Autore: _ A r i a
Titolo: Ex aequo
Fandom: Tokyo ghoul
Genere: angst,
introspettivo, malinconico
Personaggi:
Kirishima Ayato, Suzuya Jūzō
Rating: Verde
Note: Circus!AU /
Juggler!Jūzō
Succedeva
sempre così. All’improvviso, quando meno te lo
aspettavi.
La polvere si alzava
dalla vecchia strada battuta, annunciando l’arrivo imminente
degli ennesimi forestieri.
Le carrozze della
carovana avanzavano quiete, mentre sotto i teli che sormontavano la
struttura in legno dei carri coperti vi era il più totale
trambusto: tra gli oggetti di scena dei clown che roteavano da una
parte all’altra e i latrati del cagnolino della compagnia,
trovare un attimo di pace per poter riposare era davvero impossibile.
Ayato osservava
quietamente la scena dalla cima di una rupe, sul suo volto perennemente
indifferente quella volta era ben distinguibile
un’espressione pensierosa.
Viveva in un paesino
minuscolo e sperduto nel bel mezzo del nulla, nell’arida
desolazione del deserto dell’America centrale; lì
non giungeva mai nessuno, se non rari ‘turisti
accidentali’, viaggiatori che avevano smarrito la loro rotta
e si erano ritrovati a vagare, senza avere un luogo preciso in cui
recarsi.
Solo che la visione
che si presentava in quel momento davanti ai suoi occhi non era
popolata da pochi viandanti, bensì da un’intera
carovana.
Il ragazzo dai capelli
bluastri si ritrovò ad accennare un lieve sorrisetto furbo,
aveva già qualche idea che gli ronzava per la
mente… era vero, lì non succedeva mai niente.
E se per una volta
fosse arrivato finalmente il momento di cambiare?
Le
carrozze arrestarono improvvisamente, tanto che Jūzō si
ritrovò a rotolare tra clave di legno e costumi sgargianti e
–decisamente– ingombranti.
Tutto intorno si
levò un gran polverone e il ragazzino non poté
fare a meno di ritrovarsi a tossire, i polmoni pieni di
chissà che cosa.
I teli che coprivano
il carro gli impedivano la visuale, tuttavia riusciva a sentire
più o meno nitidamente un lieve vociare, un brusio continuo
che si levava nelle vicinanze, probabilmente erano accorsi sul posto
già diversi curiosi, richiamati dai diversi rumori che
dovevano essersi levati dalla strada.
Jūzō si
destreggiò più o meno abilmente tra i bagagli
della compagnia per potersi liberare dal punto in cui era rimasto
intrappolato. Il risultato non fu esattamente dei migliori,
considerando che arrivò sulla soglia del carro incespicando,
le gambe che erano ancora rimaste incastrate in una delle funi del
numero di equilibrismo.
Ciò che si
parò davanti ai suoi occhi cremisi fu piuttosto
sorprendente: un nugolo di persone, un’intera folla per loro,
tra cui diversi bambini, che continuavano a saltare entusiasti da una
parte all’altra, scivolando sotto le lunghe gonne delle madri
per poi riapparire subito dopo dalla parte opposta, come se non fosse
successo nulla.
L’albino si
esibì in un ampio sorriso a trentadue denti, era sempre
bello vedere tutto quel fermento intorno a loro. Perché in
fondo era questo che faceva il circo: portava, almeno per qualche
giorno, aria di festa e serenità nei cuori delle persone
della città che li ospitava.
Il direttore della
compagnia stava annunciando proprio in quel momento che si sarebbero
fermati lì per circa un mese. Non erano però le
parole dell’uomo a catalizzare così tanto
l’attenzione di Jūzō sulla scena, dopotutto erano sempre le
stesse, che sentiva ripetere ogni volta, di città in
città. No, era qualcos’altro che attendeva: la
reazione del loro uditorio, nel ricevere quelle parole. Ogni volta era
differente, in fondo il piacere di scoprire un diverso tipo di
esultanze era sempre più forte, aumentava con lo scorrere
del tempo e di conseguenza l’accrescere
dell’esperienza.
Quelli che era sempre
uno spettacolo veder gioire erano, ovviamente, i bambini: le loro grida
di acclamazione, i loro piccoli grandi salti spiccati verso
l’alto del cielo azzurro erano la più grande
soddisfazione che si potesse immaginare. I grandi mantenevano sempre
una maggiore compostezza, quel decoro che si addiceva
all’età adulta. Perché, poi, era
difficile a dirsi: Jūzō aveva sempre trovato piuttosto ridicole quella
sorta di regole non scritte, secondo le quali una volta che si cresceva
non ci si poteva più comportare in un certo modo.
Era per questo che
l’idea di crescere non lo faceva impazzire: trovava la vita
della gran parte degli adulti che conosceva così
incredibilmente vuota, buia, spenta. Lui non voleva diventare come
loro… perché non poteva rimanere per sempre un
po’ bambino? In fondo non gli sembrava un crimine poi
così grande.
Proprio per quel
motivo amava così tanto vivere con quella compagnia
circense: aveva scoperto, con suo immenso piacere, che gli artisti con
i quali ormai viveva stabilmente da diversi anni non erano poi
così diversi da lui. Tutte le persone che lavoravano al
circo erano infatti degli eterni bambini, persone che avevano preferito
inseguire i loro sogni piuttosto che abbandonarsi al piatto e monotono
quieto viver.
C’era anche
qualcos’altro ad accumunarli: la maggior parte delle persone
che lavorava come lui presso una compagnia circense non sempre aveva
una storia rose e fiori da raccontare, un passato felice di cui poter
andar fieri. Per esempio, chi si univa al circo era scappato di casa
quando era ancora molto piccolo, esattamente come era successo.
Jūzō non parlava mai
serenamente di quell’argomento e, qualora ne avesse la
possibilità, preferiva sempre evitarlo.
Adesso davanti ai suoi
occhi c’era una folla di persone esultanti e
bambini gioiosi e, davvero, quella era
l’unica cosa che contasse sul serio, in quel momento.
Il circo
aveva deciso di allestire il proprio tendone poco fuori
città, fondamentalmente perché il paese era
troppo piccolo per un’organizzazione del genere e, nemmeno
con tutta la buona volontà del mondo, gli addetti sarebbero
riusciti a far entrare tutto nella piazza principale – che
era comunque di dimensioni piuttosto esigue, sebbene fosse il centro
delle attività di socializzazione del luogo.
Un luogo aperto poco
distante, un campo disabitato nei pressi della cittadina, a detta del
direttore del circo, era il meglio che potessero desiderare.
Ayato continuava a
nutrire parecchie perplessità su quella visita:
perché mai un circo si sarebbe dovuto stabilire nei pressi
di un villaggio piccolo come il loro? Non era forse vero che, di
solito, le compagnie preferivano stabilirsi presso i grandi centri
cittadini, poiché era lì che potevi aspettarti
una maggiore affluenza di pubblico?
Loro erano solo un
piccolo paese… d’accordo, la voce era circolata in
fretta, tanto che nel giro di pochi minuti non c’era nemmeno
più nessuno da avvisare. All’arrivo dei carri
erano tutti là, nella piazza principale, l’intero
villaggio aveva assistito all’arrivo della carovana in
città. A conti fatti, gli introiti della compagnia non
sarebbero stati poi dei migliori; senza contare poi il fatto che
fermarsi in un luogo prevalentemente disabitato per quasi un mese
continuava a sembrargli uno sproposito di tempo.
Inoltre, considerate
le ristrettezze della zona, il fatto che non avessero potuto nemmeno
montare il tendone nei pressi del centro cittadino, bensì si
erano dovuti limitare ad occupare uno spazio disabitato poco distante,
avrebbe dovuto forse far desistere gli abitanti della zona dai loro
propositi di recarsi in quel luogo. Dopotutto si trattava in
maggioranza di piccoli contadini, gente onesta che dedicava quasi
interamente la propria giornata al lavoro nei campi.
Invece no, eccoli,
erano proprio lì: persone che vedeva tutti i giorni, perfino
i suoi burberi vicini di casa adesso si stavano affaccendando attorno a
quella gente venuta da lontano.
Possibile che un
evento del genere potesse smuovere così tanto la
curiosità di quelle persone, che conosceva da una vita e
sapeva essere così legate alle tradizioni e al loro quieto
vivere?
Bah, in fondo parlava
lui che era tra quelle stesse persone che erano accorse sul luogo.
Sebbene continuasse a dire che lui non lo stava facendo per
curiosità, no
no. Lui era lì semplicemente perché
si sarebbe divertito un mondo a ridere se qualcuno fosse caduto mentre
era tutto intento nel proprio lavoro, certo.
Un merito –
se uno ce ne dovesse essere – andava attribuito a quella
compagnia: in poco più di un paio di ore lavorative, erano
riusciti a montare su egregiamente quel tendone, un insieme vorticante
di bande verticali rosse e bianche che avrebbe fatto girare la testa a
chiunque. Ayato considerò che dovevano essere stati
così veloci per l’esperienza: chissà
quante volte erano abituati a compiere quel singolo gesto, in un
anno…
Mentre rifletteva sui
suoi conti, quasi non si accorse della voce possente del direttore, che
ordinava ai suoi uomini di fare forza e issare su il tendone, tirando
le funi che lo sorreggevano.
Dovevano essere
diverse decine di persone, là sotto, se non addirittura un
centinaio. Ayato ammirò la forza e la dedizione degli
addetti ai lavori, dai quali, suo malgrado, non poté che
rimanere affascinato.
In un paio di minuti,
tutte le funi furono tirate a dovere e legate a terra con dei
picchetti. Ogni cosa era al proprio posto, funzionante a dovere. Si
poteva perfino tirare un sospiro di sollievo.
Poi accadde.
Alcune lamentele
giunsero da sotto il tendone, borbottii profondi di quegli stessi
uomini che, fino a pochi momenti fa, erano stati indaffarati con funi e
martelli.
Subito li
seguì una risata acuta, infantile quasi: sembrava schernire
le voci brute degli altri artisti.
Fu allora che
comparve: era un ragazzino dalla corporatura infinitamente minuta, la
pelle pallida e alabastrina. Era privo di qualsiasi genere di muscoli,
per questo pareva pressoché impossibile equipararlo agli
uomini forzuti e abbronzati che Ayato aveva visto lavorare sotto il
tendone, fino a pochi istanti prima.
Sorrideva in modo
sciocco, librandosi a mezz’aria tutto stretto ad una fune,
che sembrava essere sfuggita al montaggio di poco prima.
Ayato non riusciva a
staccargli gli occhi di dosso: sebbene trovasse quel gesto piuttosto
sconsiderato – e altamente folle, certo – non
poteva tuttavia negare a se stesso che quel ragazzino avesse un non so
che, quel fascino che ammalia e porta tutti gli spettatori a puntare lo
sguardo su di sé, verso quell’unica ed eccentrica
creatura da esposizione.
Il direttore del
circo, al contrario, non sembrava affatto pensarla allo stesso modo di
Ayato. Al contrario, non appena aveva notato il ragazzino svolazzare a
mezz’aria come una bandiera, era andato su tutte le furie, il
viso che era diventato paonazzo per l’ira.
Il che, se si
considerava che si trattava di un ometto alto un metro e qualche guscio
d’uovo, risultava una scena piuttosto comica.
Ayato si
limitò a ridacchiare di sottecchi, adesso diventare il
bersaglio della rabbia di quel tipo era davvero l’ultima cosa
che desiderava.
Così
l’uomo si limitò a marciare furente verso il
ragazzo sulla fune. Si poteva quasi vedere del fumo uscirgli dalle
orecchie.
«Jūzō
Suzuya!» strepitò, riferendosi evidentemente al
ragazzo, che stava ancora ridendo platealmente «Vedi di
scendere immediatamente da lì, o giuro che ti getto in pasto
alle tigri! È chiaro, signorino?»
Il giovane non
riuscì a non ridere ancora di più mentre
replicava:«Signorsì, signor direttore!»
Jūzō attese che la
fune giungesse fino al punto più alto, dondolandosi su di
essa come se fosse su un’altalena; da lì gli
sembrava di poter toccare il cielo, di raggiungere
l’infinito… allora, e solo allora, si
lasciò cadere all’indietro, certo di non potersi
spingere più in alto.
Per un momento che gli
parve eterno, Ayato restò con il fiato sospeso ad osservare
quel ragazzino decisamente spericolato, mentre quest’ultimo
cadeva a testa in giù e addirittura in picchiata da
un’altezza alquanto considerevole – saranno stati
all’incirca due metri – e nel frattempo si esibiva
perfino in delle capriole a mezz’aria.
Pazzo.
Quel ragazzo doveva essere assolutamente, completamente e perdutamente
pazzo.
Atterrò,
come forse avrebbe dovuto prevedere, in piedi, a pochi passi da lui.
Jūzō gli rivolse un
ampio sorriso, sembrava essere piuttosto fiero dell’acrobazia
appena compiuta.
L’albino si
esibì in un grande inchino, mentre nel frattempo continuava
a ridacchiare sommessamente.
«Mi chiamo
Jūzō Suzuya!» esclamò poco dopo, rimettendosi
dritto e rivolgendosi ad Ayato.
“L’avevo
intuito” pensò mestamente tra sé
quest’ultimo.
Solo allora
sembrò accorgersi che Jūzō era rimasto lì, in
silenzio, come se fosse in attesa di qualcosa. Continuava a
sorridergli, con quel suo modo di fare così
infantile… forse stava aspettando che si presentasse anche
lui.
«Io sono
Ayato Kirishima» si affrettò ad aggiungere,
sperando che quella – era proprio il caso di dirlo
– pagliacciata
finisse al più presto possibile.
Lo sguardo di Jūzō
sembrò illuminarsi di una gioia incontenibile, quasi come se
avesse appena sentito il suono più bello del mondo. Ayato
invece sembrò essersi accorto solo in quel momento che gli
occhi del ragazzo davanti a sé erano di un rosso intenso,
sembravano fiamme che crepitavano in un caminetto.
«Ohh»
soggiunse Jūzō, come meravigliato di un sincero stupore «io
sono il giocoliere della compagnia!»
Quelle parole
sembravano averlo riempito di orgoglio, il che fece sorridere Ayato di
rinnovata sorpresa.
«Ah
sì?» domandò infatti, perplesso
«E dire che dal numero nel quale ti sei esibito poco fa
pensavo che fossi un funambolo…»
Quell’affermazione
sembrò divertire particolarmente Jūzō, che
scoppiò a ridere, cristallino. Per quanto il suono della sua
voce potesse sembrare infantile, il suo sorriso aveva qualcosa di
genuinamente incantevole.
«Già»
commentò qualcuno, avvicinandosi a loro da dietro e
afferrando Jūzō per le spalle «e tra poco finirà
per essere il nuovo pasto dei nostri leoni, se non vede di fare
maggiore attenzione!»
Jūzō
sospirò con fare teatrale, mentre si affrettava a
spiegare:«Oh, andiamo,
signor direttore, la fune è solo sfuggita dal mio
controllo. D’altronde, cosa vuole che faccia, se
dall’altra parte mette a tirare il domatore dei leoni? Quello
è tutto muscoloso, mentre io sono uno scricciolo…»
Il direttore
lasciò di colpo le spalle di Jūzō e, dacché per
la bassa statura del ragazzo era riuscito a tenerlo sollevato di
qualche centimetro dal suolo, adesso fu costretto a non cadere con il
sedere a terra.
«Va’
ad aiutare i clown a scaricare la loro roba dai carri, prima che ci
ripensi» commentò il direttore, lasciandolo
andare, senza però abbandonare quel suo tono un
po’ burbero.
«Corro
subito, signor direttore!» si affrettò a
concludere Jūzō, prendendo la strada per i carri saltellando, la risata
sulle sue labbra che ancora non accennava a morire.
Il direttore si
esibì in un paio di rumorosi colpi di tosse, per poter
richiamare l’attenzione di Ayato. Non si era nemmeno accorto
di essersi distratto, lo sguardo peso a osservare la strada lungo la
quale era scomparso il ragazzino.
«La prego di
perdonarlo» si affrettò ad affermare
l’ometto, una volta che Ayato si fu voltato nuovamente nella
sua direzione, certo di aver acquisito la sua attenzione
«Jūzō è un ragazzo un po’…
particolare, ecco. Mi spiace se mai si sia sentito disturbato da lui,
signore…»
«Nessun
disturbo» tagliò corto Ayato, seccato dai modi fin
troppo servizievoli dell’uomo.
«Ecco»
riprese invece quello, con estremo dispiacere del blu «per
sdebitarmi di questa figuraccia, mi farebbe davvero piacere invitarla
allo spettacolo inaugurale di questa sera…»
«Le ripeto
che non c’è nulla di cui si debba
sdebitare» precisò Ayato in un sospiro, voltandosi
di scatto e rivolgendo le spalle al direttore del circo, facendo per
andarsene «Ad ogni modo… non so ancora se stasera
ci sarò o meno. Sa com’è… il
circo non mi fa poi così impazzire».
Dopodiché,
Ayato si affrettò a proseguire per la sua strada, lasciando
l’uomo bloccato sul posto, a mormorare parole tra loro
sconnesse, troppo sbigottito per poter fare qualsiasi altra cosa.
In
realtà, quella sera Ayato allo spettacolo inaugurale ci
andò eccome.
Non che fosse un
grande amante di quel tipo di manifestazioni o cose del genere, di
certo quello non poteva negarlo a se stesso.
Un altro pensiero che
preferiva smentire categoricamente nella propria mente era che, se
adesso si trovava lì, era unicamente nella vana speranza di
incontrare nuovamente lo sguardo di fiammelle danzanti del ragazzino di
quel pomeriggio.
Forse,
però, non era così bravo a mentirsi.
Gli spalti per gli
spettatori erano sorprendentemente pieni; molte persone erano accorse
dai paesini circostanti, incuriositi da quella novità. Ayato
continuava a non riuscire a giustificarsi tutto
quell’interesse, ma dettagli.
Doveva ammetterlo,
tutti gli artisti erano piuttosto bravi: i trapezisti sembravano
letteralmente volare in aria, erano così eterei che quasi
era difficoltoso ritenerli reali, i clown erano quasi divertenti
– andava detto, Ayato non era affatto un appassionato del
divertimento e c’erano davvero poche cose al mondo in grado
di strappargli una risata; oltretutto, una parte di sé gli
ricordava ogni volta con sfacciata prepotenza che gli uomini non erano
soliti abbandonarsi facilmente alle risa, pertanto cercava sempre di
trattenersi, nemmeno con troppi sforzi, dal ridere – e aveva
osservato con malcelato
interesse le ballerine del varietà, nei loro
abiti succinti. Uno scandalo, per le donne del luogo, abituate ai
maglioncini cuciti a mano con i ferri da calza e le gonne lunghe fino a
terra.
Cielo, in che diavolo
di posto viveva? Sembrava di essere sempre in convento…
Ci aveva pensato
spesso, ad andarsene da lì. Gli sarebbe piaciuto partire e
viaggiare, vedere le grandi città e conoscere la gente che
vi abitava. Per questo era un po’ invidioso della vita di
quegli artisti del circo – sebbene, orgoglioso
com’era, non lo avrebbe mai ammesso –
poiché loro viaggiavano sempre, in continuazione e in questo
modo, passando da una grande città all’altra,
potevano visitare quasi tutto il mondo.
Ad ogni modo, tra
numeri di tigri e prestigiatori comparsi – era il caso di
dirlo – dal nulla,
quando ad entrare in scena fu Jūzō, l’attenzione di tutti i
presenti si concentrò su di lui.
Sembrava essere un
animale da palcoscenico, nato per avere su di sé gli occhi
della gente: una contraddizione vivente, con quel fisico troppo esile,
la pelle perfino pallida e le occhiaie violacee, che scavavano il volto
scarno; i capelli erano così chiari da sembrare quasi
bianchi… in lui c’era qualcosa di etereo, che
cozzava e strideva con l’ambiente circostante, in una sorta
di lotta continua.
L’abbigliamento
era quantomai stravagante: una camicia bianca fin troppo grande per
lui, dalle maniche arrotolate fino ai gomiti, lasciava scoperti gli
avambracci nivei, mentre i pantaloni scuri, alquanto larghi, erano
tenuti su da delle bretelle rosse a pois gialli e anche questi ultimi
erano avvolti verso l’alto, così da mostrare le
gambe magre e spoglie dal ginocchio in giù; i piedi erano
scalzi, al che Ayato si chiese tra sé se il ragazzino
provasse dolore per questo – rimproverandosi subito dopo,
considerando che non trovava ragione per preoccuparsi di qualcuno che
non conosceva affatto.
Come gli aveva
accennato quel pomeriggio, Jūzō era un giocoliere: il suo numero non
era particolarmente spettacolare, giacché per circa due o
tre minuti non cambiava mai tipo di esibizione, né saltava
in cerchi di fuoco o roba del genere; no, per attirare
l’attenzione di tutto il pubblico su di sé gli
bastava muoversi su un piccolo monociclo piuttosto sgangherato,
seguendo il percorso circolare del tendone, lanciando delle sferette
colorate a formare un cerchio per aria e riprendendole al volo. La vera
bravura stava nel complicare il numero man mano che il tempo scorreva:
aggiungeva palline pescandone delle altre dalle tasche dei pantaloni,
aumentava la velocità del monociclo o del movimento delle
sfere; arrivato al culmine dell’esibizione, si era messo
persino a pedalare con le mani, mentre continuava a far circolare le
palline gambe all’aria, muovendole con piccoli colpi dei
piedi.
Il fatto che tutto il
numero dovesse svolgersi in rigoroso equilibrio per tutto il tempo non
faceva che complicare ancora di più le cose, tuttavia
ovviamente non accennò nemmeno una volta ad un qualche segno
di cedimento.
La folla era in
visibilio, mai si sarebbero immaginati di vedere una cosa del genere.
Erano tutti in piedi sugli spalti, le labbra che si muovevano in
esclamazioni di gioia: alla fine si era dovuto alzare pure Ayato, aveva
capito che se voleva vedere qualcosa quello era l’unico
metodo.
Oltretutto,
c’era qualcosa di ancor più fantastico: per tutto
il tempo dell’esibizione Jūzō aveva continuato a sorridere
tranquillamente, come se non fosse affatto sotto sforzo, incantando
così tutto il pubblico nella sua arte di strada.
Alla fine del numero
era saltato abilmente giù dal monociclo, esibendosi in un
salto carpiato triplo piuttosto ben riuscito; atterrato –
prevedibilmente – in piedi, si era destreggiato in un ampio
inchino, prendendosi così tutti i meritati applausi
scroscianti del pubblico.
Ovviamente, anche
Ayato aveva applaudito: inutile dire che il ragazzino lo avesse
sorpreso in positivo, stregandolo del tutto. Quando Jūzō si era rimesso
dritto per bene, Ayato aveva cercato di guardarlo negli occhi, tuttavia
aveva trovato quelle iridi sanguigne così sorprendentemente
vitree, come se fossero puntate altrove.
Così come
era apparso, in un refolo di vento leggero, se ne era tornato dietro le
quinte, a bordo del suo monociclo ammaccato. Ayato lo aveva osservato
uscire fino a che non era scomparso, nel buio della notte, per poi
tornare a seguire lo spettacolo – e negando a se stesso di
non trovarlo più così interessante o che avrebbe
preferito se in scena ci fosse stato ancora l’albino.
Era stato bravo,
certamente, forse addirittura il migliore della serata,
poiché suscitare interesse e acclamazione con
così poco, come aveva fatto lui, non era affatto un gioco da
ragazzi; tuttavia lo spettacolo andava avanti, allo stesso modo delle
vite di tutte le persone lì presenti, compresa quella del
ragazzo dai capelli bluastri. Non poteva certo continuare a pensare in
eterno a una sciocchezza del genere, non aveva assolutamente alcun
senso.
Così
incrociò le braccia al petto e si concentrò
sull’esibizione successiva, cercando di convincere il proprio
inconscio che si stesse divertendo.
I numeri avevano preso
a susseguirsi molto più lentamente e Ayato quasi non vedeva
l’ora che tutto fosse finito. Magari poteva andarsene, solo
che non voleva che i suoi compaesani pensassero qualcosa di male su di
sé. Ci mancava solo quella e poi, davvero, non gli sarebbe
mancato più nulla.
Doveva ammettere
però che le esibizioni successive non erano state poi
così eclatanti: forse era lui che esagerava, tuttavia gli
era sembrato quasi che la vera stella di quella compagnia fosse proprio
Jūzō. Era giovane, frizzante e innovativo, nei suoi numeri
c’era qualcosa che agli altri mancava – magari un
tocco di follia, chissà.
Ogni tanto si
convinceva a concedere qualche sporadico applauso, più che
altro perché non voleva sembrare un essere apatico e
scontroso più del solito, anche se forse sarebbe stato
più corretto dire più
di quanto già non fosse.
Quando lo spettacolo
giunse al termine quasi non gli sembrò vero: il domatore dei
leoni aveva appena finito il suo numero e tutti erano in piedi ad
applaudire, anche se non sembravano avere lo stesso fervore che pareva
averli pervasi durante l’esibizione di Jūzō. Da dietro il
tendone del circo apparve il direttore del circo, che
annunciò che lo spettacolo era finito, premurandosi di
augurare una buona notte a tutti e di invitare i presenti a tornare la
sera successiva, magari portando anche degli amici.
Come serata inaugurale
sembrava essere andata particolarmente bene, il che, considerati i
tempi che correvano, non poteva essere che un bene. Ayato si chiese
quanto avessero guadagnato: facendo un calcolo approssimativo,
conoscendo il prezzo dei biglietti e immaginando più o meno
quale fosse stato il numero dei presenti, ci mancò poco che
lanciasse un’esclamazione di sorpresa ben poco garbata nel
capacitarsi del risultato. E non aveva incluso nel conto cibarie e
bevande varie.
Prima di uscire,
preferì aspettare almeno un po’ prima,
così che la folla potesse defluire a dovere e non rimanere
invece schiacciato nella calca; sarebbe stata una situazione
decisamente sciocca e considerando che gli abitanti del suo paese
continuavano a concentrarsi in massa verso l’uscita, non
poté che constatare per l’ennesima volta la loro
stoltezza. Sempre a seguire gli altri, sempre ad emulare. Il punto era:
perché omologarsi, quando avevi un’alternativa
più vantaggiosa a portata di mano?
Era più o
meno lo stesso ragionamento che faceva quando valutava tra
sé l’ipotesi di andarsene da quel villaggio.
Avrebbe potuto farlo, chiaramente, così come chiunque altro;
solo che di lì non se ne andava mai nessuno. E forse, in
fondo, era diventato come tutti gli altri e aveva paura di andarsene,
solo che quello che lui temeva non era tanto il cambiamento in
sé – cosa che, invece, i suoi conterranei
ritenevano aberrante a prescindere – quanto piuttosto
l’idea di ciò che quelle malelingue avrebbero
potuto dire e pensare su di lui.
L’idea di
essersi rammollito così tanto, al punto di lasciarsi
influenzare dal pensiero di persone che per lui valevano meno di zero,
lo disturbava discretamente: a forza di stare con quella gente aveva
finito per diventare come loro, ciò che per anni aveva
temuto maggiormente e per il quale aveva sempre lottato, pur di far
sì che non si avverasse.
Quando il tendone si
fu, a suo dire, sufficientemente svuotato, si affrettò a
raggiungere a sua volta l’uscita, con un sospiro stanco.
L’aria della
notte lo accolse quasi come un sollievo, non si era reso conto che nel
tendone fosse così caldo; fuori era già molto
buio, se non fosse stato per la luce che proveniva dall’arena
del circo che aveva appena lasciato non avrebbe visto un bel nulla
neppure ad un palmo dal suo naso.
Non avrebbe saputo
dire per quale ragione, poco dopo, si sentì quasi in dovere
di spostare lo sguardo di lato; forse una pura casualità,
oppure – sebbene si rifiutasse fermamente di credere in certe
cose – si trattò più semplicemente del
destino.
In quella notte senza
luna, le uniche luci del circo illuminavano a malapena un piccolo
spicchio dello spiazzo erboso lì a fianco.
Jūzō era
là, il monociclo abbandonato stancamente a terra e i piedi
scalzi immersi completamente tra i ciuffi umidi di rugiada.
Stranamente, sembrava
esausto, come se la tensione dell’esibizione e la stanchezza
che derivava dal suo numero lo avessero travolto tutte insieme solo
adesso, una volta che ogni cosa era terminata e non c’era
più nulla a preservarlo dagli acciacchi del mondo.
Era qualcosa che lo
rendeva sorprendentemente… umano, ecco. Le
perle di sudore sulla sua fronte, oppure la camicia tutta impolverata e
anche un po’ sporca di polvere contribuivano a renderlo un
po’ più vero, a far capire che lui era
lì, che anche lui provava sentimenti come la stanchezza o il
dolore.
Anche lui era vivo, in
fondo. Durante lo spettacolo di quella sera o quando lo aveva visto per
la prima volta, nel pomeriggio, mentre si era dondolato su quella fune
sembrava quasi divino, come se nulla potesse scalfirlo e fosse estraneo
alla realtà. Adesso, invece, gli appariva
nell’oscurità della notte nella sua mera essenza.
In un certo senso, era
quasi una visione deludente.
Nonostante la
stanchezza del momento, Jūzō si era sforzato di racimolare le ultime
forze che gli erano rimaste per accennare un sorriso in direzione di
Ayato. Aveva cercato di spiare le reazioni del ragazzo, durante la
propria esibizione e notare il suo sorriso era stato molto
incoraggiante.
A Jūzō non sarebbe
dispiaciuto poter scambiare qualche parola con quel misterioso
ragazzo… non aveva mai nessuno con cui chiacchierare, in
fondo: la gente vedeva bene di tenersi alla larga da lui, forse
reputandolo troppo strano.
Provò a
muovere la mano in un gesto di saluto in direzione del giovane dai
capelli bluastri, rimanendo tuttavia deluso. Ayato non
accennò minimamente ad avvicinarsi a lui, voltandosi di
scatto e procedendo per la sua strada senza incertezze, non voltandosi
mai.
Subito il sorriso
morì sulle labbra di Jūzō: per un momento troppo lungo aveva
osato sperare che il ragazzo sarebbe andato da lui e
l’avrebbe salutato, complimentandosi vivamente per lo
spettacolo.
Però non lo
aveva fatto.
L’albino
sospirò mestamente, spostando lo sguardo verso il cielo
buio. Avrebbe dovuto aspettarselo, chi mai avrebbe potuto trarre
piacere dal conversare con un reietto come lui? Oh, lungi da
sé l’idea di commiserarsi, solo che, come al
solito, si ritrovava lì a rimproverarsi un errore che aveva
di nuovo ingenuamente commesso.
La speranza era un lusso che non
poteva concedersi.
Al
sorgere di un nuovo giorno, il sole trovò Ayato ben avvolto
tra le lenzuola del suo letto, ma sveglio.
Il ragazzo non
riusciva a darsi pace. Perché la sera precedente se ne era
andato in quel modo? Superbia?
O forse, più semplicemente, codardia?
Codardia,
poi… continuava a chiedere cosa mai avesse potuto smuovere
in lui un sentimento del genere. Lui che era abituato a infischiarsene
degli altri, lui che non si era mai legato a nessuno… come
poteva, adesso, divenire un codardo al cospetto di qualcuno di cui
conosceva appena il nome?
Non aveva mai dovuto
rendere conto a nessuno per quel che faceva e credeva che nemmeno
adesso ci fosse motivo per cambiare la maniera in cui si approcciava
alle persone. In fondo, perché mai sarebbe dovuto cambiare?
Se lui era in un determinato modo, era giusto che le persone avessero
ben presente fin da subito con chi avrebbero avuto a che fare, tanto
per potersi rendere conto se fossero davvero interessati a quella
conoscenza o meno.
Almeno così
riceveva fin da subito la percezione di chi fosse davvero intenzionato
a legarsi a lui o meno. O
forse no? Chi desiderava trarlo in inganno avrebbe potuto
farlo facilmente lo stesso, fingere di tenere a lui ma indossando abili
maschere.
E di Jūzō, allora? Lo
conosceva appena… cosa diavolo doveva pensarne?
Non si era mai fidato
così di una persona, di primo acchito. Subito dopo averlo
conosciuto, quel pomeriggio… cosa aveva provato? Non lo
sapeva nemmeno lui.
Curiosità,
certamente. D’altronde, trovandosi di fronte a qualcuno di
così stravagante e differente rispetto a se stesso, sarebbe
stato impossibile aspettarsi qualcosa di diverso. Anche ammirazione,
però: era indubbiamente un ragazzo fuori dal comune,
dall’indiscutibile talento, oltre ad avere come
un’aura magnetica attorno a sé, che induceva gli
occhi di tutti a voltarsi verso il suo corpo minuto ogni volta che
attraversava una qualsivoglia strada.
Era sempre solare,
pronto a donare a chiunque il suo sorriso, che manteneva ancora quel
certo qualcosa di infantile, un velo leggero e fresco
d’ingenuità. Inoltre, in un certo senso Ayato
sapeva d’invidiarlo un po’: aveva una vita libera
da tutti quei dogmi, nei quali invece lui era ormai abituato a vivere,
sebbene con tutte le ristrettezze e le insoddisfazioni del caso.
Dannazione,
dannazione…!
Ayato non era solito
immergersi in quelle riflessioni pseudo-profonde, alla stessa stregua
di una ragazzina in piena crisi ormonale. E detestava abbassarsi a fare
una figura tanto ridicola, sul serio.
Scalciò via
la coperta con furia, così che finisse miseramente dalla
parte opposta del letto. Aveva bisogno di camminare, di schiarirsi un
po’ le idee… e di un buon bourbon, forse.
Scherzo
del destino? Coincidenza?
Neppure lui sapeva
come chiamare quella situazione a dir poco assurda.
Aveva camminato a
lungo, sotto il sole dei canyon, torrido già dalle prime ore
del mattino, fino a non sentire più i piedi.
Le gambe andavano da
sole, a briglia sciolta, senza che la mente riuscisse a concepire
razionalmente lungo quale percorso si stesse avviando.
A dir la
verità, non riusciva a concentrarsi proprio su un bel
niente, nemmeno su quei fantomatici pensieri che tanto avrebbe voluto
rendere meno gravosi, proprio grazie a quella passeggiata.
Invece no, niente da fare,
sentiva sussurrare dentro di sé, quasi con un certo cipiglio
soddisfatto e maligno, la propria coscienza.
Oh, che andasse al
diavolo, anche quella! Adesso sentiva perfino le voci nella testa,
perfetto.
Fatto sta che non
riuscì a rendersi conto di dove stesse andando fino a che
non ci si ritrovò davanti, anzi… dentro.
Mentre camminava fu
costretto ad arrestarsi improvvisamente, visto che davanti a
sé trovò un ostacolo piuttosto invalicabile a
sbarrargli la strada.
Si sentì
sbalzato all’indietro, come se all’improvviso si
fosse ritrovato a dover nuotare immerso in un mare di gelatina. Una
sensazione quantomai singolare, certamente.
Scosse un paio di
volte la testa, cercando di risvegliarsi da quella sorta di stato
ipnotico nel quale era caduto vittima, che lo portava ad avanzare senza
sosta, cosicché nemmeno lui avesse il tempo di rendersi
conto del luogo in cui si stava recando.
Si
massaggiò appena una tempia, cercando di rilassare la parte
colpita, ora tesa e dolorante.
O meglio, in
realtà quello che sentiva non era un dolore così
acuto… particolare che lo portò a riflettere sul
fatto che, magari, la superficie che aveva urtato non era poi tanto
dura.
Cercò di
rimettere a fuoco ciò che lo circondava, anche se questo gli
comportò qualche sforzo in più del dovuto.
Strizzò le palpebre con decisione, e quello che
trovò davanti a sé furono miriadi di bande
verticali bianche e rosse.
Il
tendone del circo?
Se di scherzo del
destino o coincidenza che fosse Ayato non lo aveva capito, fatto sta
che ritenne quel ‘caso’ piuttosto infausto.
Come era possibile,
lui cercava di stare lontano da lì e il fato ce lo portava?
Sempre che fosse giusto definirlo fato, certo… era ancora
indeciso se si potesse parlare di malasorte o istinto, eppure nessuna
delle due possibilità – chissà
perché – sembrava incoraggiarlo più di
tanto.
Sospirò, in
modo vagamente mesto. Ormai era lì e l’unica cosa
che potesse fare, che gli piacesse o meno, era darsi una mossa.
Come si suol dire,
“quando si è in ballo, bisogna ballare”.
Ayato girò
intorno al tendone, finché non individuò
un’intercapedine tra due lembi del telo. Ne scostò
piano uno, spiando appena da dietro di esso la scena che si presentava
adesso davanti ai suoi occhi.
Incredibile ma vero,
Jūzō era lì.
In quel momento, Ayato
si sarebbe voluto dare ben volentieri un pugno in faccia: non era
possibile che si trattasse di una semplice coincidenza, che avesse
fatto tutta quella strada senza nemmeno rendersi conto di dove andava e
che lui adesso fosse proprio in quel luogo, sotto il suo sguardo
meravigliato.
Si stava allenando in
un nuovo numero, che molto probabilmente aveva intenzione di sfoggiare
nello spettacolo di quella sera: si muoveva – come al solito
– in bilico, stavolta tuttavia si trovava su una palla
multicolore, a spicchi verdi, gialli, rossi e blu, dalle notevoli
dimensioni. I piedi si spostavano agili, come se sapessero
già esattamente quali fossero le mosse giuste da utilizzare.
Tra le mani teneva dei birilli di legno, che stava facendo roteare in
senso circolare a mezz’aria.
In sostanza, il numero
non era molto diverso da quello della sera precedente, se non che a
variare erano i mezzi di esecuzione – la palla e i birilli,
al posto del monociclo e le sferette.
Ayato si chiese se ci
fossero delle differenze, magari quel grosso e variopinto pallone di
plastica non consentiva la stessa stabilità di un
monociclo… anche se, in tutta sincerità, credeva
che non ci sarebbe stata poi molta differenza, poiché una
persona che non era abituata a quel genere di cose – tipo
lui, in effetti – sarebbe caduto da entrambi, mentre uno
bravo come Jūzō, che lo faceva per mestiere, probabilmente non avrebbe
avvertito grandi differenze tra i due casi.
Ultimamente rifletteva
molto più spesso, valutò tra
sé… e decise che, ovviamente, avrebbe fatto
ricadere tutte le colpe di quell’inspiegabile evento su quel
piccoletto dai capelli chiari, certo.
Era ancora beatamente
perso tra i suoi pensieri, quando, dall’esterno del tendone,
provenne un ruggito roboante, appartenente senza dubbio a un leone.
Preso alla sprovvista, Ayato si ritrovò a sobbalzare sul
posto. A Jūzō invece, sfortunatamente,
le cose andarono un po’ peggio: il rumore improvviso aveva
finito irrimediabilmente per distrarlo, così che nemmeno si
era accorto di aver messo un piede in fallo. Subito aveva perso
l’equilibrio e tutti i suoi tentativi di ristabilirlo
– compreso agitare spasmodicamente i piedi sulla superficie
liscissime della palla – si erano rivelati mestamente vani;
così, di lì a poco, il giocoliere era finito
prono, il corpo disteso tutto lungo in terra.
«Ahi…»
aveva commentato poco dopo, piuttosto dolorante e con la faccia ancora
premuta contro il suolo.
Ayato,
d’altro canto, si stava sforzando per non scoppiare a ridere:
dopo che Jūzō era caduto, i birilli gli erano finiti uno dietro
l’altro in testa, mentre la palla era rimbalzata verso
l’alto, per poi cominciare a rotolare lungo tutta
l’arena sabbiosa e circolare.
Alla fine,
però, non era più riuscito a trattenersi,
scoppiando in una risata sincera, dal tono forse un po’
profondo.
Si rese conto che era
da parecchio tempo che non rideva così, genuinamente.
Corrucciò le sopracciglia, cercando di calmare le risa. Era
una situazione così inaspettata, non sapeva come
approcciarsi con essa.
Nell’udire
qualcuno ridere, nel frattempo, Jūzō aveva cercato di rimettersi su per
bene, puntellando i palmi delle mani a terra. Cavolo, che figuraccia:
lui era un giocoliere, non era cadere così scioccamente
ciò in cui consistevano i suoi numeri. Non era un
pagliaccio, quando si esibiva la gente rimaneva a bocca aperta,
meravigliata, non rideva.
Era piuttosto
l’istituzione del circo in sé che faceva ridere la
gente. Ad ogni modo, quando si era accorto che l’altra
persona presente sotto il tendone era Ayato gli era sfuggito un sorriso.
Lo aveva fatto ridere!
Cielo, per poco non si era messo a saltellare per la contentezza.
Aveva quasi sofferto,
la sera precedente, quando lo aveva visto andarsene senza nemmeno
guardarlo, per poi ricordarsi che lui era noto a tutti per non provare
dolore. Però era tornato, il che lo rendeva immensamente
entusiasta. Vederlo tuttavia adesso così accigliato lo fece
sentire quasi in dovere di farlo sorridere di nuovo: dopotutto, la sua
risata era così melodiosa.
«Ahh,
Ayato» aveva esclamato, chiudendo gli occhi ed esibendosi nel
suo più ampio sorriso «buongiorno!»
Il ragazzo, ancora
sulla soglia, sorrise incoraggiante.«Buongiorno a te,
Jūzō» replicò, cominciando ad avvicinarsi a lui
«serve una mano?»
«Oh, no,
affatto!» si era affrettato a rispondere il diretto
interessato, balzando subito in piedi, con l’unica
conseguenza di ritrovarsi a incespicare maggiormente tra i suoi stessi
passi e per poco non ritrovarsi a cadere di nuovo.
Che roba era quella?
Vertigini? Forse non avrebbe dovuto rimettersi in piedi così
frettolosamente…
Fortuna volle che, in
un battito di ciglia, Ayato fosse al suo fianco, pronto a sorreggerlo.
Gli avvolse un braccio
intorno alla vita e a quel gesto Jūzō sobbalzò appena,
mentre avvertiva un accenno di rossore imporporargli le guance.
«Te
l’avevo detto che ti serviva una mano» lo riprese
Ayato, osservandolo con un certo cipiglio severo.
Per tutta risposta,
ricevette una linguaccia da parte dell’artista.
Ayato roteò
gli occhi, sentendosi vagamente esasperato. Alla fine però,
sospirando profondamente si decise a
precisare:«Ehi… a parte gli scherzi, stai
bene?»
«Tutto a
posto» mormorò Jūzō, in un sorriso forse un
po’ troppo stanco «ho solo bisogno di riposo,
credo.»
«Certo»
consentì l’altro, stringendo un po’ di
più la presa del braccio attorno ai fianchi del giovane
«Ti accompagno fuori di qui, allora.»
«O–okay…»
balbettò Jūzō, lasciandosi aiutare dall’altro,
mentre con incedere un po’ zoppicante si avviava verso
l’uscita del tendone.
«Sto
bene, te l’ho detto» ripeté Jūzō, per
quella che gli parve essere la milionesima volta.
Chino su una botte,
piena fino all’orlo di acqua fresca e cristallina, ne
raccolse tra le mani un po’ per l’ennesima volta,
per poi portarsela al viso e strofinare quest’ultimo con
vigore.
Sentì
lentamente risvegliarsi i propri sensi, non aveva realizzato che
potessero essere così intorpiditi. La sua unica
preoccupazione, tuttavia, era un’altra. Percepiva lo sguardo
penetrante di Ayato perfino in quella posizione, riusciva quasi a
sentirlo trapassargli la schiena e immergersi nel suo corpo.
Come diavolo erano
finiti in quella situazione? Ah, già: tutto
perché era così incapace da non saper stare in
piedi su una palla di gomma. Oh,
bene.
Il ragazzo al suo
fianco non sembrava possedere affatto la sua calma, anzi, non faceva
che agitare i piedi sul posto e sbuffare sonoramente – e,
sinceramente, Jūzō non lo invidiava affatto.
«Sembri un
cavallo imbizzarrito» commentò ridacchiando, con
evidente riferimento all’inquietudine dell’altro.
«Non stai
affatto bene!» sbottò Ayato, sollevando le braccia
verso il cielo in un impeto d’ira «Sei quasi
svenuto, poco fa, non vedo come potresti stare bene!»
Jūzō alzò
lo sguardo, le mani strette con decisione intorno al bordo della botte.
Sospirò profondamente, come se stesse scacciando via un
brutto pensiero. Una volta che sembrò aver sgomberato la
propria mente, si voltò verso l’altro,
poggiandogli le mani sulle spalle.
«Ayato»
lo richiamò, cercando di rimanere quanto più
serio la sua natura giocosa gli potesse concedere di essere
«ascoltami. Sto
bene, okay? Mi alleno tutti i giorni per gli spettacoli e
questa non è certo la prima né tantomeno
l’ultima volta che cado durante le prove. È
normale che sia così. Però va tutto bene, te
l’assicuro.»
Era buffo. Ayato era
certamente un ragazzo dall’animo facilmente surriscaldabile,
tuttavia preferiva sempre tenersi alla larga da situazioni in cui
perdere la calma era cosa da poco: generalmente prediligeva piuttosto
non tirare troppo la corda. Soprattutto, non era certamente sua
abitudine preoccuparsi così tanto per qualcuno che aveva
appena conosciuto, per non dire che non si interessava mai di
ciò che succedeva alle persone che lo circondavano. Non
gliene importava niente, semplicemente. Jūzō, al contrario, era sempre
giocoso, nessuno lo prendeva mai sul serio – cosa che non
succedeva neanche ai clown, volendo essere onesti – per
questo era tanto difficile immaginarlo serio, come invece era in quel
momento.
Probabilmente, nessuno
dei due si era mai ritrovato in una situazione del genere, tanto
paradossale da risultare nel complesso quasi poco credibile.
Non appena aveva
sentito le dita ossute del ragazzo stringersi sulle sue spalle, Ayato
aveva avvertito un brivido correre lungo tutta la sua schiena,
sentendosi immensamente sciocco per questo.
Che gli succedeva?
Perché sembrava essere divenuto all’improvviso
incapace di controllare le proprie emozioni?
Chiuse per un attimo
gli occhi, stringendo forte le palpebre. Doveva calmarsi… in
fondo aveva ragione Jūzō, non era successo niente.
Smettila
di fare la ragazzina e comportati da vero uomo, su.
«Okay»
ammise, riaprendo gli occhi e annuendo appena.
Per un attimo fu quasi
tentato di aggiungere uno ‘scusa’, magari
sussurrato a mezza voce, tuttavia all’ultimo si decise a
lasciar perdere, valutando che se aveva deciso davvero di comportarsi
da uomo allora le scuse non sarebbero state necessarie.
E poi di cosa avrebbe
dovuto scusarsi? Di essersi preoccupato per lui?
No,
stava sbagliando di nuovo.
Da quando in qua
convincersi che tutto stesse andando per il verso giusto era diventato
così complicato?
Andava bene
così, davvero. Doveva smetterla di preoccuparsi per certe
cose inutili.
«Bene!»
trillò Jūzō. Anche lui sembrava essere ritornato al suo
solito atteggiamento, solare e sempre sorridente, con quel pizzico di
infantilità, così opposto al carattere cupo e
schivo di Ayato.
«Però
promettimi che ti terrai per un po’ alla larga da quel
tendone. Fa veramente caldo, là sotto, rischieresti di
sentirti di nuovo male» aggiunse tuttavia Ayato, in un impeto
di protezione. Maledizione,
tanti bei discorsi per niente.
«E va
bene» acconsentì Jūzō, sentendosene
quasi in dovere «ma allora adesso che faccio?»
«Vieni con
me» gli propose prontamente Ayato «ci sarebbe
proprio un posto dove vorrei portarti.»
Ayato
si era incamminato lungo il campo sterrato, subito seguito da Jūzō, che
a quanto pareva non faticava affatto nel procedere con il suo stesso
passo. Mentre avanzavano, piccole nuvolette di polvere si alzavano da
sotto i loro piedi, assumendo un’apparenza piuttosto soffice.
Non appena avevano
cominciato a camminare, Jūzō si era quasi sentito intimorito:
poiché non aveva avvertito il direttore che si sarebbe
allontanato, temeva infatti che quest’ultimo potesse
infuriarsi con lui quando sarebbe tornato; ben presto tuttavia aveva
abbandonato quei timori, pensando che piuttosto che rimanere ad
allenarsi avrebbe preferito di gran lunga fare due passi insieme ad
Ayato.
Trovava che il giovane
fosse quanto di più vicino ad un amico avesse mai avuto in
vita sua: ritrovandosi a dover spostarsi di continuo, aveva sempre
cercato di non dover mai legarsi a nessuno, così che poi
né lui né un suo eventuale amico avrebbero dovuto
patire per la separazione al momento della partenza. In fondo, quella
era la vita di Jūzō: lavorando con una compagnia circense, sapeva che
dopo un determinato periodo di tempo si sarebbero spostati di nuovo,
per questo era anche inutile cercare di stabilire dei legami che tanto,
presto o tardi, non avrebbero fatto altro che spezzarsi, una volta che
lui fosse ripartito con la compagnia.
Di abbandonare il
circo pur di avere degli amici non se ne parlava: quella era la sua
vita, Jūzō non riusciva a figurarsi una vita che non comprendesse quel
lavoro, giacché era perfettamente conscio di essere bravo,
di riuscire – e anche bene
– in quel che faceva. Pertanto, perché mai avrebbe
dovuto rivoluzionare in un tal modo la sua vita, se le sue attuali
abitudini avevano più lati positivi che negativi?
In fin dei conti, se
era sempre così solo un po’ se l’era
anche cercata: non aveva mai palesato prima di allora la
volontà di affezionarsi a un singolo essere umano,
semplicemente perché mai ne aveva sentito la
necessità.
Con Ayato, invece, era
stato tutto diverso: anzitutto si trattava di qualcosa che era
capitato, nessuno dei due aveva cercato quel legame con intenzioni
specifiche, era successo così, punto e basta. Certo, erano
ancora ben lontani dal potersi definire amici, piuttosto sarebbe stato
più corretto parlar di loro come ‘due anime sole,
che nel tumulto del mondo avevano finito per incontrarsi, trovandosi per
tutto ciò che avevano in comune e ciò che invece
non condividevano’.
Perché
sì, ad una prima occhiata potevano sembrare quanto di
più diverso l’uno dall’altro, eppure
anche loro avevano dei punti d’incontro, a partire proprio
dal fatto che fossero entrambi soli al mondo, oppure per via della loro
passione per i viaggi perché, alla fine, per quanto due
persone possano essere differenti tra loro, non potranno andare mai e
poi mai d’accordo, se non hanno nemmeno qualcosa in comune.
Jūzō lanciò
un’occhiata fugace al ragazzo accanto a sé: si
guardava intorno con aria sicura, osservando i carri della compagnia e
lo steccato che avevano approntato per i cavalli.
«Un lavoro
notevole, se penso che è stato tutto sistemato in poche
ore» valutò il ragazzo del luogo, con una certa
punta di ammirazione nella voce «forza
dell’abitudine?»
«Anche»
Jūzō fece una ruota, poggiando stabilmente le mani sul suolo rovente,
per poi tirarsi di nuovo su prima di continuare «ma anche
gioco di squadra. Il circo stesso è tutto un gran lavoro di
gruppo: ‘se anche solo un membro della compagnia non presta
il proprio contributo, il meccanismo non funziona a dovere, come una
macchina non oliata’. O almeno, questo è quanto
dice il nostro direttore.»
«Ahh»
commentò Ayato, ironico «in effetti mi sembrava
strano che delle parole del genere potessero venire da te.»
Jūzō
sogghignò senza malizia, bensì solo di genuina
ingenuità, affrettandosi a provocarlo:«Cosa
c’è, non mi ritieni forse all’altezza di
certi pensieri profondi?»
«No,
affatto» rispose l’altro, sorridendo trionfante
notando di essere riuscito per una volta l’espressione
perennemente ilare dal volto del giocoliere «piuttosto non
trovo che siano parole che possano essere uscite dalla tua bocca.
D’accordo, potrò anche conoscerti da poco,
tuttavia non mi sembri affatto un esperto di ingranaggi, oliature di
meccanismi e quant’altro.»
Gli angoli delle
labbra dell’albino tornarono a incurvarsi
all’insù, mentre quest’ultimo si
lasciava sfuggire un sospiro di sollievo.
«Per
fortuna» commentò infatti «allora forse
non sono messo poi così male.»
Ayato sorrise, senza
però aggiungere altro.
Man mano che
parlavano, non avevano smesso di camminare, lasciandosi alle spalle la
compagnia e ritrovandosi invece ora sempre più tra le rocce
dei canyon, tanto che Jūzō procedeva ormai con la punta del naso sempre
rivolta verso l’alto. Ayato non riusciva a staccare gli occhi
dal volto dell’altro, che in quella posizione trovava ancor
più curioso del solito.
No, no, si
rimproverò il ragazzo dai capelli bluastri, costringendosi a
spostare lo sguardo altrove. Si era detto che avrebbe smesso di essere
debole, d’altronde, no?
Cercò di
concentrarsi piuttosto sulle meraviglie naturali che lo circondavano:
era da parecchio tempo che non si recava presso i canyon, eppure la
loro magnificenza era sempre immutabile nel tempo, picchi e strapiombi
rocciosi parevano a tratti persino capaci di soffocarlo, tanto erano
imponenti.
A volte si dimenticava
delle bellezze naturali del luogo in cui abitava; grazie al cielo, ora
ce le aveva proprio davanti agli occhi – che il merito fosse
di Jūzō era secondario.
O forse non era poi
così secondario. Non del tutto, perlomeno.
Di certo, non poteva
negare a se stesso che, fin dal suo arrivo, quel ragazzino gracile e
minuto avesse letteralmente rivoluzionato la sua vita, portando Ayato a
mettere in discussione aspetti della propria esistenza che mai e poi
mai avrebbe immaginato di dover rivalutare.
Il ragazzo dai capelli
bluastri sospirò, chiudendo per un momento gli occhi,
c’era così tanta pace lì, sarebbero
potuti rimanerci per sempre, soltanto lui e Jūzō. Diede un calcio nella
polvere, colpendo dei sassi. Rimase in attesa di sentirli rimbalzare al
suolo, senza però mai percepire il rumore desiderato.
Uno.
Due. Tre.
Ayato aprì
di scatto gli occhi, fermando Jūzō prima che potesse avvenire
l’inevitabile.
«Attento!»
lo mise in guardia, afferrandolo di scatto per un braccio.
Lo attirò
subitò verso di sì, terrorizzato al pensiero che,
se solo avesse indugiato anche solo per un altro attimo sarebbe potuto
essere stato troppo tardi per entrambi.
Jūzō si
ritrovò d’improvviso a piroettare verso Ayato che,
al contatto improvviso con il suo corpo, non seppe reggere
l’impatto e si ritrovò a cadere
all’indietro, atterrando al suolo.
Jūzō gli
precipitò addosso, finendo tra le sue braccia.
“Almeno
qualcuno è finito contro qualcosa di più morbido
della roccia dura, spigolosa e rovente” valutò tra
sé Ayato.
Lanciò uno
sguardo a Jūzō e dovette impegnarsi per sopprimere l’istinto
di strangolarlo: il ragazzo infatti aveva gli occhi chiusi, pertanto se
Ayato non avesse lanciato quei sassi si sarebbero ritrovati con ogni
probabilità a caracollare giù per quel dirupo.
«Perché
hai gli occhi chiusi?!» sbottò, irato.
Jūzō
sollevò subito le palpebre, replicando
prontamente:«Perché li avevi chiusi anche tu! Sei
stato tu a propormi di fare un giro, pensavo che sapessi dove mi stavi
portando».
Ayato alzò
gli occhi al cielo, sbuffando sonoramente, così da ricordare
di nuovo a Jūzō un cavallo piuttosto infuriato. Poco dopo tuttavia il
giocoliere si sentì afferrare per i fianchi, mentre
l’altro gli faceva ruotare il busto; ben presto Jūzō si
ritrovò davanti lo spettacolo di uno dei canyon
più profondi che avesse mai visto in vita sua –
no, in realtà quello era proprio il primo in assoluto che
vedeva.
Capì ben
presto tuttavia che non era la veduta spettacolare del paesaggio
ciò che Ayato desiderava mostrargli: sotto di loro, infatti,
si estendeva un dirupo alto diverse centinaia di metri.
In pratica, se Ayato
non se ne fosse accorto, sarebbero finiti entrambi con il cranio
frantumato diverse miglia più in basso.
«D’accordo,
ho capito, ci hai salvato la vita» ammise Jūzō
«però adesso non aspettarti da me riconoscenza
eterna o roba del genere, okay?»
«In
realtà non era a quello che miravo»
puntualizzò Ayato di rimando «anche
perché, se devo essere sincero, mi aspettavo già
che non mi avresti rivolto alcun segno di gratitudine.»
«E allora
quale sarebbe il punto?» sbottò
l’albino, lasciandosi sfuggire un sospiro profondo.
«Forse solo
metterti davanti alla realtà dei fatti»
replicò Ayato, stavolta lasciando spiazzato Jūzō.
Il ragazzo dagli occhi
rubizzi tornò a voltarsi verso le rocce davanti a loro, la
fronte e l’espressione tutta corrucciata.
D’accordo, non avrebbe dovuto chiudere gli occhi, dopotutto
era stato Ayato a invitarlo a fare quei quattro passi e di certo
quest’ultimo non gli aveva mai detto di abbassare le palpebre.
E va bene, forse
–ma solo forse– il suo era stato un gesto un
po’ incosciente, anche se non gli riusciva proprio facile
ammetterlo.
Solo che…
perché lo aveva fatto?
L’unica
risposta plausibile che al momento gli sovveniva alla mente era che lui
si fidasse di Ayato.
Che cosa? Lui si fidava di qualcuno?
E da quando in qua
succedeva una cosa del genere, visto che non si era mai comportato
così con nessuno prima di allora?
La verità
era che stava cercando di fidarsi di Ayato: cercare di avere un amico
implicava anche il fatto che dovessi riporre le proprie aspettative in
qualcun altro che non fosse se stessi, a quanto pareva.
«Forse sto
cercando di fidarmi di te così tanto da metterti in mano la
mia vita anche quando cammini ad occhi chiusi» ammise Jūzō,
lasciandosi un sorriso limpido come acqua di fonte.
A
quell’affermazione, Ayato si ritrovò a ridacchiare
sommessamente, mentre con una mano arruffava i capelli
dell’altro.
«Ecco, ci
voleva così tanto?» commentò ironico,
facendo scoppiare a ridere anche lo stesso Jūzō.
«La fai
troppo complicata!» l’ammonì
l’altro, strizzando gli occhi nel vano tentativo di riuscire
a smettere di ridere.
Ayato
poggiò la testa sulla spalla di Jūzō, sorridendo di
sottecchi. Si sentiva così in pace, in quel momento.
Sentì la
propria mente svuotarsi, i pensieri di colpo tacersi tutti
insieme… e fu come essere liberi, dopo un
tempo che gli era parso infinito.
Soffiava una brezza
leggera ma egualmente torrida, mentre un avvoltoio sorvolava la valle
di polvere, rovi e cactus.
«Vuoi
tornare indietro?» si costrinse a chiedere a Jūzō Ayato,
sebbene lui stesso riuscisse a percepire l’incertezza nella
propria voce.
«No. Non
ancora, perlomeno. Mi piace stare qui» ammise il giocoliere,
sorprendendo l’altro e non poco.
Rimasero seduti su
quello sperone di roccia fino a perdere la cognizione del tempo, che
scorreva intorno a loro senza nemmeno che i due ragazzi avessero la
possibilità di accorgersi di ciò. Quando il sole
guadagnò esattamente il centro del cielo e si
posizionò a sud, segnando la venuta del mezzodì,
ogni cosa intorno a loro era diventata così
insopportabilmente calda che i giovani furono costretti ad
andarsene, sebbene non per loro spontanea volontà.
Camminarono a ritroso
lungo la strada percorsa precedentemente all’andata. Di tanto
in tanto, Jūzō si voltava a lanciare qualche sguardo di sottecchi al
ragazzo di fianco a sé.
Gli venne
incredibilmente spontaneo allungare la propria mano verso quella di
Ayato, per poi stringerle lievemente tra loro. Accorgendosi di quel
gesto, il giovane dai capelli bluastri si voltò subito verso
l’altro, fissandolo con un’evidente espressione
interrogativa dipinta in volto.
Da Jūzō, tuttavia,
ricevette in risposta solo un sorriso di straordinaria ampiezza; era
così coinvolgente che, dal canto suo, Ayato non
poté che rivolgergliene uno a sua volta, lieve.
Sotto la luce di quel
sole cocente, Ayato si accorse di una cosa che non aveva mai notato
fino a quel momento: la pelle candida di Jūzō era percorsa da del
sottile filo rosso in più punti, molti dei quali erano
coperti dagli abiti del giovane. Era una delle più curiose
bizzarrie in cui si fosse imbattuto nella sua vita – inutile
dire che gran parte di quelle stranezze fossero da attribuire proprio a
Jūzō.
In un moto di
curiosità, così estranea a sé, che non
seppe mettere a tacere, non riuscì a non chiedere al
giovane:«Cos’è quello?»
«Uhm?»
Jūzō si era voltato subito verso di lui, convinto di avere una
tarantola velenosa o chissà cos’altro addosso,
tuttavia seguendo la direzione dello sguardo di Ayato, si era reso
conto ben presto che il giovane stava osservando le sue cuciture.
«Ohh, queste
dici?» aveva domandato infatti, accarezzandosi con
nonchalance un braccio, ricco di punti di sutura rossi «Sono
cuciture. Spesso, durante le prove per gli spettacoli, come tu stesso
hai potuto vedere poco fa, mi capita di infortunarmi. In caso di ferite
un po’ più gravi, non c’è
niente che un po’ di filo e un buon ago cauterizzato non
possano mettere a posto».
Ayato fissò
a dir poco sbigottito il ragazzo accanto a sé; quando fu di
nuovo sul punto di parlare, fu ancora una volta Jūzō a riprendere il
discorso.
«Stai per
dirmi che questa è una cosa che fa parecchio male,
vero?» lo aveva anticipato infatti, togliendo letteralmente
le parole di bocca ad Ayato «Beh, la verità
è che a me non fa affatto male, non percepisco il dolore.
Forse è solo questione di abitudine, non so; ad ogni modo,
ho imparato piuttosto in fretta che la compagnia con cui viaggio non
è dotata di chissà quali ricchezze
–come la maggior parte delle compagnie circensi,
d’altronde. Perciò, se vuoi rimanere a bordo e non
essere buttato giù da un carro in corsa, ti conviene stare
zitto e arrangiarti, senza lamentarti. Così, ognuno si
arrangia nel modo che può e questo è il mio,
ecco».
Ayato era rimasto in
silenzio, completamente zittito dalle parole dell’altro: per
quanto certamente i metodi di medicazione dell’altro
potessero apparirgli cruenti, non poteva controbattere in alcun modo.
Quello era il modo in cui Jūzō era cresciuto, tra povertà e
spirito di sopravvivenza, mentre lui aveva sempre avuto ogni genere di
agio, medicinali, pasti caldi, un letto in cui dormire e una casa dove
abitare. Jūzō nemmeno ce l’aveva, una casa; non che fosse
colpa sua, ovviamente: la sorte ci mette davanti alla nostra via e da
lì, poi, ognuno ha la propria strada da percorrere. Se a
Jūzō era capitato quel destino, di certo nessuno di loro due poteva
farci niente.
Forse doveva fare come
il giocoliere, arrendersi all’evidenza e accettare la
realtà dei fatti così com’era.
Peccato che Ayato non
fosse mai stato un tipo arrendevole.
Il
tempo, quale sorprendente e affascinante creatura. Ha un modo di
scorrere davvero singolare: quando ci si annoia, o si è
immersi sempre nella stessa, monotona routine, sembra sabbia che si
è sedimentata sulle pareti di una clessidra, senza
più scivolare dalla parte opposta; se invece ci si sta
divertendo, oppure in compagnia di persone apprezzabili, allora inizia
– malignamente – a correre, neanche ci fosse del
vento di bora a sospingerlo, con la sua tipica impetuosa insistenza.
Questo era
all’incirca, secondo il modestissimo parere di Ayato,
ciò che sembrava stesse accadendo nella propria vita.
Per anni era rimasto a
fissare con espressione statica gli orologi sparsi in giro un
po’ per tutto il suo villaggio – nel soggiorno
della propria casa, sul campanile della chiesa, dietro il bancone della
drogheria – nell’attesa che accadesse qualcosa di
esaltante, pronto a irrompere con violenza nel suo quieto vivere per
sconvolgerlo completamente.
In effetti, finalmente
qualcosa del genere era successo sul serio: con tutto lo scalpore che
aveva generato l’arrivo del circo nelle vicinanze, non poteva
di certo negare che le proprie abitudini, come d’altronde
quelle di tutta la cittadinanza, fossero radicalmente cambiate.
Capitava
frequentemente che la popolazione locale si recasse ad assistere agli
spettacoli serali. Ayato, ovviamente – o forse sarebbe
più corretto dire scioccamente
– non se ne perdeva nemmeno uno. Cercava di sedersi sempre in
una delle ultime file, per non dare troppo nell’occhio, su
quelle vecchie panche di legno cigolante e traballante.
Jūzō lo sorprendeva
sempre, esibendosi in numeri sempre più complessi. Quando
era davanti al pubblico, sembrava ancor più estroverso del
solito: le sue esibizioni non fallivano mai, diversamente che in prova,
inoltre quel sorriso luminoso riusciva sempre a stregare tutti
– e in modo particolare Ayato.
In effetti, Jūzō gli
aveva spiegato la sua contorta teoria, una volta, secondo la quale le
cadute delle prove erano, per così dire,
‘preparatorie’: sosteneva infatti che tutti gli
artisti – o meglio, tutte le persone dotate di raziocinio
– imparassero dai propri errori, pertanto cadere nelle prove
lo aiutava a comprendere quali fossero le mosse da non ripetere,
così da garantirsi la stabilità durante gli
spettacoli.
Ayato non era
propriamente d’accordo con quei metodi, tuttavia Jūzō aveva
ben pensato di ignorarlo bellamente; così continuava a
nascondere ferite ed ematomi sotto strati e strati dei suoi vestiti
troppo grandi, un po’ di cipria dove serviva, il solito
sorriso accattivante e voilà, il gioco era fatto. La magia
del circo era anche quella, aveva detto una volta a un Ayato piuttosto
infuriato: lo spettacolo andava avanti, nonostante tutto.
In tutto
ciò, il tempo continuava a scorrere sempre più
velocemente, prendendosi beffa di loro. Così, prima che
potessero accorgersene, erano già giunti alla
metà del mese che la compagnia si era riservata di rimanere
lì.
Ayato continuava a non
perdersi nemmeno uno spettacolo – per quanto buona parte
delle esibizioni, tranne quella di Jūzō e poche altre, rimanessero
sempre monotonamente invariate – così, con il
passare del tempo, lui e Jūzō avevano cominciato ad adottare come
abitudine quella di incontrarsi ogni sera, dopo lo spettacolo, per fare
quattro passi insieme e chiacchierare un po’.
«Ormai
questo circo si basa quasi esclusivamente sulle tue finanze»
commentò Jūzō, indicando il torso di una pannocchia che
Ayato aveva spolpato mentre assisteva allo spettacolo di quella sera.
Il diretto interessato
aveva sbuffato sonoramente, facendo ridacchiare il giocoliere, per poi
affrettarsi a replicare:«Hey, che ci posso fare io se il cibo
da bancarella è sempre così tremendamente
delizioso?!»
Quell’affermazione
non aveva fatto altro che far aumentare le risate di Jūzō, che aveva
colpito scherzosamente la spalla dell’altro, mentre
continuavano a camminare beatamente.
Ogni sera si recavano
presso degli olmi, poco distanti dalle tende – costituite da
pelli di vari animali – dove dormivano i membri della
compagnia. Là, avvolti nel buio e protetti dalle folte
fronde di quegli alberi, sembrava loro di essere assolutamente
invincibili.
Al sopraggiungere
delle tenebre calava sempre un venticello fresco, ristoratore delle
fatiche compiute nell’arsura del giorno; in quei momenti,
sembrava che ogni cosa fosse possibile.
Una volta giunti a
destinazione, Jūzō si era messo a saltellare, le braccia tese verso
l’alto, nel tentativo di afferrare uno dei rami
più bassi, che sapeva per esperienza essere abbastanza
resistente da sorreggere il suo esile peso; quando vi era riuscito, non
aveva esitato oltre a lasciar dondolare le proprie gambe
all’indietro, rimanendo sospeso a mezz’aria.
Ayato, dal canto suo,
s’era invece fatto d’improvviso più
taciturno. Forse, ragionò Jūzō, era stato rapito dai suoi
soliti mille pensieri, così ecco che ora vi stava
sprofondando sempre di più. Beh, non aveva tutti i torti:
l’aria mite e pacata, indulgente
quasi, della sera, era un ottimo stimolo alla riflessione, tanto che
quasi la induceva.
Di solito, arrivati a
quel punto, Jūzō ne approfittava sempre per chiedere
all’altro come fosse andata, a suo giudizio, la propria
esibizione, durante lo spettacolo della sera. Solo che, in
quell’occasione, il giocoliere non riusciva a convincersi a
parlare: magari Ayato stava vivendo un momento tutto suo, pertanto non
sapeva se parlandogli o, più in generale, interrompendolo
nei suoi ragionamenti, avrebbe potuto urtare la sua
sensibilità.
Che strano: Jūzō non
era mai stato solito occuparsi di quei pensieri. Non che fosse
così totalmente privo di sensibilità, solo che,
in effetti, i sentimenti altrui erano qualcosa di cui non si
era mai occupato, perlomeno non prima di allora.
Sorprendentemente,
tuttavia, Ayato lo stupì ancora una volta, prendendo parola
di sua spontanea iniziativa.
«Sei stato
stupefacente, stasera. Magistrale, sul serio» aveva
commentato, con una convinzione invidiabile.
Certo, Ayato non era
affatto uno di quei ragazzi che se ne stanno in un angolo, tutti sulle
loro. Al contrario: Jūzō aveva imparato in brevissimo tempo quanto
fosse irritabile, scontroso, irascibile, riottoso e perennemente
nervoso. Aveva più giornate no che sì, inutile
negarlo; insomma, con un caratterino del genere era impossibile non
notarlo.
Più che
altro, ciò di cui Jūzō non riusciva proprio a capacitarsi
era il fatto che Ayato non fosse un tipo dai facili sentimentalismi
– anzi, li odiava, letteralmente.
Ecco
perché, adesso, non riuscisse proprio a comprendere
quell’uscita del ragazzo.
«Ohh»
aveva infatti gongolato Jūzō, di lì a poco «non
immaginavo che fossi un tipo che si lascia andare facilmente ai
complimenti!»
Con una breve rincorsa
e spiccando un buon salto, Jūzō era riuscito ad atterrare seduto sul
ramo, con una lieve torsione del busto.
“Gliel’avevo
detto che secondo me doveva fare il funambolo”
valutò tra sé Ayato.
Nel frattempo, Jūzō
aveva reclinato il torace all’indietro, mettendosi a
dondolare a mezz’aria, con la testa
all’ingiù. Mossa decisamente pericolosa e
sconsiderata, certo, peccato che a lui sembrava riuscire alla
perfezione.
«In effetti
no, non sono affatto un tipo dal facile plauso» aveva ammesso
poco dopo Ayato «diciamo però che, quando qualcuno
si merita sul serio degli elogi, non esito due volte a
farglieli».
Era vero, quella sera
si sentiva particolarmente ben più strano del solito, ecco
perché era rimasto in silenzio a quel modo; oltretutto, gli
occhi rossi come sangue liquido di Jūzō non facevano che mandarlo
– per un motivo che non riusciva a spiegarsi nemmeno lui
– ancor più in confusione.
Chissà,
magari era tutta colpa della brezza leggera notturna, oppure di
qualcosa di strano che aveva bevuto – anche se riteneva
quest’ultima possibilità fortemente improbabile,
visto che l’ultima cosa che ricordasse di aver bevuto era
un’aranciata fortemente
analcolica.
Tuttavia, nonostante
tutto, ad Ayato sembrava che quella sera avesse qualcosa di diverso da
tutte le altre, dal modo in cui il vento gli faceva ondeggiare i
vestiti sulla pelle, fino ad arrivare all’odore dolciastro
che velava l’aria, dal momento che quella sera sembrava
essere ben più intenso del solito.
Non riusciva a
distogliere lo sguardo da Jūzō, da quel suo corpo riverso in una
posizione tanto innaturale e da quei suoi occhi rossi. Si era
concentrato sul viso, chiedendosi se al tatto fosse morbido come
velluto – giacché così gli appariva
– e osservando intensamente le sue labbra sottili, quasi
trasparenti, di un rosa pesca velato. Non riusciva a fare a meno di
domandarsi se avessero lo stesso sapore dello zucchero filato, che
offrivano alle bancarelle all’ingresso del circo, oppure dei
lecca-lecca che tanto Jūzō sembrava amare.
Aveva avvicinato una
mano verso il volto del giocoliere, accarezzando lievemente una
guancia, che aveva scoperto essere effettivamente di una stupefacente
morbidezza; subito, a quel lieve contatto, la parte sfiorata era
arrossita di sorpresa, forse imbarazzo.
Data
l’altezza – piuttosto considerabile – del
ramo su cui Jūzō era seduto e quei pochi centimetri in più
che Ayato aveva sull’altro giovane, in quel momento si
trovavano con le facce a poca distanza l’una
dall’altra, le labbra che per la prima volta si trovavano
sullo stesso piano.
Si dice che, prima di
un momento cruciale nella vita, per un attimo davanti ai nostri occhi
cali un velo d’oscurità, oltre il quale non
abbiamo nessuna possibilità di vedere; in effetti, in
quell’istante non vide altro che buio, tanto che
all’inizio temette di essere sul punto di svenire.
Poi, come al solito
quando doveva prendere una decisione importante, lasciò che
fosse il proprio famigerato istinto a guidarlo: chiuse gli occhi per
una frazione di secondo e cercò di svuotare la mente da ogni
pensiero; d’impulso sentì il suo corpo muoversi in
avanti, così, una volta che ebbe sollevato nuovamente le
palpebre, si rese conto del perché.
In realtà
ebbe bisogno di qualche secondo per mettere a fuoco ogni cosa. Quello
di cui era stato certo fin da subito, quando ancora i suoi occhi erano
beatamente chiusi, era il fatto che le sue labbra fossero ora premute
contro qualcosa di morbido, soave, nel suo essere tanto semplice di una
sensazionale dolcezza.
Zucchero filato, in
effetti. Dello stesso dolce sapore, odore e colore – rosa
lieve – delle labbra di Jūzō, contro le quali ora si trovava.
Se fosse stato il
ragazzo a baciarlo, probabilmente, si sarebbe distaccato senza troppe
cerimonie, per nulla invaso dalle preoccupazioni di aver ferito i
sentimenti dell’altro, giusto per preservare quel minimo di
orgoglio che gli rimaneva e non vedersi costretto, al contrario, a
dover ammettere che, in fondo, era piaciuto anche a lui.
Però la
situazione era diversa. Era stato Ayato a baciarlo, non certo
Jūzō. Istinto o meno, la situazione era quella, non c’era
modo di rivoltarla.
Sulle labbra di Jūzō
salì un mugolio leggero, che più che di disgusto
sembrava essere di piacere.
«Shh» lo
zittì Ayato, leccandogli le labbra e stringendogli
intensamente i capelli con una mano «non dirmi che non ti
piace».
Jūzō aveva socchiuso
gli occhi, lasciando ad Ayato facile interpretazione di
quell’espressione rapita dalla voluttà,
così il giovane aveva ripreso a baciarlo, senza indugiare
oltre, le labbra del giocoliere che cercavano di imitare e assecondare
i movimenti impazienti dell’altro.
Era come assistere
alla nascita di una stella, pensò tra sé Jūzō, i
sensi totalmente rapiti da quelle scariche di passione: una luce chiara
che di colpo diviene sempre più forte, fino al punto in cui
esplode, in una miriade di piccole scintille.
Dopo
quella volta, la loro ‘tradizione’ variò
non poco: tutte le sere, infatti, continuavano ad incontrarsi sotto
quell’olmo dopo ogni spettacolo, solo che non era parlare la
loro attività principale.
Ogni scusa, ogni
momento di vuoto, ogni attimo in cui per qualsiasi ragione rimanevano
da soli, era buona per cercarsi e trovarsi, labbra che sera dopo sera
diventavano più audaci, sapevano esattamente dove andare a
soffermarsi per scaturire eccitazione o dolore, a loro piacimento.
Non era sadismo,
quello, quanto piuttosto una naturale attrazione fisica, che li portava
– in un certo qual modo – a
‘studiarsi’ vicendevolmente.
E se le mani di Ayato
scivolavano di tanto in tanto sotto la sua camicia candida, sul suo
torace esile, Jūzō lo lasciava fare lo stesso, le gote che
s’imporporavano per quell’improvviso contatto
più approfondito.
Ad ogni modo, non
erano mai andati oltre quello. E forse sì, Jūzō
aveva paura che Ayato lo trovasse ripugnante o qualcosa del genere
– oppure, molto più semplicemente, aveva paura che
lo avrebbe lasciato dopo essere andato a letto con lui e quella era
l’ultima cosa al mondo che Jūzō desiderava, sul serio.
Perché sì, per
quanto assurdo potesse sembrare, lui che non aveva mai provato nessun
genere di sentimento per un qualsiasi essere umano prima di allora,
adesso sentiva di essersi irrimediabilmente innamorato di Ayato.
Come si fa a capire se
si è innamorati, quando non hai mai provato
un’emozione tanto forte in vita tua?
Beh… amare
è qualcosa che succede, non la puoi comandare con la
bacchetta magica. Arriva sempre quando meno te l’aspetti,
mentre sei tutto concentrato su ciò che fai per vivere,
talmente tanto da non avere più la percezione del mondo che
scorre intorno a te. Ed è vero quel luogo comune sulle
‘farfalle nello stomaco’, perché ogni
volta che Jūzō vedeva Ayato sentiva il fruscio di mille battiti
d’ali, dentro di sé.
Dormire era diventata
un’impresa, non faceva che pensare a lui – ecco
perché poi alle prove era sempre così fiacco,
anche se alla fine le sue esibizioni non ne avevano risentito
più di tanto, visto che s’impegnava ad essere
sempre perfetto per non deludere Ayato. E se non lo vedeva nei suoi
sogni, allora restava sveglio per ore ed ore, intento a fissare
l’apice della sua tenda, i pensieri che inesorabilmente
volavano al ragazzo dai capelli bluastri.
Sentiva di riuscire ad
esprimere se stesso solo quando era con lui, nei momenti in cui Ayato
lo teneva ben stretto tra le sue braccia e sembrava quasi che non lo
volesse lasciare più. Allora Jūzō si sentiva incredibilmente
protetto, come se finalmente avesse trovato il suo posto
nell’universo, una cometa che dopo milioni di anni esaurisce
finalmente il suo giro.
Ed era tutto perfetto,
davvero.
Ayato, dal canto suo,
trovava in Jūzō una fonte di sollievo ineguagliabile. Per anni aveva
dovuto soffocare una parte di sé, certo che mai nessuno
l’avrebbe accettata; con l’arrivo del giovane
giocoliere, tuttavia, ogni cosa era cambiata, visto che insieme a lui
riusciva a sentirsi libero,
finalmente.
Contemporaneamente al
sopraggiungere di quel senso di sollievo, tuttavia, anche i vecchi
fantasmi erano tornati a tormentarlo: se da una parte era lieto di
essere con Jūzō, dall’altra viveva nell’incessante
timore che qualcuno potesse vederli, in quelle notti trascorse
avvinghiati l’uno all’altro, con le schiene che
strofinavano contro la corteccia dell’albero.
L’idea che
uno dei suoi paesani scoprisse che era solito riservare quel genere di
attenzioni ad una persona del suo stesso sesso, oltretutto uno dei
gitani arrivati in paese con la compagnia del circo, lo infastidiva non
poco. Ayato non ci avrebbe messo due minuti a buttare ogni riguardo
all’aria, se solo fosse stato certo che questo non avrebbe in
alcun modo le cose.
In una grande
città la cosa non avrebbe fatto scalpore, lì
invece sarebbe volata di bocca in bocca e addio onorata reputazione che
aveva faticato a costruirsi in tutti quegli anni.
E non non si sarebbe
fatto tutti quei problemi, se solo la partenza del circo fosse stata
più lontana.
Qualora Jūzō fosse
rimasto con lui, Ayato non si sarebbe preoccupato così tanto
di quella situazione: con lui al suo fianco ogni difficoltà
sarebbe stata un gioco da ragazzi, assolutamente. Tuttavia dubitava che
Jūzō avrebbe acconsentito a lasciare il circo pur di rimanere con lui:
era pur sempre la sua casa, quella.
Doveva comunque
tentare: se ci fosse stata anche solo una possibilità di
convincere Jūzō a rimanere con sé, lui l’avrebbe
trovata, ne era certo.
Spostò le
labbra sul collo del giocoliere, disegnando una scia umida e piacevole,
su quella pelle che sapeva fosse sempre più martoriata dalle
prove durissime.
Perché
continuare a martoriarti così, Jūzō? Perché non
preferisci rimanere a vivere con me, in pace e tranquillità,
per sempre?
«Domani
partiamo per Portland» la voce di Jūzō gli giunge alle
orecchie bassa, ovattata, come se il rumore fosse attutito da batuffoli
di cotone, posti a decorare gli angoli delle labbra morbide e vellutate
del ragazzo.
Per Ayato fu come una
doccia fredda, un fulmine a ciel sereno che lo aveva colpito
direttamente al petto: d’accordo, sapeva che la loro partenza
sarebbe stata imminente, tuttavia non si aspettava che fosse così vicina.
Oltretutto preferiva non tenere il conto dei giorni – temeva
che se lo avesse fatto ogni momento passato con Jūzō gli sarebbe
sembrato irrimediabilmente artificioso – e quando era con lui
perdeva la cognizione d’ogni cosa, compreso ovviamente lo
scorrere del tempo. Forse perché, in fondo, era
ciò che desiderava, perdersi con Jūzō in un vortice senza
tempo e senza spazio, da cui nessuno dei due potesse uscire e dove ogni
preoccupazione era vana. Un mondo tutto loro, come due innamorati che
si rispettino, insomma.
«Come?»
aveva domandato infatti, allontanando le labbra dal suo collo e
sollevando lo sguardo, per poterlo fissare negli occhi.
Jūzō notò
subito quanto fosse sbiancato, sebbene intorno a loro la notte fosse
buia come non mai.
«Sai
perfettamente di cosa parlo, Ayato» aveva ribattuto,
passandosi una mano tra i capelli con aria frustrata.
Il diretto interessato
lo aveva osservato, occhi blu scuri quanto quella stessa notte che si
tuffavano in quel mare rosso sangue, nel quale – adesso come
sempre – sarebbe voluto ben volentieri sprofondare.
Sì, lui, quello dall’irremovibile testardaggine e
incapace di provare amore
o compassione
per qualcuno, aveva perso la testa per l’anima sola al mondo
di quel ragazzo dai capelli chiari, che sembravano esser fatti di luce.
Ed era vero, dannazione,
aveva paura.
Paura di perderlo per
sempre, di lasciarlo fuggire eternamente, come sabbia che scivola via
tra le dita, un refolo di vento in una giornata afosa, così
bello che vorresti tenerlo per sempre con te ma troppo effimero per
lasciare che ciò accada.
Ultimamente si stava
lasciando andare a quei ‘sentimentalismi’ che tanto
a lungo aveva odiato; che fosse dunque vero che l’amore, in
un modo o nell’altro, ti cambia?
«Verrò
anch’io» aveva affermato alla fine, la conclusione
più sensata e razionale che fosse riuscito a trovare nella
sua testa.
Jūzō l0 aveva fissato
a lungo, interdetto.
Certo, neanche lui
voleva lasciare Ayato, solo che non riusciva a vedere vie
d’uscita percorribili. Avrebbe dato tutto l’oro del
mondo pur di restare con il ragazzo, solo che non voleva neanche
abbandonare la compagnia, l’unica famiglia che avesse mai
avuto. Forse lui e Ayato, in un lontano futuro, si sarebbero potuti
considerare a loro volta una famiglia a tutti gli effetti, solo che ci
sarebbe voluto del tempo prima che Jūzō si fosse abituato ad una vita
sedentaria. E gli sarebbe servito un lavoro, accidenti – solo
che non riusciva ad immaginarsi di potersi adoperare in
nient’altro che non fossero le sue attuali mansioni da
circense. Oltretutto, Ayato sembrava temere continuamente che qualcuno
li vedesse mentre erano insieme, tanto che ogni volta prima di baciarlo
controllava che non ci fosse nessuno in giro, anche se continuavano ad
appartarsi in luoghi lontani dagli occhi di chiunque. Se avesse
continuato a comportarsi così anche una volta che Jūzō fosse
rimasto a vivere con lui, come avrebbero potuto mai vivere
tranquillamente una loro ipotetica relazione?
«Ah,
sì?» gli aveva domandato allora il giocoliere,
accigliato e affranto «E cosa penseresti di fare, se venissi
con noi? L’acrobata? Il mago?
L’equilibrista?»
«Non lo
so» aveva sbottato Ayato, mestamente
«però qualcosa da fare riuscirei pur sempre a
trovarla, no? Magari potrei dare una mano a montare e smontare il
tendone, quando la compagnia arriva in un posto o riparte alla volta di
un altro. Non si direbbe ma in estate anche io mi occupo della
mietitura nei campi, qualche muscolo ce
l’ho—»
«Ayato»
Jūzō aveva sospirato, sentendosi come se stesse parlando con qualcuno
molto più piccolo di lui «per questo genere di
attività non abbiamo problemi, la manodopera non manca di
certo: tutti noi artisti ci occupiamo di sistemare il tendone, sia
quando arriviamo in una città che quando ce ne andiamo.
È una nostra tradizione, lo hai visto anche tu, quando siamo
arrivati qui. Noi in questo modo ci divertiamo… e poi pensa,
ci siamo conosciuti proprio in quel momento!»
«Ma hai
detto che andrete a Portland» insisté Ayato,
incaponendosi testardamente sulla questione «Pensaci, Jūzō,
quella sì che è una grande città. Una
volta lì potremmo cercare un altro lavoro e poi non so,
vedere come va. Se a fine mese avremo racimolato un gruzzoletto
considerevole potremo anche considerare di fermarci a vivere
lì: i primi mesi potremmo andare avanti con dei lavori
saltuari, alloggiando negli ostelli e mangiando quello che riusciamo a
trovare. Sarebbe una soluzione ottimale».
Jūzō si morse un
labbro. Certo che Ayato, a differenza sua, aveva pensato proprio ad
ogni cosa, eh? E a dir la verità la soluzione che gli stava
proponendo era senza dubbio perfetta, se solo non fosse stato per un
piccolo dettaglio.
«Dimentichi
una cosa» Jūzō espirò di nuovo, sentendosi
sfiancato da quella discussione «questa compagnia
è la mia famiglia: credi davvero che potrei abbandonarla
così, come se niente fosse?»
«Ovviamente
no» aveva replicato Ayato, prendendogli il volto tra le
proprie mani «però anche io e te potremmo essere
una famiglia, insieme, no?»
Jūzō si morse il
labbro, combattuto. Certo che sarebbero potuti essere una famiglia,
loro due… e lui avrebbe voluto tanto esserlo, sul serio,
solo che la paura di perdere tutto di nuovo lo terrorizzava da morire.
Non voleva rimanere di nuovo solo, non ora che finalmente aveva trovato
delle persone pronte a volergli bene lo stesso, nonostante tutte le sue
stranezze. Se per una sciocchezza qualsiasi si fosse ritrovato ad
essere abbandonato da Ayato – un litigio scaturito da un
motivo futile, ad esempio – sarebbe stato di nuovo solo e in
quel caso Jūzō non avrebbe avuto davvero la benché minima
idea di che cosa fare.
Il giocoliere si
lasciò scivolare giù lungo tutta la corteccia
dell’albero, fino a ritrovarsi seduto a terra, stringendosi
al petto le gambe esili e coperte di lividi e graffi, dovuti agli
intensivi allenamenti a cui il direttore del circo lo sottoponeva, in
vista di ogni nuovo spettacolo. Certo, la sua non era la famiglia
più affettuosa e caritatevole del mondo, però
erano gli unici che si fossero mai premurati di averlo con
sé e di farlo sentire ‘a casa’, in
qualche modo.
«Tu non
capisci» aveva mormorato, rivolgendosi ad Ayato, mentre
scuoteva la testa con vigore.
«Ah, certo,
non capisco» sbottò invece Ayato, tirando un
calcio tra gli steli d’erba per la rabbia
«perché io non capisco mai, no? Io sarei disposto
a buttare tutta la mia vita alle ortiche pur di stare con te e tu
non—»
«Ti sei mai
chiesto come sono entrato a far parte di questa compagnia?»
Jūzō si strinse la testa tra le mani, sentendosi d’improvviso
più vecchio di cent’anni.
In
quell’istante Ayato si bloccò di colpo, come
ammutolito da quelle parole. Subito il suo sguardo tornò a
puntarsi in direzione di Jūzō, ogni traccia del rancore di poco prima
svanito di colpo.
Incoraggiato dal
silenzio dell’altro, Jūzō iniziò a raccontare,
sentendosi man a mano che procedeva nel suo discorso sempre
più libero di un peso che per tanti, troppi anni aveva
continuato a custodire silenziosamente dentro di sé.
«Sono orfano
dalla nascita. Ho sempre sospettato che i miei genitori mi avessero
abbandonato per povertà, non avendo soldi a sufficienza per
poter mantenere un figlio. Ad ogni modo, non li ho mai conosciuti. Mi
hanno abbandonato sul ciglio di una strada, in una notte troppo fredda
di dicembre. Rimasi per ore ad aspettare che qualcuno mi venisse a
salvare – ero un bambino in fasce, dormivo in una culla. In
effetti una persona la mia culla la prese, solo che credo fosse quanto
di peggiore potesse capitarmi. Era una folle, pazza, psicopatica donna,
che traeva piacere dal torturarmi. La vita lì era un
inferno, avrei di gran lunga preferito morire…»
Piccole lacrime
cominciarono a formarsi agli angoli delle cornee di Jūzō, la voce
sempre più incerta mentre proseguiva nel suo racconto.
«
Jūzō—» cercò di fermarlo Ayato, il cuore
straziato nel vederlo continuare a soffrire in quel modo.
«No,
aspetta, fammi finire» Jūzō fermò Ayato, alzando a
mezz’aria una mano dal palmo spalancato «ti prego,
Ayato, non mi interrompere, altrimenti non so se riuscirei a dire tutto
fino in fondo. Lo so che è difficile da credere, dopotutto
una storia così dolorosa e strappalacrime sembra un racconto
per un romanzo, piuttosto che la realtà, però per
quanto assurdo possa sembrare è così e ti giuro
che non ti mentirei mai, per nessuna ragione al mondo. Comunque, il suo
metodo di tortura preferito erano le tenaglie. Quegli arnesi maledetti
hanno lasciato segni indelebili sul mio corpo, ancora oggi ne porto le
cicatrici».
A quelle parole, il
giovane giocoliere stese le braccia davanti a sé,
così che l’altro potesse osservarle a sua
discrezione. Subito Ayato s’inginocchiò di fronte
a lui, scostando delicatamente il tessuto morbido delle maniche della
camicia di Jūzō dai suoi avambracci, tutto pieno di premure. Quello che
vi trovò gli raggelò il sangue nelle vene: una
miriade di segni a forma di piccole mezzelune, cicatrici inflitte con
crudeltà su quella carne. Ayato sentì nuovamente
la rabbia ribollire dentro di sé: sia per il fatto che un
trattamento del genere fosse stato inflitto a un innocente come Jūzō ,
che per non essersi accorto prima che quel ragazzo si trovasse in una
situazione traumatica come quella.
«Non
crucciarti» riprese Jūzō, quasi leggendo nella mente di Ayato
«non potevi saperlo. Dopotutto, negli anni ho imparato a
nascondere al meglio la cosa: sai, così riesco ad evitare un
sacco di domande spiacevoli in merito – parlare di questa
storia non mi fa mai impazzire di gioia, credo che si veda bene.
Comunque, col tempo ho scoperto che alla luce del sole si crea una
sorta di illusione ottica con i fili delle cuciture, ecco
perché non lo avevi notato prima. Fatto sta che un giorno
riuscii a liberarmi: la catena a cui mi teneva legato era sciolta
– non ho la più pallida idea del
perché, forse la sorte ha deciso di arridermi –
per cui riuscii a scappare in un pertugio sotterraneo, di notte, mentre
la mia carceriera dormiva. Ero gravemente ferito, però la
necessità di fuggire da lì era talmente forte che
il dolore quasi non lo sentivo; ne andava della mia sopravvivenza,
dopotutto. Fortuna volle che mi trovassi nelle vicinanze di una ferrovia: mi
sono buttato sul primo treno che è passato, incurante di
quale fosse la sua destinazione. Lì ho incontrato la mia
compagnia – che al tempo si muoveva clandestinamente via treno,
non avendo ancora le possibilità economiche per poter
acquistare i carri coperti, con i quali invece adesso ci spostiamo.
Loro si sono presi cura di me fin dal primo istante in cui mi hanno
incontrato, medicando le mie ferite, senza chiedere né
pretendere niente in cambio. Ecco perché sono come una
famiglia, per me. Da allora mi sono unito a loro come giocoliere, senza
mai lasciarli, nemmeno per una volta, in ogni evenienza. Capisci adesso
perché per me sia così inimmaginabile
l’idea di lasciarli così, di punto in
bianco?»
Jūzō fece una lunga
pausa, riprendendo faticosamente fiato. Quel racconto era stato
estenuante per lui, certamente fisicamente ma soprattutto
psicologicamente.
Ayato ne
approfittò per sedersi dietro di lui, appoggiando la propria
schiena contro il tronco dell’albero e stringendosi invece
quella di Jūzō al petto. Era incredibilmente rassicurante, tenerselo
così vicino.
«Certo che
ti capisco» aveva ammesso, ancora sconvolto da quel fiume in
piena di rivelazioni, mentre gli sistemava una ciocca di capelli chiari
dietro l’orecchio, cercando di rassicurarlo «e te
l’ho detto, so quanto questo circo significhi per te.
Però Jūzō pensaci, anche io voglio stare con te, tenerti
stretto stretto quando hai paura per poterti rincuorare da ogni tuo
timore e medicare tutte le tue ferite. Anche io potrei essere la tua
famiglia. Ti prego, fidati di me, ti assicuro che non ti lascerei mai,
per nulla al mondo…»
È difficile
per Jūzō ammetterlo a sé stesso, tuttavia quelle che Ayato
gli ha rivolto sono esattamente le parole che avrebbe voluto sentirsi
dire. Solo che sarebbe stato in grado di mantenere la parola data,
nonostante tutto?
«E io mi
fido di te, Ayato» si affrettò a replicare Jūzō,
sempre più sconsolato «però io non lo
so se ci riesco a lasciarli così. È tutto
talmente dannatamente difficile…»
«Però
può essere incredibilmente facile, se lo vuoi»
aveva ribattuto Ayato, scivolando via da dietro la schiena del ragazzo
e portandosi nuovamente davanti a lui, inginocchiandosi frontalmente
dinanzi a Jūzō, tra le sue gambe «devi solo avere fiducia in
noi… e poi vedrai che il resto verrà da
sé».
Detto questo, Ayato
aveva preso ancora una volta il volto di Jūzō tra le proprie mani,
avvicinandolo sempre di più a sé, fino a che non
se l’era ritrovato a pochi millimetri di distanza. Allora
aveva lasciato posare le proprie labbra su quelle di Jūzō, esattamente
come la prima volta, in modo che sembrasse la cosa più
semplice e naturale del mondo.
Il giovane giocoliere
non oppose resistenza, come ogni altra volta. Quella situazione fece
sentire Ayato autorizzato ad andare oltre, le labbra che si facevano
più languide mentre la lingua scivolava nella bocca
dell’altro e le mani correvano ad accarezzare la sua pelle
nuda, sotto i vestiti.
Così lo
avrebbe convinto senza dubbio, ne era assolutamente certo.
Peccato che, ancora
una volta, Jūzō non sembrasse essere del suo stesso avviso.
«Ayato,
Ayato, Ayato, a–aspetta…» aveva
farfugliato, già in preda ai fumi del piacere
«n–non sono ancora pronto per
questo…»
«Se non
riesco a convincerti con le parole, allora dovrò farlo con i
fatti» era stata l’obiezione dell’altro,
mentre si avvicinava ancora di più a lui, per potergli
andare a leccare la zona dietro l’orecchio, con
l’intento di fargli perdere anche l’ultimo briciolo
di lucidità rimasto, certo che poi persuaderlo alle sue
intenzioni sarebbe stato un giochetto da niente.
«Ho bisogno
di riflettere sulla tua proposta» aveva sospirato Jūzō,
scivolando di lato per sottrarsi alle attenzioni di Ayato «e
così non mi aiuti a pensare, affatto».
«Beh, puoi
sempre pensare dopo e lasciarti andare alle mie attenzioni
adesso» perseverò ancora Ayato, ostinatamente
certo che la sua fosse la scelta migliore.
«Ti
prego» lo aveva implorato allora Jūzō, letteralmente sfinito
dopo tutto quello che era accaduto «ho bisogno di rimanere un
po’ da solo, adesso. Sono certo che dopo una buona nottata di
sonno saprò esattamente quello che dovrò
fare?»
«Davvero
stai preferendo delle persone a cui non importa niente se ti riempi di
lividi per prepararti per i loro stupidi spettacoli a me?»
aveva sbottato Ayato, alzandosi in piedi, la voce al limite della
collera.
«Non
è questo quello che ho detto, ti ho solo chiesto una notte
di tempo per pensarci. E comunque non parlare così di loro,
non dopo quello che ti ho detto stasera» aveva ribadito Jūzō,
la voce pericolosamente incrinata per via delle lacrime «per
favore, Ayato…»
Il ragazzo dai capelli
blu aveva sospirato pesantemente. Non gli stava dicendo di no, quella
di Jūzō era una richiesta di avere solo un po’ più
tempo per pensarci. E Ayato non poteva certo negargliela, dopotutto se
era così sicuro che la propria fosse la soluzione migliore
allora non aveva nulla di cui temere, di certo ci sarebbe arrivato
anche Jūzō.
«E va
bene» aveva sospirato infine, allungando una mano verso di
lui per poterlo aiutare a rialzarsi «adesso coraggio, reggiti
a me, così ti tiro su e puoi andare a dormire».
«In
realtà penso che resterò qui ancora per un
po’. Sai, questo silenzio mi concilia i pensieri. Tu intanto
vai, ti assicuro che tra poco andrò a dormire nella mia
tenda anche io» aveva concluso Jūzō, sforzandosi di apparire
quanto più convincente e sicuro di sé possibile.
L’altro
aveva annuito, senza aggiungere altro.
«Allora
buonanotte, Ayato»lo aveva salutato il giocoliere,
stringendosi nuovamente con le braccia le gambe al petto.
«Buonanotte,
Jūzō» aveva risposto Ayato, voltandosi e cominciando ad
avviarsi lungo la via del ritorno.
“Non
voltarti” si ammonì mentalmente, continuando a
camminare di gran carriera sulla propria strada, passi svelti e sicuri
che si succedevano uno dietro l’altro “o finirai
per dimostrare quanto la tua mente sia debole”.
Il suo incedere
spedito fu tuttavia arrestato dalla voce di Jūzō, nel silenzio della
notte ridotta quasi ad un sussurro.
«Ayato»
aveva mormorato infatti, il tono pregno di impellenza impossibile da
non notare.
E
l’interpellato, volente o nolente, non aveva potuto far altro
che voltarsi in direzione di quella voce, in barba
all’orgoglio.
«Grazie per
essere rimasto ad ascoltarmi, stasera. Non avevo mai raccontato a
nessuno quello che ho detto a te» ammise infatti Jūzō, la
voce incrinata e rotta in più punti.
Per un momento
interminabile Ayato era rimasto lì, sospeso in
quell’attimo eterno, nel più totale silenzio,
incapace di replicare in alcun modo a quelle parole. Non aveva fatto
altro che fissare il ragazzo albino, ancora seduto a terra, almeno
finché quella vista non era diventata infinitamente
dolorosa: tra le ciglia del giovane giocoliere infatti si ostinavano a
voler rimanere impigliati dei piccoli accenni di lacrime cristalline.
Quello sguardo, sempre
così ridente e solare, era ora spento e cupo; una vera
pugnalata dritta al cuore per uno come Ayato, che di quegli occhi rossi
allegri si era innamorato, tanto che avrebbe fatto qualsiasi cosa pur
di vederli illuminarsi di gioia ancora una volta.
Tuttavia si era
voltato, senza aggiungere altro e riprendendo a camminare per la sua
strada, mentre il suo corpo veniva man mano inghiottito dalle tenebre
della notte.
E Jūzō rimase
lì inerme, a fissare gli ultimi brandelli dei suoi abiti che
sparivano nel nulla, come refoli di vento impossibili da catturare.
Il
giorno successivo era quello della partenza.
Gli uomini avevano
lavorato al fine di smontare il tendone e recuperare tutti gli attrezzi
di scena già a partire dalle prime luci dell’alba.
Non avrebbero lasciato alcuna traccia del loro passaggio lì,
sebbene si fossero fermati per un intero mese i loro ricordi sarebbero
stati invisibili, come spiriti di un’esistenza
incontrovertibile.
Jūzō non aveva chiuso
occhio per tutta la notte, continuando ad arrovellarsi sulla proposta
che aveva ricevuto da Ayato la sera precedente. Più spremeva
le meningi, nel vano tentativo di raggiungere una decisione,
più sentiva di essere vicino alla soluzione di quel
rompicapo che di colpo la sua vita era diventata.
Certamente la proposta
di Ayato era ben più che allettante: trascorrere
un’esistenza insieme, lontano dai pericoli che la vita
perennemente precaria del circo gli imponeva sarebbe stato senza dubbio
un agio gradito. Magari un giorno lui ed Ayato avrebbero potuto
litigare e smettere di andare d’accordo, questo era quasi
pressoché inevitabile – già adesso
capitava spesso che avessero dei piccoli diverbi, bastava pensare a
quant’era successo la sera precedente –
probabilmente tuttavia a quel punto non avrebbero fatto che separarsi e
proseguire ognuno per la sua strada.
Sarebbe stato quasi
indolore e Jūzō avrebbe forse potuto trovare un lavoro migliore e
più dignitoso dell’essere il giocoliere di una
compagnia circense di seconda mano.
Tutto perfetto,
insomma. O almeno, così sarebbe potuto sembrare, se non per
quel piccolo dettaglio.
Il circo era sempre
stata la sua famiglia, gli aveva dato di che vivere in un periodo in
cui nessuno avrebbe scommesso un soldo bucato su di lui. Che razza di
riconoscenza sarebbe stata la sua, se li avesse davvero abbandonati
così, di punto in bianco, dal giorno alla notte?
Ed era vero, Jūzō
aveva paura di lasciarli. Erano un po’ la sua famiglia,
dopotutto. Inoltre, che futuro avrebbe potuto mai avere al di fuori di
quel circo, lui che oltre al giocoliere non sapeva fare nessun altro
‘lavoro’?
Come se non bastasse,
c’era da considerare anche la questione Ayato. Quel ragazzo
era una vera e propria mina vagante, capace di scoppiare da un momento
all’altro. Irascibile e spesso nervoso, che cosa sarebbe successo se,
dopo un litigio un po’ troppo violento, avesse deciso che
loro due non erano adatti a stare insieme? L’avrebbe
abbandonato di colpo? Jūzō non era affatto sicuro di riuscire a
sopravvivere da solo, in una città grande e sconosciuta come
Portland, qualora Ayato avesse deciso di lasciarlo.
Il giocoliere
fissò l’orizzonte, il sole chiaro e giallastro che
faceva capolino da dietro le creste infuocate del Grand Canyon, mentre
ormai tutti i loro attrezzi erano stati caricati sulle varie carrozze
della carovana, che spiccavano in primo piano dinanzi a quello
spettacolo naturale, schierate e pronte a partire.
E Jūzō seppe
esattamente cosa
fare.
Le nove
in punto. Ayato era a conoscenza del fatto che il circo sarebbe partito
dalla piazza centrale del loro piccolo paese proprio a
quell’ora, la stessa di quand’erano arrivati, ormai
la bellezza di un mese prima.
Lui però
non era lì; come a voler onorare una sorta di tradizione non
scritta, infatti, si era abbarbicato nuovamente sulla punta del crinale
di roccia rossa del Grand Canyon da cui aveva visto per la prima volta
la carovana del circo giungere in quel luogo.
Sapeva che, qualora
Jūzō avesse deciso di rimanere con lui, avrebbe saputo dove andarlo a
cercare. Sperava solo che non avrebbe percepito la sua assenza come un
presagio negativo, poiché tutto era, fuorché
quello.
“Capirà,
vedrai” s’incoraggiò da solo, certo che
il giovane giocoliere avrebbe colto quel suo messaggio.
Certo, la sera
precedente non si era affatto comportato bene con lui:
l’aveva abbandonato così, su due piedi, senza
nemmeno aggiungere una parola.
Era
un vigliacco, dannazione!
Nel momento del
bisogno aveva lasciato che Jūzō si ritrovasse completamente alla
deriva, solo e senza alcun genere di aiuto per riuscire a sottrarsi da
una situazione di forte disagio emotivo come lo era stata quella per
lui.
Lo aveva deluso e
forse adesso Jūzō ce l’aveva – in maniera del tutto
sensata, a dir la verità – con lui. Quel suo
sciocco comportamento infantile gli aveva fatto perdere un sacco di
punti in quanto a fiducia da parte dell’amico.
E tutto questo
perché? Solo per essere uno sciocco, così
ostinatamente influenzato da quel suo dilagante orgoglio?
“Pazienza”
si era magramente consolato Ayato “almeno così
imparerò a comportarmi come un cretino al momento
sbagliato”.
Forse stava sbagliando
tutto: lasciandolo da solo, dapprima la sera precedente e poi adesso,
era probabile che stesse passando a Jūzō il messaggio sbagliato, ossia
che non gliene importasse niente di lui, apparenza fittizia e piuttosto
poco realistica.
A quel punto Ayato
sarebbe corso volentieri giù per quella scarpata per
presentarsi in piazza e fermare la carovana prima che potesse essere
troppo tardi, impedire a Jūzō di partire e dimostrargli quanto contasse
davvero per lui.
Peccato che, ancora
una volta, il suo stupido orgoglio gli stesse impedendo di muoversi da
quel crinale roccioso. “Lascia perdere” gli diceva
la sua mente “dove pensi di andare e, soprattutto, cosa
diavolo risolveresti, facendo così? Magari Jūzō si
sentirebbe ancor più costretto a rifiutare, al che non
faresti altro che metterti doppiamente in ridicolo davanti a tutto il
tuo paese”.
Ecco perché
se ne stava rimanendo lì seduto, ogni suo muscolo
immobilizzato dalla desolante paura dell’insuccesso.
Un condor
spiccò il volo, dapprima alto nel cielo e poi sempre
più giù, volando in picchiata verso la valle, gli
occhi da predatore scintillanti e le grandi ali che si dispiegavano,
mentre continuava con ritmo inesorabile a cadere giù nel
vuoto, attratto da chissà quale preda.
Circolava aria non
più torrida e rovente come quella di agosto,
bensì più fresca, resa respirabile dalle brezze
leggere di settembre.
Incredibile, il circo
si stava portando via con sé un intero mese, carico dei
mille ricordi che quell’esperienza aveva lasciato ad Ayato.
Non avrebbe mai potuto
dimenticare le emozioni che aveva provato in quei giorni, bene o male
che fosse andata.
Si era reso conto che
fosse troppo tardi per tentare qualsiasi cosa quando l’odore
acre della polvere si era sollevata nel vento e gli era penetrata nelle
narici.
Centinaia e centinaia
di metri sotto di sé, infatti, il terreno brullo e rossastro
dell’unica strada di accesso al suo paese aveva preso a
vibrare intensamente, sotto il battito frenetico delle ruote dei carri
e lo scalpiccio degli zoccoli dei cavalli.
Peccato che, stavolta,
quella carovana non si stesse dirigendo verso la sua cittadina,
bensì si stesse allontanando da quest’ultima.
Jūzō non si vedeva da
nessuna parte, il che diede ad Ayato la certezza di averlo perso.
Il giovane giocoliere
si trovava infatti su uno di quei carri coperti, al sicuro da tutto,
tutti ed il resto del mondo. Aveva ritenuto infatti che restare con
quella compagnia, che in un modo un po’ contorto era la sua
‘famiglia’, fosse la scelta giusta, piuttosto che
rischiare di restare deluso e bruciato da quel fuoco di passione che lo
attirava invece verso Ayato.
Si era alzato in
piedi, in un impeto di rabbia e frustrazione, gli stivali che
scalpitavano a terra tra quelle sabbie rocciose e dalle sfumature
ossidiate così come adesso gli zoccoli dei cavalli stavano
calpestando il terreno, parecchio più in basso.
Era furioso. E anche
ferito, forse, al pensiero che Jūzō non l’avesse preferito a
quella compagnia.
Stupido
orgoglioso. Non è forse vero che, in amore,
c’è sempre qualcuno che finisce per farsi
più male?
Non avrebbe mai dovuto
innamorarsi di Jūzō, anzi forse non avrebbe proprio dovuto mai
innamorarsi. Quella follia non aveva fatto altro che portargli guai e
dolori, a quanto pareva.
Non aveva mai lasciato
che i propri sentimenti prendessero il sopravvento sulla
razionalità e per una volta che invece provava a fidarsi,
ecco come veniva ripagato.
Era stato uno sciocco,
certamente. Non avrebbe dovuto lasciarsi coinvolgere così
tanto. Se solo fosse rimasto impassibile come suo solito, forse allora
l’esito sarebbe stato differente.
No, non era quello il
rimpianto giusto. La verità era che, se solo non fosse stato
così orgoglioso ed egoista, forse Jūzō sarebbe rimasto con
lui, senza andarsene mai più via.
Dio, che stupido che
era stato.
Purtroppo, tuttavia,
restare a piangere adesso sul latte versato non avrebbe in alcun modo
cambiato la realtà dei fatti.
Ayato
scrollò le spalle, stringendosi le braccia al petto e
restando a osservare a lungo l’orizzonte, anche dopo che i
carri erano scomparsi oltre quest’ultimo, restando immobile a
fissare la persona che più di tutte aveva amato nella sua
vita andarsene per sempre, lasciandogli un vuoto dentro che –
il giovane dai capelli bluastri lo sapeva già –
nessuno sarebbe mai e poi mai riuscito a colmare.
*Note
dell’autrice*
Vedere questa
fanfiction giungere finalmente al termine mi rende estremamente
soddisfatta.
Va considerata che ho
iniziato la sua stesura all’incirca verso la metà
di luglio, procedendo tra fasi alterne di intensi periodi di
creatività, in cui riuscivo a buttar giù anche
cinque pagine al giorno per diversi giorni consecutivi, fino ad
arrivare invece a dei lunghi momenti di pausa, che potevano durare
anche delle intere settimane, in cui vedermi scrivere qualcosa su
queste pagine di Word era letteralmente impossibile.
Eppure stasera,
perfettamente in linea con la mia tabella di marcia degli impegni, sono
finalmente riuscita a concluderla, nella sua spaventosa lunghezza di
quasi 16.400 parole e la bellezza di 33 pagine Word {e a tal proposito
ne approfitto per scusarmi sinceramente con tutti i lettori che
decideranno di arrivare fino alla fine di questa odissea letteraria ( ;
´Д` ) }
Ad ogni modo, credo
che quest’idea mi frullasse per la mente addirittura da molti
mesi fa, l’unico problema è che sono riuscita a
metterla per iscritto solo adesso sia perché sono stata per
molto tempo impegnata a definirne la trama, sia perché
durante questi mesi molti impegni (più
comunemente denominati ‘scuola’) mi
hanno tenuta lontana dalla tastiera, permettendomi di realizzare questo
mio lavoro soltanto adesso.
Considerando quanto io
ami le AU ho pensato bene dunque di cogliere la palla al balzo,
mettendomi a lavorare su questa storia. Per la collocazione temporale,
va immaginata una cornice ambientata negli ultimi anni
dell’800 (ecco spiegate le gonne larghe e gli abiti che
lasciano ben poco spazio all’immaginazione) mentre i luoghi
sono chiaramente le zone rurali dell’America settentrionale
di quell’epoca. Non chiedetemi perché, quando ho
immaginato l’AU l’ho vista lì.
Quanto ai
personaggi… okay, lo ammetto, l’AyaJū (scusate per
lo shipname orrendo) è il mio guilty pleasure.
{Ma non era la KageKi
quello?}
Va bene, facciamo che
l’AyaJū è uno
dei miei guilty pleasure,
perlomeno in fatto di ship. Fondamentalmente perché sono una
di quelle coppie talmente agli antipodi che potrebbero quasi funzionare
se forse – e sottolineo forse – entrambi
s’impegnassero a raggiungere il fine comune, che sarebbe
quello di far stare in piedi la loro relazione. Cosa che non avviene
nella mia fanfic, ovviamente.
Per la prima volta in
vita mia temo di essere andata troppo ooc con i personaggi, anche se ho
cercato per quanto potessi di giustificare alcuni comportamenti che
sarebbero potuti risultare un po’
‘sospetti’. Non so se ci sono sempre riuscita,
fatto sta che il risultato finale è questo. Ho dovuto
considerare anche che l’ambientazione che, rispetto ai giorni
nostri, è antecedente di ben un secolo. Comunque, nel caso
in cui i caratteri continuassero a sembrarvi troppo sconvolti
nonostante queste doverose premesse, non esitate a farmelo notare,
così che io possa aggiungere la nota opportuna.
E dire che io sono
quella rinomata per essere sempre ic con i personaggi… okay
che Tokyo ghoul è un’opera che comunque conosco da
meno tempo di altre, però insomma, spero di non aver
combinato un completo disastro.
Scusate un
attimo… *chiude la finestra* ecco, così va
decisamente meglio. Dovete sapere infatti che in questi giorni nella
mia città si stanno svolgendo i tradizionali festeggiamenti,
perciò capita che il corteo medievale ti passi sotto casa,
con problemi di confusione e cianciare delle persone che lo seguono
annessi e connessi. Sigh, a me la vita è male.
Volevo fare
un’ultima precisazione in merito al titolo: visto che vado al
classico (anzi, fatemi gli in bocca al lupo che quest’anno
comincio il quinto, con tanto di maturità a giugno. Yeah)
ormai sono irrimediabilmente traviata, tanto che ho finito per dare un
titolo in latino alla shot. Letteralmente starebbe a significare
‘lo stesso’, ‘egualmente’, il
che indica la condizione di Ayato e Jūzō: due persone incredibilmente
diverse, anche se una volta che finiscono per innamorarsi scoprono di
avere innumerevoli lati in comune. Mi sento intelligente, ahahah.
Riguardo invece al
finale, è quanto di più melodrammatico ci si
potesse aspettare, anche se quando si tratta di un’amante
dell’angst come me non si può mai dire mai (avrei anche potuto
farli morire, per intenderci). D’altronde,
è difficile immaginarsi il lieto fine con una coppia come
questa. Oltretutto Jūzō è in assoluto il mio personaggio
preferito di tutto Tokyo ghoul, quindi potrete ben immaginare la mia
felicità nell’avere finalmente
l’occasione di poter scrivere su di lui.
Comunque, sono
estremamente lieta di essere riuscita a pubblicare questa mia seconda
fanfiction sul fandom di Tokyo ghoul: amo l’anime e
soprattutto il manga, mi rimprovero di essermi preclusa fino ad ora la
possibilità di postare anche in questa sezione. Mi
riprometto di essere più presente, d’ora in poi,
soprattutto visto che ho già avuto un’idea per
un’altra AU, sempre su Ayato e Jūzō, stavolta ambientata
durante la seconda guerra mondiale… per il momento per ora
preferisco non parlarne per scaramanzia, diciamo così.
Niente, ringrazio
chiunque abbia letto e quei pochi che saranno arrivati fin qui,
chiunque inserirà questa storia tra le preferite o le
ricordate. Inoltre una speciale menzione d’onore va ad Ange, alla quale
questa storia sarà dedicata – qualora dovesse
apprezzarla – e a Seth,
la giudice del contest a cui ho recentemente partecipato, tra
l’altro con la mia prima fanfiction su Tokyo ghoul, che mi
è valsa il terzo posto e la ringrazio ancora una volta per
lo splendido lavoro compiuto. So che anche lei ama Jūzō, spero che le
sia piaciuto anche in questa veste inedita. A proposito: con chiunque
parlo di Tokyo ghoul mi sento dire che il loro personaggio preferito
è Jūzō, solo che questa sezione è tristemente
povera di fanfiction su di lui. Francamente da giorni continuo a
chiedermi il perché di questa cosa, tuttavia non riesco a
trovare una risposta. Ahh, pazienza.
Mi auguro che la
storia vi sia piaciuta e spero di potervi risentire presto
Aria
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