i am legend 2
I
tentativi dello scarafaggio:
Beatrice
aprì gli occhi lentamente e rimase ad ascoltare il silenzio.
Era giorno.
Si
alzò dal materasso sudicio ed incavato e si
guardò attorno. Non passava nemmeno uno spiraglio di luce
tra le porte del furgone, ma c’era silenzio, e allora era
certa che fosse giorno. Il veicolo era immobile, con il motore spento.
Vicino a lei c’era qualcuno che respirava pesantemente.
La ragazza
si mise a sedere ed incrociò le gambe, cercando di abituare
gli occhi al buio, invano.
Gli eventi
di quella notte sembravano non essere stati suggellati dallo scorrere
del tempo, come se potessero sparire, come se il mondo se li potesse
riprendere. Ma c’era una persona che respirava pesantemente
di fianco a lei, e quindi il mondo non si era ancora ripreso nulla.
Guardò
il buio. Rievocò la sua corsa sfrenata nella
città. La prima voce che fosse umana dopo due anni di
silenzio. Beatrice si era dimenticata di come si parla, Beatrice si era
dimenticata che viso potesse avere una persona.
Dopo alcuni
minuti, o forse dopo un’ora, il sedile del passeggero ebbe
uno scossone e la persona che lo occupava prese ad armeggiare con dei
tasti, da qualche parte. Poi il furgone sibilò e fu inondato
di luce.
“Sveglia,
siamo in ritardo con le tabelle di marcia”
La persona
al fianco di Beatrice sbadigliò con un rumore indecente.
“Allora
metti in moto. Mica ti serve tutta la squadra no?”
“Datti
da fare e prendi la colazione” intervenne un’altra
voce impastata dal sonno, dal sedile del guidatore.
Il furgone
si mise in moto rombando furioso. E mentre l’uomo accanto
Beatrice si muoveva verso degli scatoloni in coda alla vettura la
ragazza sul sedile del passeggero si voltò verso di lei.
Era bella,
con i capelli lunghi e biondi, gli occhi celesti, la pelle chiara e il
viso gentile, magro, perfetto.
“Stai
bene?”
La sua voce
vibrò nel furgone armonica, ma aveva un timbro basso, deciso.
Attese la
risposta di Beatrice, ma la ragazza non riusciva a trovare nulla da
dire. Così le porse la mano.
“Io
sono Anna”
Quel gesto
era famigliare. Si rese conto che sapeva cosa rispondere.
“Io
sono Beatrice”
Anna le
sorrise, maledettamente bella. “Piacere”
Beatrice
sorrise a sua volta, come un automatismo.
“Ora
sei tra amici, non ti devi preoccupare più”
continuò Anna. La ragazza dagli occhi ambrati
però rimaneva in silenzio, come se non capisse esattamente
cosa stesse accadendo. Così lei decise che doveva continuare
a parlare.
“Quanto
tempo sei rimasta sola?”
Nessuna
risposta.
Anna si
arrese, cambiò discorso. Sollevò un indice ed
indicò l’uomo al volante. Beatrice
seguì il suo gesto, e non fece affatto caso al tachimetro
che segnava i 160 chilometri orari.
“Lui
è Andrej, l’addetto alla guida. Ha una patente
speciale per i veicoli militari, una cosa del genere”
Andrej si
voltò appena. Aveva i capelli così biondi che
sembravano trasparenti, e gli occhi azzurri come il ghiaccio, il naso
dritto e un bel sorriso. L’indice di Anna si
spostò oltre.
“Quello
che sta trafficando là dietro è Baptiste, lui si
occupa di cariche esplosive ed affini”
Baptiste
salutò con la mano da uno degli scatoloni, completamente
immerso nella ricerca della colazione. “Non crederesti mai
quanta roba bisogna far saltare in aria oggigiorno, ragazzina”
Anna
continuò. “Io invece sono il tiratore scelto della
squadra, tutte le armi che richiedono una certa maestria sono
affidate a me. Naturalmente mi occupo anche del recupero degli arsenali
che rinveniamo” Infine l’indice di Anna si
spostò verso l’unico angolo in ombra della
macchina. Da lì non venivano rumori.
“Lui
invece è Nicholas”
Nella
penombra Beatrice intravide alcune ciocche di capelli bianchi dondolare
davanti ad un viso diafano. Gli occhi verdi smeraldo la osservavano
senza ombra d’emozione, quasi disinteressati.
Riuscì ad intravedere anche le sue labbra, livide. Erano
belle. Sorrideva.
“Lui
si occupa dei casi di emergenza, diciamo. Quindi come puoi vedere siamo
bene attrezzati. Non devi più preoccuparti”
Beatrice non
si voltò verso Anna, rimase a guardare incantata quegli
occhi verdi, che rimasero impassibili anche quando lei
cominciò a piangere in silenzio, e poi sempre più
forte, fino a ridursi come una bambina, aggrovigliata su sé
stessa nel tentativo di sentire meno male.
Baptiste le
tirò la scatola di plastica con dentro la colazione.
Beatrice non provò nemmeno a reagire e venne colpita sulla
guancia grondante di lacrime. Anna afferrò dal cruscotto un
mazzo di chiavi e lo tirò al compagno di squadra, urlando.
“Cerca
di usare un po’ più di garbo con questa signorina,
brutto francese puzzolente, altrimenti ti sparo ad un ginocchio, e vedi
se non lo faccio davvero!” poi si rivolse di nuovo alla
ragazza. “Non curarti troppo di lui, gliela faccio passare io
la voglia di fare il simpatico… lo so, l’aspetto
non è dei migliori” aggiunse indicando il piatto
di plastica sigillato che Beatrice osservava apatica. “Ma
dovresti provare a mangiare qualcosa. Tappati il naso e non pensarci,
potresti scoprire di essere più affamata di quanto tu non
creda”
La ragazza
osservò il piatto. In effetti aveva fame, ma le mancava
qualcosa, e non riusciva a ricordare. Poi la mano villosa e sporca di
Baptiste le porse un cucchiaino da tè.
“Non
abbiamo altro. Abbiamo fatto confusione e non ci siamo portati le
posate”
“No,
Anna ha fatto confusione” rispose Andrej. Ora il tachimetro
segnava i 180 chilometri orari.
“Piantatela
con questa storia” disse Anna. “Può
capitare a tutti di sbagliarsi”
“Ma
a te non capita mai, quindi fatti prendere un po’ in
giro”
La ragazza
sbuffò, sorridendo. Beatrice afferrò il
cucchiaino che Baptiste continuava pazientemente a porgerle. Poi
l’uomo cominciò a distribuire altre confezioni di
plastica ai compagni. Tutti meno che a quello nascosto
nell’angolo buio.
“Allora,
Beatrice” esordì Andrei, un po’
esitante. “Noi costituiamo una squadra di recupero. Siamo
attrezzati per viaggiare anche di notte, quindi possiamo coprire grandi
distanze. Così andiamo a recuperare i sopravvissuti nelle
città che possiamo raggiungere nel giro di un paio di
giorni. Missioni di salvataggio”
“Era
da un po’ che giravamo per la tua città,
veramente” proseguì Anna. “Appena ti
abbiamo trovata però abbiamo pensato che fosse il caso di
andare. Dopo tutto quel putiferio”
Baptiste, da
dietro il furgone, scoppiò a ridere. Si era seduto con una
certa pesantezza vicino a Nicholas, che però non si era
mosso di un millimetro, gli occhi smeraldi che galleggiavano nel buio.
“Abbiamo
fatto” disse il francese tra le risate. “Davvero un
casino”
il suo
accento non era pesante. Doveva essere da tanto che conviveva con gente
d’altra nazionalità.
Beatrice si
decise in fine di aprire il coperchio della sua poco invitante
colazione. Sembravano fiocchi di latte, disgustosamente compatti e
biancastri. Decise di non farci caso: affondò il cucchiaino
e mise in bocca. Schifoso, ma niente in confronto all’odore
che era acido nella gola, quello dei cadaveri sulla strada a
mezzogiorno.
“do…”
ingoiò. “Dove andiamo?”
Anna la
osservò per qualche istante. “Sei la prima che non
diventa verde, dopo aver ingurgitato quella porcheria. Andiamo
nell’ultima cittadina fortificata del genere umano, a due
giorni di viaggio da qui”
Beatrice
mise in bocca un’altra cucchiaiata.
“Non
esistono città degli uomini”
“Beh”
si intromise Andrej “No, se intendi nel senso stretto del
termine –città-. Era una vecchia base militare,
con le mura di cemento armato pressoché indistruttibili,
altre più di 15 metri. Quei cosi non saltano così
in alto. Non sappiamo esattamente a cosa servisse, ma serve
perfettamente allo scopo attuale. Quelli che la scoprirono trovarono al
suo interno un impianto di trasmissione satellitare, e una piccola
radio a onde corte. Hanno cominciato a chiamare. Oggi siamo
centoventisei sopravvissuti”
La ragazza
dagli occhi d’ambra rimase in ascolto. Il suo cuore avrebbe
dovuto fare un guizzo di gioia. Non era sola, qualcuno era
sopravvissuto. Rimase in ascolto, ma niente, e così si
limitò ad infilarsi in bocca un’altra cucchiaiata
di quel rancio disgustoso, nella più totale indifferenza.
Beatrice si
riavviò i capelli, e nel riportarli dietro
l’orecchio sfiorò qualcosa di ruvido e umido.
“Non
toccarti le bende, ragazzina” le disse Baptiste.
“Hai le mani sporche. Anche se ci abbiamo messo tanto di quel
disinfettante che ti potrebbe guarire l’appendicite, non
è una buona idea farci entrare i microbi”
Aveva il
collo fasciato, e dopo alcuni istanti si ricordò
perché: quei mostri l’avevano morsa.
“Non
mi fa male”
“Se
ti ho detto che ci abbiamo messo una boccetta intera di disinfettante,
che dolore dovresti sentire ancora?”
“Non
me ne sono nemmeno accorta”
“Sono…
un uomo delicato”
“Ma
sta zitto, Baptiste! Tu sei un macellaio, da te non mi farei mettere
nemmeno un cerotto!” Anna si girò a guardarli dal
sedile del passeggero. “Ti ho bendata io, figurati se ti
facevo toccare da uno che ha le mani sozze di
terra…”
“Ok,
ok, prendevo solo un po’ in giro la nostra nuova arrivata!
Per mettere un po’ di buonumore!”
“Se
ti prude, se ti dà fastidio” riprese Anna.
“Ti posso mettere altro antisettico. Purtroppo non abbiamo
molto altro”
“Non
mi avete ucciso”
Le ruote del
furgone blindato ebbero un lieve sussulto mentre scavalcavano una buca
nell’asfalto, i feticci appesi allo specchietto retrovisore
tintinnarono contro il vetro e rimasero a ciondolare sospesi
nell’aria.
“E
perché avremmo dovuto?” chiese Anna.
“Mi
hanno morsa”
Baptiste
fece frullare le labbra in una specie di pernacchia spazientita.
“Ehi, non è così drastica la cosa, sai?
Abbiamo aspettato un paio d’ore. Tu sei rimasta buona buona,
e allora abbiamo capito che sei immune anche al ceppo ematico”
La ragazza
sollevò lo sguardo, ed indagò gli occhi,
straordinariamente caramellati, di Baptiste. “Avete
pensato… che potevo essere immune?”
“E’
piuttosto raro, forse per questo pensi di possedere una caratteristica
unica. Tutti noi qui preseti siamo immuni ad entrambi i ceppi, e
così anche la metà degli abitanti della nostra
città fortificata” Rispose Andrej.
“Anche a me parve strano, a suo tempo. E non solo gli uomini:
i canidi, per esempio, sono immuni al ceppo aereo, e gli equini ad
entrambi. Felini ed uccelli invece non sono adatti ad ospitare il
virus, e quindi quando lo contraggono muoiono e basta, non subiscono
mutazioni. Nessuno sa perché, ma è una bella
notizia no?”
“Ma
ci sono certo numerosi casi anomali. A noi è capitato un
cavallo, una volta, che ha subito persino la trasformazione”
si intromise Baptiste. Forse perché stava mangiando, il suo
accento si fece più marcato.
La vettura
doveva aver curvato, ma Beatrice non ci aveva fatto caso. Ci
rifletté solo quando la luce cambiò direzione e
le ferì gli occhi. Si spostò.
“Chiudi
il finestrino”
La voce che
giunse dall’angolo non più in ombra del furgone,
dove stava Nicholas, Beatrice la riconobbe come quella che le aveva
sussurrato all’orecchio. La sua prima voce umana, dopo troppo
tempo.
Andrej
borbottò qualcosa in russo e fece cenno ad Anna di girare la
manovella per alzare il vetro.
Il fascio di
luce che aveva colpito Nicholas fu sufficiente a lasciar intravedere il
suo viso: così bianco da sembrare trasparente, e le labbra
livide che non sorridevano più. I capelli
d’argento gli dondolavano sugli occhi come braccia morte. Con
una mano cercava di proteggersi il volto. Dove prima lo aveva colpito
la lama di luce adesso figurava una ferita, un segno di bruciatura.
Beatrice
sentì le dita diventare rigide e perdere la presa sul
cucchiaio. Lo sentì cadere in terra, un tintinnio di
plastica.
La pelle
bianca, la mancanza d’appetito, l’esagerata
reazione agli ultravioletti.
Era uno di
loro.
Uno degli
abomini di Cripping.
Ma come
poteva essere? Era senziente, e parlava. Lo tenevano lì con
loro come se niente fosse. L’aveva protetta.
Lasciò
cadere a terra il piatto della colazione, ormai vuoto, e si
rannicchiò istintivamente nel punto più luminoso
del furgone.
Eppure quei
mostri non avevano capelli, e i loro occhi erano inespressivi. Invece i
suoi erano penetranti come lame di coltello.
E
così, anche se si rendeva conto che non poteva essere uno di
loro, Beatrice urlò di terrore, e cercò di
fuggire, ma non c’erano vie di fuga. E tutto prese a girare.
Anna si
slacciò al cintura. “Va tutto bene,
calmati!” passò dietro, nel vano del furgone,
cercando di calmarla. “Non devi avere paura!”
Ma Beatrice
lo sentiva schizzare nelle vene, quell’istinto che ormai,
dopo cinque anni, si era impossessato di lei. Fuggire, salvarsi.
Preservare la propria esistenza. Gridò con quanto fiato
aveva in gola, fino a farsi male. Anna l’afferrò.
In quel
momento Beatrice si sentì in trappola. Non poteva scappare.
Uno scarafaggio. Uno scarafaggio che sa di dover morire. Il suo corpo
si irrigidì, trattenne il fiato. Sentiva le mani di Anna
sulle sue braccia che la imprigionavano.
Poi, altre
mani, più fredde, gelide, si accostarono al suo viso. E
quella voce che l’aveva salvata.
“Va
tutto bene. Non ti faccio del male”
Beatrice
rimase immobile. Aspettava qualcosa. Aspettava di vivere, o di morire,
non lo sapeva. Ma in quel furgone non si muoveva nulla, tranne i
feticci dello specchietto retrovisore che tintinnavano appena
colpendosi tra di loro.
Quante
lacrime aveva pianto? Quanto erano lontane le risate della gente, i
clacson delle macchine, il rumore di passi sul marciapiede?
È possibile contare i raggi di luce? Vale la pena di vivere
per poter percepire ancora quel senso di bello e meraviglia? Un
paesaggio, una canzone, il cielo di notte con tutte quelle stelle,
può valere la pena d’essere scarafaggi per poter
guardare il cielo di notte con tutte le stelle come aghi di luce nel
vuoto? Piangere di gioia, o per la bellezza, valeva la pena vendere la
propria dignità alla sopravvivenza?
Quelle mani
erano gelate, ma la voce era limpida e senza brutture.
Beatrice
sentì le gambe cedere, e il suo corpo prese a tremare
incontrollabilmente. Nicholas si chinò su di lei.
“Guardami.
Non ti faccio del male. Non ti sto facendo del male. Avanti,
guardami”
Solo qualche
ora prima aveva deciso di morire, e ora era pronta a lottare per
sopravvivere. Ma come poteva lottare? Non poteva fare nulla contro
quella presa invincibile e ghiacciata come la pelle di un cadavere. Non
voleva morire.
“Avanti,
guardami”
Era un voce
così bella, così dolce.
Come poteva
una di quelle creature possedere una voce così armoniosa?
Come poteva un uomo che possedeva una voce così armoniosa
essere in grado di uccidere?
E
così Beatrice cercò di ritrovare sé
stessa e con uno sforzo titanico si costrinse a fare ciò che
la voce le aveva ordinato. Lo guardò.
Lì,
di fronte a lei, non c’era un mostro. Non c’era un
corpo divorato dal morbo. C’erano solo quegli occhi verdi
profondi come l’universo. Tutto il terrore scomparve
all’improvviso.
Non la stava
aggredendo. Non le aveva fatto del male. L’aveva protetta,
l’aveva salvata. E quello sguardo, e la sua espressione, e il
modo in cui le teneva il viso tra le mani. Non c’era nulla di
cui aver paura.
Nicholas
continuò a guardarla ancora qualche istante, poi
allentò la presa e lasciò scivolare le mani lungo
le braccia della ragazza.
“Va
meglio?” le chiese.
Beatrice
annuì lentamente.
“Bene”
Concludendo
così il discorso si allontanò da lei e
tornò di nuovo nel suo angolo in ombra, passando appena le
dita sulla larga ferita che gli si era aperta nel braccio quando era
entrato nel fascio di luce per stringere Beatrice.
Anna
provò a sfiorare la ragazza.
“Vuoi
che ci fermiamo un attimo? Possiamo scendere per prendere un
po’ d’aria”
Beatrice
annuì di nuovo, sempre senza staccare gli occhi da Nicholas,
che si era seduto nella posizione di prima e che rimaneva perfettamente
immobile nel buio a ricambiare il suo sguardo.
Quando le
porte del furgone si aprirono sembrò che tutta la luce del
mondo si riversasse nella vettura e li investisse. Nicholas si era
avvolto dentro una coperta scura e rimaneva impassibile nel suo angolo,
Anna aveva imbracciato un fucile d’assalto sgangherato e si
era appostata sulla porta. Controllò che non ci fossero
pericoli all’esterno, poi diede il permesso di scendere.
Andrej prese Beatrice per un braccio, con gentilezza, e la condusse
sotto i raggi del sole.
Tirava un
vento leggero che le scompigliò i capelli castani, e
c’era odore di resina. Stavano percorrendo una strada stretta
affiancata da file di alberi, forse dei pini. Di fronte a loro, a pochi
metri, sorgeva una piccola casa diroccata, solitaria tra
l’erba alta, con le finestre inchiodate con assi di legno
marcio mezzo sfondate, la porta era stata scardinata e ridotta a pezzi.
Sul muro in mattoni anneriti c’era una scritta rossa
schiarita dal sole e dal tempo:
Quarantena.
Beatrice
fece un respiro profondo, cercando di assaporare quell’odore
così particolare e di fissarlo nella memoria. Il cielo era
chiaro e azzurro, senza nuvole. Erano i primi giorni di primavera, e il
sole era tiepido sulla sua pelle.
Andrej le si
avvicinò di nuovo, con le mani dietro la schiena; era
piuttosto alto.
“Mi
dispiace per quello che è successo nel furgone” le
disse. “Forse avremmo dovuto spiegartelo prima…
comunque non hai nulla da temere da lui”
Beatrice
alzò lo sguardo verso Andrej.
“Lo
so”
Risalirono
sul furgone dopo una ventina di minuti. Anche se erano in pieno giorno
non era saggio sostare troppo a lungo in una zona circondata da alberi.
Appena
richiusero tutte le portiere Nicholas si tolse la coperta e la
lanciò attraverso il furgone con aria infastidita. Baptiste
sbuffò.
“Ti
gira male, Nick?”
“No”
Il francese
rise. “Come vuoi tu”
Beatrice
raccolse la coperta che Nicholas aveva tirato a terra. Si sedette
vicino a lui, senza chiedergli il permesso, e se la poggiò
sulle gambe.
“Scusa
per prima” gli disse, dopo un po’.
“Di
cosa?”
“Non
volevo offenderti” la voce della ragazza aveva cominciato a
schiarirsi, dopo anni di raucedine dovuta al silenzio.
“Non
mi hai offeso”
“Sei
stato tu a proteggermi ieri notte”
Nicholas la
guardò inarcando le sopracciglia. Non capiva cosa volesse
esattamente da lui quella ragazza.
“Sì”
“Grazie”
“Dovere”
Beatrice lo
esaminò con maggiore attenzione. Nonostante stesse seduto
non sembrava essere molto alto, e non dimostrava che una ventina
d’anni. Aveva una camicia un po’ troppo grande per
lui, bianca e sporca, con la manica destra scurita da una grande
chiazza di sangue rappreso. I jeans invece erano della taglia giusta,
ma anche questi erano piuttosto sporchi e macchiati di sangue e terra.
Infine Beatrice fece un piccolo sorriso quando si accorse che portava
un paio di all star nere distrutte dall’usura e ingrigite
dalla polvere. I lacci avevano preso uno strano colore giallastro.
“Posso
restare qui?”
“Come
vuoi”
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Buonasera a
tutti! Sarà per via della sezione piuttosto trascurata o
della mancanza d’interesse da parte dei lettori, questa
storia non viene letta molto e non riceve recensioni, quindi avevo
perso un po’ la voglia di scriverla, nonostante a me piacesse
molto. Poi, ieri mi sono accorta che era stata inserita da qualcuno tra
i preferiti e ho fatto un salto di gioia! Allora a qualcuno
è piaciuta! Così mi sono rimessa a scrivere e ho
finito subito il secondo capitolo. Mi piace come sta venendo su la
storia, e Beatrice è un bel personaggio, anche se per ora
è rimasta per la maggior parte del tempo in una specie di
stato catatonico. Beh, come biasimarla? Poveraccia! Comunque,
continuate a leggere e commentate, mi raccomando! Arrivederci!
(proverò a postare il terzo capitolo entro un paio di
settimane)
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