Tempus Edax Rerum

di ATHANOR91
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Una buona parte di quel che crediamo, ed è così anche nel trarre le conclusioni ultime, con un'ostinazione pari alla buona fede, proviene da un primo equivoco sulle premesse.

Marcel Proust

 

    Il re del sottomondo aveva preso l'abitudine di interrogarsi sulla natura di ciò che veniva definito, al di là di ogni accettabile equivoco, tempo. Su come regolasse la vita e la morte, sulla sua esistenza e consistenza, ammesso che di esistenza ne avesse una e che di consistenza si potesse poi davvero disquisire, sulla sua dissennata ricerca da parte di coloro che ritenevano di averne troppo poco e sui molti che, aizzati dal terrore di scontentarlo, lo avevano elevato ai ranghi divini e ne magnificavano le opere con primizie, sul rammarico di quanti credevano di averlo smarrito e sulle fallaci ambizioni di chi, in un anelito di speranza, temendo sofferenti dipartite, lo aveva racchiuso in un circolo di eterni ritorni, sulla capacità dei pochi che, con sagacia da alchimisti, riuscivano a tramutarlo in ragguardevole guadagno. Su tutto questo ed altro si trovava a riflettere Zebb, il signore di ciò che sta sotto e sopra la Terra.

    In fondo, dove viveva lui, le vacue velleità da ieratici immortali non erano cosa insolita. Lì regnavano solo fredda pietra, oscurità suprema ed eterno silenzio. Non potendo nulla nascere e nulla deperire, ciò che si trovava lì vi era da sempre così come il suo sovrano che né vi era giunto né se ne sarebbe allontanato, eterno come la nebbia di cui si nutriva e la densità dei suoi pensieri che pensava senza sosta.

    Tuttavia, vi fu un momento in cui perfino lui iniziò a percepire il tempo: accadde quando il figlio del re della Luce si incamminò nelle tenebre, per altro ignaro che ne sarebbe rimasto avvinghiato per sempre. Allora sì che lo sentì sfuggirgli inestimabile dalle dita, quel tempo senza tempo che assumeva contorni assai inquieti e si faceva definito e crudele, così indolente quando l'assenza del reciproco scambiarsi di sguardi tra coloro che si amavano glielo rendeva insopportabile, e così insignificante quando l'altro se ne stava lì a testa bassa con le labbra serrate in un'imperturbabile incomunicabilità che gli faceva sanguinare l'anima, e così pallido quando l'inaccettabile certezza dell'inconciliabilità delle loro esistenze lo rendeva succube di mortali debolezze fino a quel momento sconosciute, eppure così travolgente da spazzare via tutto il resto quando, calato il sole nel mondo di sopra, finalmente i loro corpi si incontravano e si sfioravano e si desideravano parlando quel linguaggio tutto loro, recondito ed inconfessabile.

     Fu allora che assieme al senso del tempo penetrò nel signore del buio anche l'acre sentore del suo scorrere inarrestabile e potente e la martellante sensazione che di quel tempo, prediletto compagno del suo meditare, egli fosse divenuto inesorabilmente prigioniero.

 





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