Buonasera
a tutti voi.
Non sono
esattamente nuova del sito, ma
mi sento come se lo fossi.
Ho un account
qui su EFP dal 2007 (e
questo spiega il mio tristissimo nome, povera me ahahah!) e sono
esattamente sette anni che non pubblico nulla. Uno straccio di nulla.
È
stato un lungo periodo difficile,
caratterizzato soprattutto dalla nascita di mia figlia, una
separazione ed un nuovo lavoro. Con tante cose, tanti pensieri per la
testa non dovrei nemmeno avere il lusso di concedermi il tempo di
dedicarmi ad una mia vecchia passione, eppure eppure... qualcosa
è
cambiato ultimamente. Perchè ho ricominciato a scrivere
proprio con
Inuyasha, mi chiedo, ma penso che galeotta fu la mia tardiva scoperta
del Final Act, l'essermi sparata un loop infinito dell'episodio 26
che coronava finalmente il mio sogno di quando ero una bambina e
seguivo le avventure di Inuyasha con attenzione febbrile, gioendo di
ogni InuyashaxKagome moment neanche fosse stata una festa. Indi
diciamocelo, cazzo!, quel bacio dell'episodio 26 mi ha fatto comunque
commuovere fino alle lacrime nonostante la mia veneranda età
che
accarezza il quarto di secolo. E questo perchè, cristo, lo
aspettavo
da più di dieci anni. E, sopra ad ogni cosa, il primo amore
non si
scorda mai ;)
Tornando a
noi, sto cercando di
scrivere qualcosa di più dolce e tenerello, ma questa mi
è uscita
così, di getto, dal cuore (e questi momenti di improvvisa
ispirazione mi mancavano così tanto da non poterlo
descrivere) e mi
son detta: perchè no? Proviamoci a battezzarci su EFP per la
seconda
volta con questa one-shot.
Vi chiedo
scusa per la qualità della
scrittura, ma, cercate di capirmi, dopo sette anni di stop devo
tornare a fare pratica T.T
Il figliol
prodigo torna all'ovile:
uccidiamo l'agnello grasso!
Vi lascio alla
shot, adesso. Grazie per
l'attezione :)
The
Bitter End
Il vento la
investiva. La pioggia fine,
quasi ghiacciata, le si infilava dispettosa nel bavero del pesante
giaccone facendola rabbrividire.
Si trascinava
dietro un fagotto che,
recalcitrante, la seguiva di malavoglia.
Quando
arrivarono alla fermata del bus,
si fermarono. Una aveva gli occhi fissi davanti a sé, lo
sguardo
stizzito; l'altra, piccola, teneva lo sguardo basso e le mani ora
libere erano impegnate a tenere premuto sulla testa il cappuccio
della sua felpa, fradicio.
Una donna le
guardò, curiosa.
La bambina la
notò e la sua presa sul
cappuccio divenne più salda, tanto che la punta delle sue
piccole
dita si fece bianca, in netto contrasto col rossore delle sue mani
infreddolite. Lo teneva talmente in tensione che all'improvviso,
colpa delle ditina bagnate, la stoffa le scivolò dalle mani
ed il
lembo che le copriva la nuca schizzò all'indietro
scoprendole il
capo.
La donna mal
soffocò un gemito
inorridito: nascoste in mezzo alla zazzera corvina della bambina,
svettavano due piccole orecchie canine di pelo scuro non del tutto
ritte.
La piccina,
conscia dello sbaglio
appena commesso, si sbrigò a ricoprire il tutto e la
guardò atona
con i suoi occhi vispi: due pozze dorate malcelavano una tristezza
vecchia, lunga anni.
La madre della
bambina si accorse di
tutto: fissò la donna, poi la piccola.
Le mise un
braccio intorno alle spalle
e la avvicinò a sé, lo sguardo incattivito figlio
di anni di
angherie e sguardi maledetti.
<<
Stai qui vicino, Eiko. >>,
sibilò allora fra i denti, la voce gutturale più
simile ad un
ringhio.
La presa che
esercitava sulle braccia
della bambina era ferrea, ma sapeva bene di non farle alcun male.
L'autobus
arrivò. Le vecchie porte
automatiche si aprirono con un fastidioso cigolio e le due si
affrettarono a salire prendendo posto in fondo, lontano da tutti.
Una smorfia
deturpò i lineamenti tesi
della donna quando si accorse che l'altra signora, pallida, con le
mani a serrare la cinghia della borsa a tracolla, era rimasta sotto
la tettoia della fermata preferendo non condividere il viaggio con
loro.
Si
abbandonò sul sedile dell'autobus
con un gesto stizzito; con la coda dell'occhio osservò la
bambina
incassare la testa fra le spalle, allentare leggermente la presa sul
cappuccio.
La pioggia
incessante, tramutatasi in
nevischio, grattava contro i finestrini sporchi del mezzo confondendo
le immagini, distorcendo le luci della città.
A Kagome
piaceva concedersi il lusso di
piangere quando pioveva. La pioggia camuffava le lacrime, sembrava
celare un po' il dolore.
Ormai vomitava
rabbia da ogni poro e la
piccola Eiko lo aveva capito. Allungò una mano e la
posò su quelle
della donna, strette in una morsa sui pantaloni fradici.
<<
Okaa-chan? >>, la chiamò
timidamente, i grandi occhi persi sotto una frangia fin troppo lunga.
Kagome non le
rispose e non la guardò.
Evitava quegli
occhi di miele ogni
qualvolta le era possibile. Si limitò ad allentare la presa
sui
jeans, distendendo le dita tremanti sopra le ginocchia.
Il tocco
leggero della bambina la
abbandonò e lei si sentì di nuovo morire dentro,
una stilettata di
ferro rovente la colpì appena sopra lo stomaco.
Eiko sapeva la
verità, ma faceva finta
di nulla.
Aveva una
madre che non la amava, ma
aveva imparato a convivere con quella maledetta consapevolezza nel
corso degli anni. Anni, sì... perchè lei ne
dimostrava sette, ma in
realtà ne aveva più di quindici.
Questo era un
regalo indesiderato da
parte di suo padre, un dono diabolico del suo sangue da hanyou.
Kagome aveva
sperato, aveva pregato gli
dei e pure il diavolo, scongiurato che suo figlio potesse nascere
umano. Umano in un mondo di umani. Ed invece, in una notte di luna
nuova, dopo un parto doloroso e difficile, si era ritrovata fra le
braccia una piccola mezzo demone.
In quel
momento, vilmente, aveva
sperato di morire.
Aveva dovuto
partorire in casa per ovvi
motivi, come una reietta, seguita unicamente da sua madre che si
affaccendava intorno a lei. Era nata un'hanyou che di fatto,
legalmente, in quel mondo non esisteva: non era stata presentata ad
amici o parenti, non era mai andata a scuola, raramente metteva il
naso fuori dal tempio. Non era nessuno.
Lo scorrere
del tempo era diverso per
lei, come per tutti i mezzo demoni, e si doveva celare agli occhi del
mondo per non dare a vedere il suo modo di crescere, il suo modo di
invecchiare al rallentatore.
Quel marchio
demoniaco che aveva al
posto delle orecchie, poi, non faceva altro che allontanarla da una
vita serena in un mondo normale.
Erano
ostracizzate, reiette, ai margini
della società e conducevano una vita di emarginazione e
solitudine.
Kagome la
reggeva a malapena, Eiko
v'era abituata: non conosceva un modo di vivere al di fuori di quello
che aveva affrontato fin'ora.
Con lo sguardo
assente e gli occhi
umidi, la donna fissava un punto indefinito davanti a sé con
la
mente che andava al di là di quel puzzo di mezzo pubblico,
di quei
neon smorti che sfarfallavano una luce fredda, oltretombale.
Ripercorreva,
come spesso le capitava,
quei pochi passi che l'avevano condotta dall'apparente vita felice
nel sengoku jidai a quell'ignobile esistenza nell'era moderna e
civilizzata. Il voto davanti al kami del tempio, la sua vita da miko
accanto agli amici di sempre, la sua relazione con Inuyasha, la
scoperta dell'attesa di un figlio, il ripudio dell'hanyou,
l'emarginazione ai lati del villaggio, il suo forte desiderio di
poter tornare dai suoi cari, il pozzo che, nuovamente, un'ultima
volta tornava a funzionare solo per poterla sigillare nel ventunesimo
secolo. E da lì non si mosse più.
Aveva spiegato
le circostanze ad Eiko
nel modo più chiaro possibile e la bambina, di rimando, non
le aveva
mai posto nessuna domanda. Chi fosse suo padre lo sapeva, seppur non
lo avesse mai incontrato, e tanto bastava.
L'autobus si
fermò di nuovo con un
brontolio sommesso. Kagome diede un colpetto ad Eiko ed entrambe
scesero lasciando sul mezzo un vago senso di disagio, un vuoto
incolmabile.
Salirono lente
le scale del tempio
Higurashi senza proferire parola, l'una accanto all'altra, mentre la
pioggia sferzava imperterrita sulle loro esili figure senza che
nessuna delle due se ne lamentasse.
La giovane
Eiko si voltò e scoccò uno
sguardo rapido a quello che si stava lasciando alle spalle con un
sospiro profondo che le veniva dritto dall'anima.
Chissà
quando ancora sarebbe uscita da
quel tempio?
Sua madre,
ferma pochi passi avanti a
lei, non si era voltata. Il suo corpo fin troppo magro, avvolto in
quel cappotto decisamente troppo grande, era scosso da leggeri
tremiti.
<<
Andiamo, Eiko. >>,
biascicò, e la bambina la seguì.
Quando
passarono attraverso il grande
giardino, Kagome lanciò un'occhiata distratta e fugace
là dove un
tempo c'era la capanna che celava il pozzo mangia ossa.
Dopo il suo
ultimo viaggio, in un
raptus di pura rabbia e follia, l'aveva incendiata rischiando di
minare, con quell'incendio doloso, l'incolumità dei suoi
cari e di
tutto il resto del tempio sacro.
Dopo
quell'episodio, la famiglia
Higurashi decise di coprire il tutto con una gettata di terra,
cementare e costruirvi a ridosso un deposito per gli attrezzi.
Un sorriso
sghembo le si dipinse sul
volto contratto in una smorfia sorniona.
<<
Prova ancora a passare da
questa parte del pozzo, hanyou.
>>, sibilò a denti stretti.
La
figlia la guardò di sottecchi, le mani in tasca, zuppa di
pioggia.
Eiko non si domandava nemmeno più perchè sua
madre sputasse quella
parola, hanyou, come un insulto, un boccone velenoso.
Lei
stessa era un'hanyou. Sua figlia era un'hanyou.
La
bambina affrettò il passo ed entrò in casa
lasciando Kagome
indietro, lontano.
Sorrise
amareggiata. Kagome era sempre
indietro, lontano.
Forse
un giorno sua madre l'avrebbe perdonata per essere nata così
simile
a lui, chissà?
Nel
frattempo le restava vicino per quanto le fosse concesso, sognando il
suo amore, uno straccio di rapporto vecchio come il mondo stesso.
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Ok...
la fine non mi piace, questo breve scatto di vita non ha né
capo, né
coda e non ci si capisce dentro un'acca. Vi chiedo umilmente
perdono... sono arrugginita e chiedo venia. Ho bisogno di esercizio.
Intanto
ho in cantiere una cosina più caruccia e decisamente
più felice.
Questa,
ripeto, è proprio uscita di getto... noi ce stiamo a
provà, ce
stiamo a provà...
Grazie
a chi ha avuto la pazienza di giungere fino a qui. Grazie davvero,
per me è un momento particolare questo, con una sua (scusate
il
termine e l'uso improprio) sacralità,
giurin giurello!
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