L’ULTIMA VOLTA CHE LA
VIDI
L’ultima volta che la vidi mi consegnò
un bacio per regalo. Un bacio distratto, da affidare al vento, alla
memoria ed alle parole che non avrei mai detto. Ed io quel bacio lo
conservo tuttora, eterno ed immutato come sempre, senza alcun bisogno
di naftalina lo tengo riposto nella mente. Certe parole non si scordano
mai, e vagano eteree negli spazi aerei solcati da scie bianche. Altre
parole, invece, inebetite dal disincagliarsi dei ricordi dal cuore,
cedono sotto le fitte pugnalate inferte dal tempo e si dileguano come
la brina al mattino quando sorge il sole. Infine ci sono i baci. I baci
sono parole in tutto e per tutto uguali alle altre, solo che hanno il
dono della concretezza, del contatto fisico. Anzi, a dire il vero sono
parole ancora più dirette, meno accondiscendi ai verbi ed al
linguaggio usato quotidianamente. I baci sono parole che non parlano,
ma che rappresentano al contempo la via più breve per
giungere al cuore. Ed io, quel bacio che ancora conservo, me lo sono
legato al cuore, e da lì non lo toglierò mai
più.
Il mio cuore a volte ne soffre, e si sente stritolato da quel ricordo
trasmesso via labbra. Ma non posso farci nulla. È una
maledizione che mi perseguiterà per sempre. Me lo sono
cercato, ed alle condanne sfuggono solo i vigliacchi che hanno paura
del boia.
Così, a distanza d’anni, ti ricordo ancora: un
livido sapore di orgiastica catarsi mi pervade la bocca.
Eri la più bella di tutte: ogni volta che te lo dicevo tu
sorridevi ad abbassavi gli occhi, facevi le spallucce e mi
contraddicevi con estrema pudicizia. Eppure lo pensavo davvero,
perché non è tanto l’estetica a contare
nelle persone, quanto il loro animo. E la tua anima era trasparente,
sagoma arcuata e tendente all’infinito; un asintoto che mi
lambiva il cuore, già legato a te.
E mentre passavamo insieme i pomeriggi più belli di una
vita, quelli che colorano i vent’anni, io – senza
neppure accorgermene – ti stavo inglobando a me lentamente,
facendoti diventare la mia seconda pelle. C’è
gente che ha mille piste da seguire, invischiata negli assurdi giochi
che riguardano l’amore: io invece avevo solo te, come un
chiodo fisso a cui appendere inermi le pagine del calendario dei miei
giorni che sarebbero venuti.
Lo so che dopo tutto questo tempo ripensare a te non può che
farmi male. Lo so bene che i ricordi sono ospiti infedeli della
memoria, pronti a colpirti alle palle appena paventi anche il
più minimo cedimento. Però io non sono in grado
di scordarti, legato come sono a te con questo doppio fil rouge che
ogni giorno che passa sembra sempre di più essere un amo
infilzato nel mio cuore malato.
Il tuo ricordo è la mia droga, e come i cocainomani
inseguono convulsamente piste di polvere bianca, così la mia
fantasia immancabilmente ritorna da te. Torna a te per chiederti scusa
se in passato tra di noi ci fu qualche attrito, qualche lievissima
incrinatura in un rapporto unico. Dopotutto, però, ne siamo
sempre usciti più forti di prima, rinvigoriti dalle piccole
incomprensioni quotidiane che spargono il sale sulla vita.
Ancora me la ricordo come fosse oggi quella volta in cui mi desti uno
schiaffo, implorandomi di lasciarti in pace. Dicevi che avresti voluto
solo dimenticarmi, non vedermi mai più. Più ci
ripenso e più mi viene da sorridere: che
ingenuità si leggeva nei tuoi occhi gonfi di lacrime. Tu per
me eri un libro aperto, e non c’era dubbio alcuno sul fatto
che tu mentissi. Mi amavi troppo per parlare sul serio. E infatti si
trattò solo di un momento estemporaneo, un fugace passaggio
di nuvole cariche di pioggia su noi due. Ma poi tutto tornò
come prima.
Quante volte avremo litigato? Quante volte ci saremo lasciati per poi
ritornare sempre assieme? Dieci? Venti? Cento volte? Non so dire con
certezza. Sta di fatto che tu non mi avresti mai potuto abbandonare sul
serio. E neanche io avrei potuto mai farlo. Questo perché ci
siamo sempre amati davvero, autenticamente: indissolubilmente legati
l’uno all’altro.
Poi arrivò quel giorno maledetto, in cui tu mi regalasti
quel bacio. L’ultimo bacio.
Per l’ennesima volta avevi deciso di fare la bambina: volevi
lasciarmi. Lo so per certo che sarebbe stata una delle solite scenate e
che si sarebbe poi risolta come sempre in una riappacificazione. Ma io
volli stare al gioco. E così quando tu, sotto la pioggia, mi
gridavi che quelle che rigavano le tue gote non erano gocce
d’acqua piovana ma lacrime, e mi maledicevi come causa di
tutti i tuoi mali, io stetti al gioco e non ci misi molto a
genuflettermi su una pozzanghera per chiederti scusa. Ma tu non volevi
cedere. Dicevi che quella sarebbe stata davvero l’ultima
volta che ci saremmo visti, giurando su tua madre che stavolta non
saresti tornata sui tuoi passi. Mi urlavi che eri stanca di me, della
mia ossessione per te. Insinuavi che ti perseguitavo.
Beh, se amare una persona più di se stessi vuol dire
perseguitare, allora sì, mi dichiaro colpevole. Ma sapevi
benissimo anche te che io non ti perseguitavo. Io volevo soltanto
assecondare la nostra natura androgina, che ci voleva – e ci
vuole tuttora – legati l’uno all’altro.
Le tue parole di allora oggi sono solo piste audio occultate dal tempo
e dalle nuove parole d’amore che io vi ho registrato sopra.
Ti perdono per quelle frasi che so che hai pronunciato senza prima
sentirtele vive dentro.
E mentre io, in ginocchio e fradicio dalla testa ai piedi, ti imploravo
di perdonarmi, tu ti voltasti portando la mano sinistra sulla fronte
per poi scoppiare in un feroce pianto.
Non ti avevo mai vista in quello stato: distrutta da non so che cosa,
lacerata nel profondo dell’animo. Poi ti girasti di scatto
fissandomi con occhi ricolmi di odio. Mentre a passo lento ma deciso ti
stavi avvicinando a me, io cercavo di interpretare inutilmente quel tuo
sguardo: c’era in te qualcosa di strano, di insondabile.
Infine mi giungesti addosso, ti inchinasti anche tu in quella
pozzanghera, e mi desti quel bacio che ancor oggi conservo.
“Questo è perché forse
anch’io ti ho amato all’inizio. Questo è
perché tu non possa dimenticarmi mai. Questo è
perché il mio ricordo ti possa perseguitare quando non ci
sarò più”: questo dicesti. E non
l’ho mai capito cosa voleva dire. So solo che subito dopo
aver pronunciato quelle sibilline frasi te ne andasti, ed io non ti
avrei rivista mai più.
Oggi passo i miei giorni in casa. Da solo. La domenica, per
televisione, mi fanno compagnia i rombanti motori delle motociclette
che gareggiano su piste assolate. Mi piace sentire quei rumori
così violenti, potenti ed incontrollabili: mi ricordano te,
il tuo spirito indomabile.
Ho rivisto tua madre, sai? Non si è ancora ripresa. Basta
guardarle gli occhi per capire che lo spettro della tragedia ancora
abita il suo animo: un inquilino dispettoso, prigioniero della memoria.
L’ho incontrata al mercato, in uno di quei rarissimi giorni
in cui la voglia di uscire per me è più forte
della necessità di restare immobile a pensarti. Mi
è venuta contro quasi con la bava alla bocca: sembrava
posseduta. Puntandomi contro l’indice, mi
apostrofò con parole cariche d’odio e di condanna.
Ma che ho fatto di male io se tu ti sei voluta togliere la vita
gettandoti dal settimo piano di casa?
Io cosa c’entro in tutto questo?
Tua madre è convinta che sia tutta colpa mia. Dice che ti
sentivi perseguitata, oppressa dalla mia presenza. Dice che eri stanca
di vedermi comparire sempre dovunque, come un’ombra che ti
perseguitava privandoti dell’ossigeno. Ma tu sapevi che era
amore… come lo dovrei chiamare? Lo sai che io non ti
perseguitavo. Lo sai che non è vero che tu ritornavi ogni
volta a stare con me solo perché sfinita dalle mie
persecuzioni: io e te ritornavamo assieme perché ci amavamo.
Ed era un amore autentico che ci legava. Non è vero?
Tua madre dice che sono un pazzo pericoloso: sarei io
l’assassino di sua figlia. È terribile, e mi fa
male. Male da morire. Ma mi fa più male la tua assenza, il
tuo silenzio di fronte a queste accuse e a questo fango che mi getta in
faccia tua madre.
Dice che se solo tu fossi stata in grado di resistere un po’
di più… appena un anno… giusto il
tempo necessario perché fosse approvata questa nuova legge
sullo stalking…
Ed io sarei uno stalker? Ma fatemi il piacere! Io sono solo un
disgraziato che ha perso metà del proprio cuore, e senza
neppure avere nulla in cambio se non offese ed infamia sul mio nome.
Io sono bravo con le parole: è grazie a quelle che riuscii a
conquistarla e a farla mia. Ma ora le parole a cosa servono? E poi io
non conosco neppure l’inglese. Stalking… cosa
significa?
NOTA
DELL’AUTORE:
Come avrete capito
tratta di un tema molto attuale: lo stalking.
“Il termine
stalking deriva dall’inglese to stalk, termine tecnico
utilizzato nella caccia, traducibile nell’italiano
“fare la posta” e riconducibile a un insieme di
comportamenti ripetuti e intrusivi di sorveglianza, controllo, ricerca
di contatto e comunicazione nei confronti di una vittima, infastidita
e/o preoccupata” (Dott.ssa V. Ribbeni,
http://www.overlex.com/leggiarticolo.asp?id=1511)
Lo stalking
è, in pratica, la frequentissima e – fino a poco
tempo fa – inspiegabilmente sottovalutata ipotesi di
persecuzione attuata di solito da un maschio nei confronti di una
femmina. Molto spesso si verifica fra ex: lui (parlo al maschile
perché la casistica insegna che i persecutori sono nella
stramaggioranza dei casi dei maschi) non accetta che la storia con lei
si sia interrotta, e ostinatamente (ed in maniera ossessiva e
maniacale) la perseguita, spiandola e presentandosi innanzi a lei
dappertutto.
Da pochissimi mesi
abbiamo finalmente una legge che sanziona questo orribile reato per
quel che effettivamente è: questa, a mio avviso,
è una grande conquista civile.
Nella mia storia ho
voluto assumere il punto di vista del persecutore perché mi
pare una scelta abbastanza originale: sarebbe stato banale ricorrere al
punto di vista di lei (la perseguitata). Invece, con questo espediente,
ho voluto fare in modo che emergesse tutta la “non
accettazione” del persecutore, il quale, come quando ancora
lei era in vita non capiva che avrebbe dovuto lasciarla stare,
così anche dopo che è morta continua a non
comprendere tutto il male che le ha fatto spingendola fino al gesto
estremo dal quale non c’è ritorno.
L’ossessività e la follia del
narratore-protagonista vuole mostrare l’incapacità
di questi stalkers di concepire la vita della propria vittima scissa
dalla propria. E tutto ciò – permettetemi di dirlo
– fa paura. Sembra quasi che sia lui il disgraziato da dover
biasimare, ed invece…
La narrazione si apre e
si chiude in maniera “imparziale” (se
così si può dire…): cioè lo
stalker-narratore parla della sua vittima in terza persona, mentre, per
tutto il resto centrale del racconto, la narrazione è una
specie di “dialogo senza risposta” con la propria
“amata”-vittima. Questa scelta è voluta
affinché si potesse rendere evidente al lettore la malattia
che assedia la mente del protagonista, che non riesce a capire tutto il
male di cui si è fatto portatore né quando
emotivamente si rivolge direttamente alla sua
“amata”, né quando cerca in maniera
oggettiva di analizzare le cose.
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