lei credeva di averlo compreso, invece era
impossibile. E quella incapacità di empatia profonda fece
infuriare interiormente
il dottor Watson: parevano tutti così costernati quando
nessuno aveva creduto a
Sherlock, nessuno lo aveva aiutato in quel momento mentre
lui… già, lui cosa
aveva fatto? Non abbastanza, dato com’era andata a finire.
Sì, era sicuro di
questo. La sua punizione era stata inflitta da Sherlock stesso,
facendolo
assistere alla sua... Non riusciva nemmeno a dirlo.
Cambiare
casa doveva essere un toccasana, invece scivolò sempre
più inesorabilmente in
un baratro di ricordi e rimpianti che lo inghiottivano come sabbie
mobili.
Restava bloccato a quel giorno uggioso, a quel momento, a quel corpo
esanime.
I primi
tempi aveva sbalzi d’umore che lo portavano dalla
disperazione alla speranza
che l’imprevedibile Sherlock Holmes fosse scampato
miracolosamente alla morte. Probabilmente
era un piano per ingannare quel folle di Moriarty…
però troppe cose non
quadravano, troppe le domande senza risposta.
Si consumava
in quei pensieri, non riusciva nemmeno a piangere tanto s’era
svuotato.
Aveva
iniziato a dimagrire, a non avere più le energie per alzarsi
la mattina. Si
scavavano sotto le aride pupille i segni di notti insonni, quasi un
germe che
lo divorava dall’interno e gli faceva venire la nausea
all’idea di mangiare.
Poteva sembrare che continuasse a colpire il suo corpo e ad umiliarlo
per
espiare la sua colpa.
In quelle
condizioni gli fu prolungato il periodo di ferie che s’era
preso dal lavoro
all’ambulatorio: aveva un aspetto pietoso. Gli offersero di
farsi visitare ma,
ovviamente, rifiutò. La sua claustrofobia si
tramutò nel timore di farsi
conoscere dagli altri e mostrare la sua debolezza, il suo panico e il
suo
dolore. Per ciò s’era barricato in casa, non
faceva entrare alcuno se non un
paio di conoscenze strette. Queste ed altre piccole ossessioni erano
indizi del
suo non accettare che la vita andasse avanti senza il suo compagno di
avventure.
Inoltre l’astio verso quelli che dovevano essere i suoi
amici, primo fra tutti Mycroft,
gli faceva bruciare la
pelle e rivoltare
lo stomaco: erano stati i primi ad abbandonare Sherlock, ad accusarlo.
Perché
mai avrebbe dovuto vederli?
Usciva
solamente per fare un poco di spesa, poi principiò a vagare
per le vie con lo
sguardo spento, l’aria trasandata che nemmeno Greg Lestrade
l’avrebbe
riconosciuto. Era talmente assorto nel suo mondo cupo che a volte non
si
accorgeva di che strade consumavano le suole delle sue scarpe.
In una di
quelle solitarie passeggiate tra la folla anonima di Londra, si
ritrovò davanti
al fatidico ospedale. Era stato tradito perfino dalle sue gambe. Che
schifo di
mondo.
Alzò il
capo e scrutò lentamente le mura ripide, le finestre a vetri
e gli tornarono flash
della caduta in sequenze incalzanti.
Una voce.
Una figura scura che
spalanca le
braccia sul tetto.
: “Addio John.”
Un corpo che precipita.
: “ Sherlock!!”
Un cadavere livido e
insanguinato.
Le vertigini,
l’odore del sangue, le
gambe molli e l’asfissia.
A John
iniziò davvero a mancare l’aria, la testa era
confusa e le gambe gli cedettero,
cadendo prima in ginocchio e poi a terra. Proprio nel punto in cui
Holmes era
precipitato ormai mesi prima. Si accorse che i sintomi che avvertiva
erano
legati ad un inevitabile svenimento… eppure non volle
attuare nessuna delle
pratiche che conosceva. Desiderò solo sparire, immergersi
nell’oscurità e in un
silenzio sordo per non vedere, per non sentire più. Si lasciò
cadere.
Una piccola
folla gli si fece intorno per capire cosa stesse succedendo. Tra di
loro spiccò
una persona vestita con una giacca rossa, la quale scansò i
passanti in modo
gentile ma deciso allo stesso tempo: “ Fate largo, per
favore. Sono
un’infermiera. – Si chinò su di lui, lo
chiamò, scuotendogli una spalla e poi
sfiorandogli una guancia – Signore?... Signore! Mi
sente?”
John riaprì
gli occhi per un attimo ma c’erano solo ombre sfuocate. La
donna ordinò agli
astanti di lasciargli spazio per respirare, in seguito lo
afferrò da sotto le
spalle e lo trascinò verso il muro dell’edificio
facendogli appoggiare la
schiena.
: “ Se
volete essere d’aiuto, portatemi dell’acqua e
qualcosa da mangiare.” Ed allungò
una mano con alcune sterline che aveva preso dalla tasca ed un uomo
lì vicino corse
ad un bar.
: “ Ma
cos’ha?” Domandò di ritorno con una
bottiglietta di acqua minerale.
: “ Non è
niente di grave, è solo una svenimento. Andate pure.
– Lentamente i curiosi
tornarono ad immergersi nei propri affari, dimentichi di
quell’incidente.
L’infermiera si volse nuovamente verso John e il suo tono
cambiò, diventando
rassicurante intanto che reggeva in una mano l’acqua
destinata ad idratarlo –
Stia tranquillo, va tutto bene. Respiri con calma e non si muova in
maniera
brusca.”
Finalmente
la vista di John gli permise di scrutare il volto di colei che lo aveva
soccorso. Era ovale, pulito, dai lineamenti graziosi e fini, poco
trucco per
far risaltare meglio gli occhi chiari e lucenti come
un’acquamarina e le labbra
rosee che si muovevano soavemente. I capelli biondi e corti
riprendevano la
chiarezza della carnagione e…
: “ Va
meglio?” Gli chiese, interrompendo la sua contemplazione.
: “ Sì,
grazie. Credo sia stata ipoglicemia.” Iniziò
meccanicamente a tastarsi il
polso, a toccarsi la fronte ed analizzare le sue funzioni vitali.
Rimasta
perplessa per un attimo per quella pronta diagnosi e quei gesti, la
donna proferì:
“ Si figuri! È il mio dovere. Sono un’
infermiera. Mi chiamo Mary Morstan.”
: “ Dottor
John Watson.”
: “ Lei … è
un dottore?!” Esclamò trattenendo il contraccolpo.
Appoggiò financo le mani sul
cemento per darsi equilibrio mentre era inginocchiata davanti a lui.
: “ Non si
direbbe, vero?” Sogghignò amaramente,
burlando sé stesso. In quelle condizioni
cos’altro poteva dire? Indifeso,
malmesso sotto ogni aspetto, seduto per terra. Una condizione patetica.
: “ No, no…
intendevo solo… -
Mortan intuì dal tono
di voce quali fossero i suoi pensieri e cercò le parole per
farsi intendere e toglierlo
dall’ imbarazzo – Conosce le strategie per
proteggersi durante uno svenimento.
Perché si è lasciato andare così?
Poteva farsi male!”
: “ Diciamo
che mi sono distratto. Grazie
per
l’aiuto. Devo andare. Arrivederci.”
Tagliò corto Watson, incupendosi. Voleva
andarsene via al più presto, far finta che non fosse
successo niente e chiudersi
in casa. Fece leva sulle gambe per rizzarsi ma barcollò.
Mary lo afferrò al
volo, sorreggendolo.
: “
Aspetti, ancora non riesce a stare in piedi. Lasci che
l’aiuti.”
: “ Ce la
faccio.”
: “ A me
non sembra proprio. – Aumentò la stretta attorno
alle braccia, dimostrandosi
irremovibile nel suo proposito – Permetta che
l’accompagni a casa.”
John la guardò
con aria sospetta e perplessa, storcendo anche un poco il naso davanti
a
quell’insolita disponibilità.
: “ Non si
preoccupi, non ho intenzione di derubarla. Se avessi voluto
l’avrei fatto
mentre era svenuto.”
: “ Davanti
a tutta quella gente?”
: “ Se fossi
stata abile non si sarebbe accorto nessuno, non crede?”
: “ Sarebbe
stato difficile anche per un esperto trovare il mio
portafoglio.” Ed estrasse
da una tasca interna un astuccino
legato
con una catenella ad un bottone.
I due si
guardarono fissi e scoppiarono in un’unisona risata,
divertiti da quello
scambio di ipotesi su un eventuale
furto, facendo dell’ironia forse un po’
sconveniente.
: “ Va
bene, grazie.” S’arrese infine John, accettando
l’offerta dell’infermiera.
: “ Aspetti
qui, cerco un taxi.”
: “ Dove
andiamo?” Chiese il tassista alzando gli occhi allo
specchietto retrovisore,
osservando i due clienti che lo avevano fermato: una donna
dall’aria intrigante
e un individuo malconcio, poco adatto a starle di fianco.
: “ 221B di
Baker Street. – Rispose prontamente John, senza riflettere - No no… ho
sbagliato.” Scosse il capo e
prontamente corresse l’indirizzo al suo attuale domicilio.
Un lapsus
che solo lui poteva comprendere. Aveva ancora molta nostalgia
dell’appartamento
a Baker Street, della vita che aveva condotto lì…
soprattutto gli mancava
Sherlock. Quel pazzo egocentrico e saccente.
Provò una ventata di tormento e dolcezza
ricordando quegli occhi magnetici
e inquietanti. Per scacciare via quell’immagine si
massaggiò la fronte fingendo
di guardare oltre il finestrino.
Mary
osservava discretamente con la sua pupilla celeste e pura
quell’uomo misterioso
che le stava affianco nel taxi. Era visibilmente devastato…
un professionista
probabilmente caduto in disgrazia. La mente fantasiosa di lei
immaginò quale
poteva essere la vita di John Watson, medico con un doloroso segreto.
Giunti
davanti alla porta grigia della casa dell’ex assistente di
Sherlock Holmes, tra
i due estranei ci fu un momento di silenzio ed imbarazzo. Fu John a
prendere la
parola per primo: “ Sono arrivato. Tenga! –
Pagò il tassista per rivolgersi
infine a Morstan – Grazie di tutto.”
: “ Di nulla.
Io userò ancora la vettura… Sa, ho un impegno.
Prenda: in caso di bisogno lo
usi. E si riposi, mi raccomando!”
John
sorrise con noncuranza e prese il foglietto ripiegato che gli porgeva.
Mary lo
salutò, chiuse la portiera dell’auto, dando nuove
indicazioni per chissà quale
meta, e sfrecciò via.
Watson
infilò le chiavi nella serratura ed entrò in
casa, trovando il suo rifugio da
quella bizzarra situazione con una sconosciuta. Si lasciò
accogliere dal divano
e strinse al petto un cuscino. Fissò il soffitto bianco e su
di esso vi dipinse
il viso della donna che l’aveva
soccorso provvidenzialmente, quasi fosse stata un angelo. Sul momento
non ci
aveva fatto caso, però quella fisionomia gentile e
rassicurante lo aveva
calmato dal suo stato di smarrimento come un’onda che azzera
le increspature
della spiaggia. Un’apparizione fugace che non avrebbe mai
più rivisto. Era
stato impreparato e il suo spirito intraprendente con le donne
s’era ritirato
per lasciare il posto alla malinconia. Forse non era stato un male,
tutto
sommato: era impossibile che una bellezza come lei fosse single. Era di
certo felicemente
fidanzata con una persona che l’aspettava per cenare assieme,
che andava al
cinema… chissà, magari appassionata di Cluedo.
Estrasse
dalla tasca dei pantaloni il biglietto che gli aveva lasciato:
sicuramente era
il nome di un farmaco che…
Aprendolo
scoprì che c’era scritta una serie di numeri: era
il suo recapito telefonico!
Gli aveva lasciato il suo numero. Che strano. Va bene che erano dello
stesso
ambiente lavorativo, che lei l’aveva aiutato ma…
dare il proprio cellulare ad
uno sconosciuto? Non doveva farsi tante domande ma nello stato in cui
si
trovava sarebbe stato attraente solo ai piccioni di Trafalgar Square.
Salvò il
numero sul suo dispositivo e lo stette ad ammirare. Riflettendoci,
più che
attrazione doveva aver suscitato pietà. Questo era quello
che avrebbe detto
Sherlock se fosse stato lì. Quell’idea fece
stizzire John che pose nervosamente
lo smartphone sul tappetto, volendo con l’immaginazione
allontanare anche
l’infermiera.
Si
addormentò sul divano, rannicchiato su di esso, in un sonno
profondo e senza
sogni.
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