Piccola mappa
per facilitare la lettura:
Questa
storia non è propriamente un’AU, ma una What if?
Ovvero, la storia è
esattamente quella del manga dall’inizio alla fine ed
è in quel mondo con la
differenza che nel Team 7 non c’è mai stata
Sakura.
Secondo
la
mitologia greca Ogygia era l’isola della ninfa Calypso, lei
era imprigionata lì
e non poteva scappare. Quando Ulisse naufragò in
quell’isola la dea se ne
innamorò e lo trattenne per sette anni –se non
sbaglio – finché non fu costretto
a lasciarlo andare. In questa storia io ho visto un’analogia
con Sakura. Nel
senso, lei nella prima serie ha tentato di trattenere Sasuke con il suo
solo
amore, ma alla fine questi è andato lo stesso dalla sua
Penelope (ovvero la
vendetta).
In
questa
storia Sakura è Calypso, la ninfa di Ogygia, e non
è mai comparsa nella storia
canonica. In un momento imprecisato della seconda seria
–probabilmente dopo che
Sasuke ha ucciso Orochimaru – per qualche ragione naufraga
anche lui ad Ogygia
dove Sakura/Calypso lo soccorre e l’aiuta. Il resto, dovete
leggerlo.
Spero
che
la spiegazione sia chiara.
OGYGIA
Nessuno
trova quest’isola due volte
**
“She dreams for love
Bright lighst, big city
He lives to run”
(Thirty seconds to Mars – Bright
Lights)
Il
sole non c’è, e nemmeno la
luna. I due astri sono stati rapiti o forse nascosti da pennellate
pesanti di
grigio. Questo è il colore del mondo attorno a lui: grigio.
Non
si può capire se sia giorno o
notte, non un misero indizio può fargli capire cosa sia
quella landa desolata
che davanti a lui si apre sconfinata, infinita in un modo che quasi
mette
paura. La sua immensità ti schiaccia perché
lì ti rendi conto di essere
piccolo, fragile, inutile all’universo.
Eppure,
contro ogni logica,
Sasuke non ha paura. Non sa dove sia, che giorno sia, quanti anni
abbia, come
ci sia finito lì, perché, quando, non sa nemmeno
di che colore siano i suoi
occhi; lui non sa niente. Non sa nulla e non ha paura, ha solo un
brivido di
aspettativa. Non sa cosa sta per accadere ma è pronto ad
accoglierla.
La
terra è fredda e bagnata e
fangosa come se avesse piovuto a lungo, eppure non ricorda la
sensazione della
pioggia che picchietta sulla pelle. Forse, più
semplicemente, quella terra ha
sempre grondato acqua come un animale ferito e sanguinante. Forse,
ancora più
semplicemente, certe cose non hanno bisogno di una spiegazione. Oltre
quella
terra scura, bagnata, fredda, immensa non c’è
altro.
C’è
solo lui.
E
quella consapevolezza lo svuota
da ogni emozione: è solo. Sono andati via tutti,
è rimasto solo lui. Ma tutti
chi? E perché sono andati? Può ancora
raggiungerli?
Inizia
a correre, il fango che
pesta fa un rumore bagnato e scivoloso, cambia direzione, corre
più forte e
grida ma in quella terra infinita non cambia nulla e sembra che stia
correndo
sempre nello stesso punto. Ovunque si volti vede lo stesso identico
paesaggio
nero di prima come se nulla possa cambiare per quanto affannosamente
cerchi il
contrario. È come se tra la terra e il cielo vi
fosse il nulla e lui è finito
proprio in mezzo, nel luogo dove non scorre nemmeno il tempo.
Non
c’è nemmeno il vento.
Cade
a terra e si distende
sporcandosi di terra umida che
gli bagna
il volto, non ha corso molto ma si sente stanchissimo. E vuoto.
Poi
nel profondo di quell’empietà
inizia a ribollire uno strano sentimento, quello che sta alla base di
ogni cosa
e che cresce man mano che guarda quel non-cielo disteso sulla
non-terra. È
odio, un odio sconfinato tanto quanto quella valle e privo di limiti
che scorre
nelle sue vene come un veleno che consuma lentamente la sua vittima.
È un
lampo, una consapevolezza improvvisa che in realtà
è sempre stata sopita dentro
di lui per tutto il tempo. Una cosa primordiale che gli è
stata trasmessa al
sicuro nel ventre materno, un odio che ha succhiato dai seni della
vita. Un
odio particolare, vicinissimo all’amore e per questo ancor
più distruttivo.
Odia
Itachi.
Chi
sia Itachi e perché lo odi
così tanto non riesce a ricordarlo. Sa solo che è
giusto così, sa solo che deve
ricominciare a correre in quella valle per raggiungerlo e serrare le
sue dita
sul collo cereo di colui che odia. Odia Itachi. Odia Itachi.
“Sas’ke”
Una
voce risuona in quella valle
mortale e si alza di scatto sentendo un’altra presenza,
un’altra persona
incatenata come lui in quel luogo di violenza e silenzio. È
lontano,
lontanissimo, sembra nell’altra parte del mondo,
completamente opposto a lui ma
riesce comunque a vederne ogni dettagli come se fosse vicino a lui.
Come se
fosse il suo specchio. Eppure Sasuke è certo di non avere
gli occhi così
innaturalmente blu, i capelli biondi e un volto bambinesco e graffiato.
Lo sta
guardando e sorride sereno come se non gli importasse di trovarsi in
una terra
gelida che trasuda odio e oscurità. Il fatto di poter
guardare Sasuke sembra
bastargli e il suo sorriso gli dice che gli basterebbe anche se fossero
all’inferno.
Non
riesce a capire se odia anche
lui, non riesce nemmeno a ricordare il suo nome e questo in qualche
modo fa
male perché sente che è importante. È
importante davvero. E forse deve
ucciderlo.
“Torna
indietro, Sas’ke” dice
invece il ragazzo biondo tenendo la mano verso di lui.
È
lontanissimo, non dovrebbe
sentire così chiaramente la sua voce e non dovrebbe nemmeno
riuscire a
distinguere ogni sfumatura di celeste in quegli occhi grandi e ingenui.
E una
persona con un sorriso del genere in un posto così orribile
non dovrebbe
nemmeno esistere. Non lo vede che c’è solo grigio,
erba, infinito e nulla? Non
vede che lì c’è solo odio?
“Noi
due saremo amici per sempre”
continua l’altro ragazzo e ha il tono delle promesse
“Noi due siamo amici”
E
Sasuke serra gli occhi ormai
stanco, consumato dai dubbi e da quell’odio vorace che
continua a infiammargli
il petto e che non sembra intenzionato a placarsi.
Continuerà a divampare
finché nella sua distruzione non avrà portato
anche sé stesso. E non sa perché,
non sa nulla.
Sa
soltanto che è solo.
Sa
soltanto che odia Itachi.
Sa
soltanto che quel ragazzo è il
suo solo e unico amico.
Sa
solo questo.
“C'è
solo questo” ripete
nell’oscurità dietro le palpebre serrate mentre
sente la sua coscienza
scivolare via come in un sogno.
*
Si
svegliò con la sensazione di star bruciando vivo, la pelle
scottava e la sua
gola era secca come sabbia. Pensò: sono morto. La terra
piena di odia e rancore
era solo l’anticamera dell’Inferno. Poi scorse un
lembo di cielo azzurro, così
chiaro da ferire lo sguardo, e degli alberi. C’era profumo
del ginepro, del
cedro di altre piante, sentiva il gorgogliare delle fontane e il
cinguettare degli
uccelli. Udì anche il suono della risacca e delle onde che
lambiscono gli
scogli. Sbatté gli occhi più volte cercando di
mettere a fuoco dei
particolari ma davanti a lui continuava
vorticare quel caleidoscopio di colori. Cercò di mettersi a
sedere, ma sentì i
muscoli mancare la forza.
“Resta
giù” ordinò la voce di una ragazza da
qualche parte alle sue spalle “Sei ancora
troppo debole”
Una
pezza fresca gli fu posata sulla fronte, e qualcosa di umido sulle
labbra
secche. Era un liquido dolce che ricordava il miele e tante altre cose
belle.
Poi iniziò a cantare e il dolore scomparve, le sue palpebre
si appesantirono,
sembrava una magia.
“Chi..?”
gracidò inclinando la testa.
“Shh,
riposa” rispose
lei. E poi il buio tornò
a inghiottirlo.
*
Quando
si risvegliò di nuovo scoprì di essere in una
grotta e la stanchezza era
sparita. Fissò il soffitto dove stavano incartonati
cristalli dai colori
candidi e violetti perplesso, poi ruotò la testa per fissare
il resto
dell’ambiente. Era disteso su un comodo letto fra cuscini di
piume e stoffe
morbide e cangianti e la grotta sembrava essere stata adibita ad
abitazione. A
ridosso di una parete frastagliata stavano un telaio e
un’arpa, mentre lungo
un’altra si stagliavano scaffali pieni di conserve e dal
soffitto pendevano
erbe aromatiche ad assicare che spandevano odori contrastanti
nell’ambiente.
Pensò che sua madre sarebbe stata in grado di distinguerle
tutte, rosmarino,
timo, basilico...
C’era
anche un caminetto ricavato in una rientranza nella roccia dove
scoppiettava un
placido focolare.
Cercò
di mettersi a sedere ignorando il pulsante mal di testa che gli
stringeva le
tempie in una morsa dolorosa e si guardò il corpo sicuro di
vederlo arrossato a
martoriato da orribili cicatrici di numerose battaglie. Invece la sua
pelle era
liscia come quella di un bambino e pallida, per nulla arrossata;
indossava una
maglietta di cotone a maniche corte
bianca e dei pantaloni del medesimo colore e materiale
tenuti stretti
alla vita con un nastro di corda. Non erano suoi e aveva i piedi nudi.
Pur
con una certa difficoltà si alzò, il pavimento
era gelido e la testa gli diede
qualche capogiro, strizzò più volte gli occhi. Si
voltò e notò uno specchio di
bronzo levigato incastonato nella roccia; si avvicinò
riconoscendo a malapena
il riflesso del suo volto. Gli zigomi spigolosi e le guance incavate
davano
l’idea che avesse perso dieci chili, i capelli neri erano
scompigliati sulla
sua testa come piume di un corvo arruffato, delle occhiaie violacee gli
coloravano la pelle sotto gli occhi neri e una leggera barba scura gli
ombrava
il mento. Ma la cosa più spaventosa era il suo sguardo,
quello di un pazzo, di
un naufrago che ha visto la morte in faccia.
Si
allontanò dallo specchio incapace di sottostare alla propria
vista e puntò
verso la luce del giorno alla sua sinistra, verso l’uscita.
La grotta si apriva
su un prato verde alla cui sinistra si stagliava un boschetto di
piccoli cedri
e alla sua destra un coloratissimo giardino fiorito. Quattro fontane
gorgogliavano sul prato verde con l’acqua che zampillava dai
satiri in stile
classico, per nulla orientale. Davanti a lui un sentiero scivolava fra
l’erba
tagliata corta verso una spiaggia rocciosa.
Una
ragazza stava seduta sulla sabbia calda sotto il sole, doveva essere la
persona
che lo aveva salvato. La raggiunse lentamente con le gambe che ancora
tremavano
ad ogni passo, quando il sentiero compatto lasciò posto alla
sabbia dovette
fare attenzione a mantenere l’equilibrio. Quando
rialzò gli occhi la ragazza si
era voltata verso di lui. Aveva gli occhi a mandarla di un verde
vivissimo,
come lo smeraldo, incorniciati da lunghe ciglia chiare che le
sfioravano le
guance pulite quando sbatteva le palpebre; i capelli erano di un
insolito rosa
pastello tagliati corti, poco sopra le spalle, che le scivolavano sulla
fronte
larga come piccoli petali di ciliegio. Era difficile stabilire la sua
età,
quindici, sedici, vent’anni? Era uno di quei visi che
sembrano essere immuni
allo scorrere del tempo. Aveva un fisico snello e androgino che si
intravedeva
sotto la tunica bianca, nello stile greco, senza maniche e una cintura
in cuoio
a stringerle la vita sottilissima. Si asciugò gli occhi come
se avesse appena
pianto.
“Il
dormiente si è svegliato” esordì con un
sorriso sforzato, aveva una dolce e
particolare incrinatura della voce, come se stesse cantilenando una
ninna-nanna.
“Chi
sei?” domandò con la voce roca dopo il lungo sonno.
“Sono
Sakura”
“Per
quanto tempo sono rimasto svenuto?”
Lo
sguardo di Sakura si accigliò, una piccola ruga si
formò fra le sopracciglia
“Tempo” rifletté come se fosse una
parola mai sentita “Il tempo scorre in modo
strano in quest’isola. Onestamente, non lo so,
Sasuke”
Il
moro si fece vigile. “Come conosci il mio nome?”
Scrollò
le spalle continuando a guardarlo con quella dolce malinconia negli
occhi
verdi. “Parli nel sonno. Chi sono Itachi e Naruto?”
domandò invece.
Non
sapeva dirlo con certezza, era sicurissimo di conoscerli e sapeva che
erano
anche importanti –in modi simili e diversi – ma
mentre guardava quel viso senza
tempo le parole gli sfuggivano dalla lingua e la mente gli si
annebbiava come
se ricordare non fosse importante. “Mio fratello e... il mio
unico amico”
rammentò a fatico come se stesse acciuffando brandelli di
sogno “Come sono
arrivato qui? Dove sono?”
Sakura
lo guardò indecifrabile, poi allungò una mano
verso il ragazzo sfiora dogli il
viso e poi gli scostò i ciuffi neri che ricadevano sulla
fronte. Si scostò,
nervoso, e quello parve ferire la ragazza.
“Scusami”
mormorò ritraendo la mano al petto “Mi sono
abituata a prendermi cura di te”
sospirò “Sei caduto dal cielo, ti hanno portato
qui le onde del mare. Non so
come tu sia sopravvissuto. Ti trovi ad Ogygia, adesso”
“Ogygia”
ripeté cercando di collegare le informazioni “Dove
si trova? È vicina alla
Terra del Fuoco?”
Mentre
lo chiedeva Sakura si era alzata, rise brevemente con lo sguardo
puntato sul
mare scintillante. “Ogygia è vicina a qualunque
angolo della terra. È un isola
fantasma, esiste ovunque ma allo stesso tempo non
c’è in nessun luogo”
Aveva
un bel sorriso, diventava molto carina ma anche tanto triste. Era uno
strano
controsenso.
“Devo
andare” disse con decisione, quello lo sapeva molto bene.
Doveva fare qualcosa,
era importante. Doveva andarsene.
Sakura
scosse la testa sconsolata e si incamminò verso il sentiero,
cercò di starle
dietro ma ogni passo era difficile e pesante.
“Devo
andare” ripeté e lei ancora scosse la testa.
“Non
ora, devi riposare” si voltò a guardarlo. Aveva
gli occhi liquidi. “Sei stanco”
E
appena lo disse sentì le ginocchia cedergli e sarebbe caduto
a terra se Sakura
prontamente non lo avesse stretto. Non capiva se dispetto alle
apparenze era
davvero molto forte o solo lui troppo provato.
“Riposa”
gli ordinò con voce dolce, materna, accarezzandogli i
capelli. E lui si
addormentò aggrappandosi al suono ridente della risacca e al
profumo fiorito
dei capelli di Sakura.
*
La
terza volta che si risvegliò era ancora nella grotta ed era
notte, una tiepida
arietta estiva spirava da fuori. Non sapeva dire se fosse la stessa
notte o se
ne fossero passate molte mentre dormiva una dopo l’altra.
Lentamente
si alzò abbandonando la pancia della grotta, il cielo blu
era privo di nuvole e
pieno di stelle. Riusciva a riconoscere tutte le costellazioni che suo
fratello
gli aveva insegnato; in quel momento tutti i ricordi si erano
incastrati al
loro posto e capiva tutto chiaramente. Doveva uccidere Itachi, era
quella la
sua ambizione. Doveva assolutamente abbandonare quell’isola
per eliminare
Itachi esattamente come lui aveva distrutto la loro famiglia. E poi?
Poi non lo
sapeva, tornare da Naruto, alla Foglia, pareva una buona idea ma ormai
era un
ninja macchiato di tradimento e non sarebbe mai stato accolto a braccia
aperte.
Una volta ucciso Itachi, si sarebbe lasciato morire divorato dal
proprio odio.
Ricordò
il sogno e Naruto che gli tendeva la mano.
Saremo amici per sempre. Era una bella bugia alla quale gli
sarebbe
piaciuto credere.
Devo
uccidere Itachi, mi dispiace.
Mosse
qualche passo per il sentiero deciso a trovare un modo per abbandonare
quell’isola.
“Cosa
stai facendo?”
Sussultò
quando sentì la voce di Sakura alle sue spalle. Aveva i
capelli rosa tirati
all’indietro da un cerchietto argentato e le mani sporche di
terra umida.
“Stavo...”
sbatté le palpebre mentre vedeva quel volto pulito
avvicinarsi a lui. Nella sua
giovane vita aveva visto molte donne bellissime, ma Sakura le superava
tutte.
Era bella in una semplicità disarmante e innocente.
“Non me lo ricordo” si
accorse. Anche il dover andare via non sembrava più
importante, la sua mente si
era ancora una volta riempita di nebbia.
La
ragazza fece un sorriso gentile. “Aiutami” chiese
solo. Lo superò andando in
mezzo al giardino pieno di fiori, si accucciò su un quadrato
di terra nera
iniziando a piantare le radici di un piccolo fiore blu.
“Questo fiore lo si può piantare solo
di
notte”
La
studiò curioso. “Che cosa fa?”
“Come?”
non capì “Vive, cresce e mi regala bellezza.
C’è qualcosa di più
importante?”
Sasuke
pensò che a Konoha i fiori venivano usati dai ninja solo per
le particolarità
curative, importava solo se fossero utili o no alle missioni.
“Suppongo di no”
rispose invece non trovando come altro ribattere.
“Amo
il mio giardino” gli sussurrò fissando con
adorazione i piccoli petali dei
fiori che sbocciavano stagione dopo stagione attorno a lei. Sembrava
una regina
delle fate.
Il
moro ricordò che quando era piccolo sua madre gli
trasmetteva la stessa
sensazione quando curava il giardino, ne avevano uno piccolo e lei se
ne
prendeva cura. Non li coltivava perché fossero belli, ma
perché servivano in
cucina o ai ninja, ma era comunque amorevole quando lo faceva. Adesso
quel
giardino era insecchito e privo di colori, morto come il resto del suo
clan e
privo dell’amore di sua madre come lui.
“A
Oka-san piacerebbero molto” costatò senza
rendersene conto. Era strano, in
quell’isola riusciva a ricordarsi della sua famiglia, ma non
riusciva a
ricordare quello che c’era dopo.
“Puoi
portargliene uno, se vuoi” gli promise.
“Non
posso”
“Perché?”
“E’
morta”.
Silenzio.
Sakura sfiorò un petalo del fiore.
“Potresti
piantarlo tu, per lei. Nel vostro giardino”
“Non
posso” ripeté chiudendo gli occhi,
ricordò la terra morta e bruciata del
quartiere Uchiha gronda di sangue “Non ho più un
giardino. Non posso più
averlo” aggiunse rendendosi conto che non aveva nemmeno una
casa dove tornare.
“Che
cosa triste” costatò girandosi verso di lui,
sembrava che la cosa le
dispiacesse davvero “Sapevo che il mondo fuori fosse cambiato
dall’ultima volta
che ci sono stata, ma non immaginavo che la gente non potesse
più avere un
giardino”
“Da
quanto tempo non lasci quest’isola”
“Tempo”
ripeté indecifrabile. “Te l’ho detto, il
tempo è strano qui. Ma da molto,
troppo tempo non posso abbandonare questo luogo” si
pulì le mani sulla stoffa
bianca della tunica ellenica e si alzò, una ciocca rosa le
scivolò davanti al
volto.
Baciata
dai raggi delle stelle sembrava uno di quei fiori, era bella e luminosa
e
candida. Così innocente, il contrario di lui.
“Perché
non puoi?” le domandò avido di risposte.
Il
suo sguardo si perse lontano. “Tanto tempo fa, quando ancora
non esistevano i
ninja e una sola Dea, la Dea Coniglio, governava questa terra ci fu una
ribellione: i suoi figli tentarono di ucciderla perché era
malvagia. Mio padre
si schierò dalla parte della Dea, ma vennero sconfitti e io,
come punizione,
venni esiliata in questa terra senza possibilità di
scappare”
Sasuke
la guardò meravigliato mentre Sakura riprendeva la parola.
“Ogygia è la mia
casa, la mia terra natia. Ma è anche la mia prigione, sono
costretta in questo
luogo. Non potrò mai più vedere il mondo esterno.
È la mia punizione”
“Questo
è ingiusto!” sbottò Sasuke indignato
“Tu non sei tuo padre, non hai la sua
colpa. Solo perché siete parenti non significa che tu sia
stata dalla sua
parte”
Sakura
si fermò, poi replicò: “Io sono stata
dalla sua parte. È mio padre”
“Cosa?!
Ma hai detto che sosteneva una Dea malvagia”
Lo
sguardo verde era pieno di un dolore semplice. “Ma era la mia
famiglia” lo
disse come se bastasse quello a spiegare ogni cosa, come se fosse la
soluzione.
Pensare
a Itachi era difficile vicino a lei, ma questo non gli impediva di
ricordare
cosa aveva fatto lui alla loro famiglia. Voleva appunto ribattere ma la
rosa lo
precedette.
“Il
Bene e il Male sono il nulla davanti alla volontà dei
sentimenti umani” si girò
a guardarlo, aveva gli occhi più tristi e belli che avesse
visto.
“Che
c’è?” sbottò a disagio.
Ma
scosse la testa, poi sparì in mezzo ai fiori lasciandolo
lì sotto la luce delle
stelle.
*
Sasuke
non sapeva dire con certezza quanto tempo fosse passato, quello che
Sakura gli
aveva ripetuto era vero: il tempo lì scorreva in modo
strano. Potevano essere
passati anni come pochi giorni e lui non avrebbe saputo rendersi conto
della
differenza. In quell’isola tutto sembrava immutabile. Era un paradiso
meraviglioso ma sapeva di
doversene andare, la pressione del suo odio per Itachi cresce ogni
secondo e
sapeva che non avesse soddisfatto il suo bisogno di uccidere sarebbe
esploso.
Ne sarebbe stato succube per sempre. Ma era ancora tanto debole e non
riusciva
a stare sveglio per molto tempo prima che la debolezza gli prendesse
gli arti
facendolo dormire per molte ore. Sakura si prendeva cura di lui con
pazienza e
dolcezza senza chiedergli mai nulla in cambio. Si sentiva a disagio con
quella
ragazza, la sua timida forza gentile lo facevano sentire nervoso e
quando
spariva il suo odio per il fratello aumentava sempre di più.
Vicino alla rosa
si placcava ma tornava sempre, ad ondate, insieme ai ricordi e alla
consapevolezza che doveva andarsene da lì.
Quando
stava meglio usciva sempre nel giardino, si metteva sempre
all’ombra di qualche
albero mangiando una mela e sfogliava le figure di certi libri. Nella
grotta ne
aveva trovati tanti ma erano scritti in uno strano alfabeto elegante e
rotondo
che non conosceva e non poteva fare altro che fissare le immagini
colorate che
si alternavano con quelle parole straniere. Altre volte guardava Sakura
lavorare nel suo giardino, piantando e strappando fiori, non sembrava
spaventata all’idea di sporcarsi e questo era una cosa che
apprezzava molto. Ogni
volta che con lei iniziava l’argomento “devo
andare” sulle sue labbra compariva
un sorriso triste e gli ripeteva “non ora, sei ancora troppo
debole”.
Sasuke
aveva la sensazione che in quell’isola sarebbe rimasto
incatenato per sempre.
Iniziò
a costruire una zattera sulla spiaggia con i tronchi degli alberi
morti, Sakura
lo guardava sempre in silenzio con gli occhi un po’ umidi.
“Non
puoi andartene” gli disse, quel giorno sembrava una
ragazzina, una piccola
bambina con gli occhi tristi di una donna.
“Devo.
Questo non è il mio posto”
“Può
diventarlo. Resta, ti prego”
“Perché?
Perché dovrei restare?”
“...perché
ti amo”
Sasuke
smise di lavorare, si fissò le mani nervoso poi si
girò verso la figura vestita
di bianco. Quella mattina un leggero vento soffiava scompigliando la
chioma
chiara di Sakura e le asciugava le lacrime dal viso. “Sei
ridicola” borbottò
riprendendo a lavorare deciso a ignorarla.
“Se
restassi potrei renderti felice” balbettò lei.
“Non
ho bisogno di questo”
“Allora
di cosa? Di cosa hai bisogno?”
Sasuke
si alzò di scatto lasciando il lavoro che stava compiendo e
si girò a
fronteggiarla, era più alto di lei e i suoi occhi erano
spaventose, ribollivano
di rancore.
“Di
odio”
Sakura
si tirò indietro, tirando su con il naso. Aveva le ciglia
umide. “Questa è
l’unica cosa che non posso donarti”
*
La
prima volta che provò ad andarsene con la zattera
un’onda enorme l’abbatté e
lui fu rigettato sulla sabbia di quell’isola. Non si
scoraggiò e creò un’altra
imbarcazione. Il risultato fu il medesimo.
Sakura
non ne sembrava sorpresa e ogni volta la trovava ad aspettarlo con la
richiesta
di restare ma lui non poteva e riprendeva a costruire zattere quante il
mare le
distruggeva. Finché un giorno non esplose e si diresse
all’interno dell’isola
dove trovò Sakura tra i fiori, appena lei lo vide si
adombrò.
“Smettila!”
sputò il ragazzo contro di lei “Smettila, strega!
Lasciami andar via”
“Non
posso” ribatté debolmente “Io ti
amo!”
“Ma
io no!” replicò duro, gli occhi neri che
lanciavano saetta “Lasciami andare”
“Non
posso” rispose ancora, poi aggiunse.
“Perché non puoi lasciarti amare?”
“Io
devo uccidere Itachi!”
Scosse
la testa “No, tu vuoi lasciarti consumare
dall’odio”
Sasuke
digrignò i denti e furioso distrusse una pianta di rose,
delle spinse si
ficcarono sulla sua pelle facendolo sanguinare; negli occhi della
ragazza si
accese subito una luce di preoccupazione.
“Io
non voglio stare qui” sospirò ancora Sasuke
guardando i rivoletti di sangue
rosso scivolare lungo il suo polso “Lasciami
andare”.
*
Sasuke si rifiutava di
tornare a dormire nella
grotta e una sera fu Sakura a scendere alla spiaggia davanti al
focolare che il
moro avere acceso. Le fiamme danzavano sul suo volto illuminando gli
occhi di
un calore rossastro.
“Vattene”
le intimò ma lei non lo ascoltò.
“Perché
ti importa così tanto tornare? Ti aspettano solo dolori e
sofferenze, qui
potresti essere al sicuro”
“Perché
è quello il mio posto” replicò.
“Se
scegli di restare, diventeresti immortale” lo
informò “Diverresti insieme a me
il re di quest’isola”
“Un’isola
prigione?” domandò sarcastico “No,
preferisco essere libero in un modo di
dolore che prigioniero nel mio regno”
Sakura
davanti a quell’affermazione rimase in silenzio.
“Ti prego, resta” lo supplicò
“Non
lasciarmi sola”
Sasuke
fissò quella magra figura che per tutto quel tempo si era
presa cura di lui e,
nonostante tutto, non riuscì ad odiarla. Lo
riempì solamente di tristezza.
“Potrei
provare a renderti felice” singhiozzò ancora lei
“Ti prego, resta” lo diceva
come una cantilena.
Il
moro allungò il braccio verso le sue spalle e la strinse
contro di sé in un
goffo abbraccio e la ragazza finalmente scoppiò a piangere;
le baciò i capelli
perché era piccola e fragile e stava piangendo per colpa
sua. Ma lui non poteva
consolarla, non sapeva come si faceva.
“Potresti
venire con me” sussurrò aspirando il suo profumo
di fiori. “Potresti
abbandonare questo luogo”
Lei
scosse la testa contro il suo petto. “Non posso”
singhiozzò “La zattera ci
riporterebbe in quest’isola perché io non posso
scappare. Questa è la
maledizione”
“Troveremo
un modo” le promise “Ti porterò nel
mondo fuori e potrai piantare tu il mio
giardino”
Sakura
negava sconsolata. “Perché non puoi restare,
qui?” domandò ancora.
Sasuke
pensò a Itachi e a Naruto. C’erano tante cose
importanti che doveva fare, che l’aspettavano.
Non poteva semplicemente scappare e nascondersi lì.
“Perché
devo andare” ripeté.
Sakura
si staccò dal suo petto passando il palmo della mano sul
volto per asciugarsi
le ciglia, le lacrime scivolavano sulle sue guance come piccole stelle
cadenti.
“Sei sicuro?” gli domandò “Ti
aspettano ancora molte sofferenze e molte amarezze.
E alla fine potresti essere consumato
dall’oscurità che porti dentro, potresti
trovarti ad uccidere la tua unica luce”
Sasuke
pensò a Naruto e alla sua promessa e alla fine si rese conto
che era una cosa
che aveva sempre saputo. Alle spalle di Sakura l’alba stava
sorgendo
illuminando il cielo dello stesso colore dei suoi capelli, la sua pelle
sembrava risplendere di luce come se fosse una dea. Poteva restare
davvero lì
per sempre, sparire dalla faccia della terra, vivere con Sakura,
imparare ad
amarla e dimenticare la sua vendetta. Potevano coltivare fiore insieme,
ascoltare il suono degli uccelli e passeggiare sulla spiaggia. Niente
più
ninja. Niente più solitudine. Niente più dolore e
guerre.
“Lo
so, ma non importa. Devo andare” ripeté e
sentì che quella decisione gli
riempiva il cuore di amarezza.
Sakura
abbassò lo sguardo ma annuì, le lacrime avevano
ricominciato a sgorgare dai
suoi occhi. Dalle pieghe della tunica tirò fuori un
sacchetto di stoffa rosso.
“Sono
dei semi. Dei fiori. Promettimi che pianterai un giardino per me, va
bene?”
Lo
prose facendolo scivolare in tasca. “Te lo prometto”
“Allora
prendi la tua zattera e vai, mio amore” si alzò
rizzando la schiena nel
tentativo di mostrarsi sicura nonostante le lacrime rotolassero sulla
sua pelle
fin oltre il mento, dietro di lei le luci delle stelle si spegnevano.
“Tornerò
a prenderti” le promise alzandosi anche lui
“Tornerò indietro”
“Nessuno
trova quest’isola due volte” replicò
mestamente “Non ci rivedremo mai più”
La
cosa lo rese triste, pensò ai semi nella sua tasca.
“Diventerà il giardino più
bello del Paese del Fuoco”
Sakura
abbozzò un sorriso, poi iniziò a camminare verso
la sua casa. “Addio” pianse.
La guardò finché non sparì fra gli
alberi.
Mentre
prendeva il largo pensò a quanto il destino fosse crudele,
di come quella
piccola ragazza immortale dovesse vivere in quell’isola in
una solitudine
eterna. Quella che lui e Naruto avevano provato da sempre. Il destino
le aveva
mandato qualcuno però, lui che non poteva restare, e lei se
ne era innamorata.
Che destino crudele. Ma la cosa aveva funzionato anche in senso
inverso, per
Sasuke Sakura sarebbe restata per sempre il sua grande ‘e
se?’, avrebbe pensato
a lei per tutta la vita chiedendosi se avesse fatto la scelta giusta.
Nel
giro di pochi minuti Ogygia fu lontana all’orizzonte e ogni
emozione scomparve
nella nebbia.
“Grazie,
Sakura” sussurrò.
*
“O-i!
Teme” si sentì chiamare a gran voce. Si
girò leggermente infastidito. Naruto lo
guardava con la manica destra della felpa arrotolata fino alla spalla
mostrando
il braccio mancante.
“Dobe”
lo insultò bonariamente continuando al suo lavoro. Era
accucciato tra la terra
del vecchio giardino di Mikoto.
“Che
fai? Giardinaggio?” continuò la fastidiosa
presenza alle sue spalle. Alla fine
Sakura aveva avuto ragione su tutto, una volta tornato nella terra dei
Ninja lo
avevano aspettato molte sofferenze a rancori che lo avevano quasi
soffocato. Su
una cosa sola si era sbagliata: non aveva ucciso Naruto, anzi lo aveva
salvato.
“Mantengo
una promessa” rispose vago.
Il
biondo fece un infantile broncio perplesso mentre si piegava in avanti
e
studiava curioso il piccolo fiore rosa che stava crescendo su quel
fazzoletto
di terra.
“Che
fiore è?” domandò spiccio.
“Sakura”
“Tch’....
non dire baggianate, teme. Mica è un ciliegio quello, mi
prendi per stupido ‘tebayo?”
sbottò offeso.
Un
piccolo sorriso ironico si distese sulle labbra del moro.
“Hai ragione, ma non
credo sia importante”
“Senti
a me, tu sei proprio strano” assicurò
l’amico. Sasuke lo ignorò continuando a
guardare il piccolo fiore.
Nel
giro di qualche anno il giardino di Villa Uchiha divenne il
più bello della
Terra del Fuoco, ma l’isola, per quanto Sasuke viaggiasse,
non la ritrovò mai
più.
Ok,
ora che ho finito la storia devo dire tre cose:
La
prima: questa storia la scrissi
secoli fa un sabato sera notte dopo aver...ehm, bevuto
un pochino. Non era ubriaca, reggo troppo bene, ma ero un
po’
brilla e la mia mente idiota ha partorito questa cosa. Ovviamente, non
era
così, era una cosa molto più confusa e...
insomma, scritta da una che aveva
parecchio alcool in corpo xD quindi, sì. Ci tengo a
precisare questa cosa. Ieri
notte ne ho parlato con delle amiche e ho pensato “Perché
non riesumarla? Magari
si può fare ancora qualcosa”
Due:
e per questa mi lancerete pomodori, il SasuSaku è
la NOTP (corre ai
ripari)
No,
a parte gli scherzi, come coppia non mi piacciono e trovo che Sakura
non se lo
meriti nemmeno un po’. Sono canon
ma
non mi piace il modo in cui lo sono stati resi. Ma questo non mi vieta
di
scriverci zozzerie sopra (anche se qui di zozzerie non ci sono, ehm). Diciamo che il SS lo vedo in un
contesto molto angst come questo. Non vogliatemene male. Questo ve lo
dico
perché una volta sobria cercare di rendere la coppia
è stato difficilissimo –anche
perché da ubriaca avevo mandato letteralmente al diavolo l’IC dei personaggi –
ma nonostante questo a me Sasuke sembra un OOC
gigantesco.
Giunti
all’ultima: sempre da
brilla non mi
ero molto preoccupata dell’ambientazione (diciamo che non
l’ho proprio fatto)
ed ero partita tutta felice dal punto in cui Sasuke se ne andava senza
dare un
senso di chi, cosa, quando e
perché.
Allora oggi mi sono data da fare e mi sono aiutata tantissimo con Percy
Jackson. Nel senso: non avevo la più pallida idea di come
fosse Ogygia allora
ho usato le descrizioni di zio Rick approfittando per
l’incontro e la questione
del giardino –che personalmente trovo dolcissimo –
quindi i crediti di
quelle cosette vanno a Rick Riordan (va bene se lo dico
così, vero?)
Infine,
la canzone all’inizio è
questa
qui
Una
vostra recensione mi farebbe un sacco piacere ^^ le recensioni che
siano
critiche o negative potrebbero aiutarmi molto a migliorare.
Spero
che questa non sia l’ultima Sasusaku che scriverò.
A
presto!
Hatta
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