E i tamburi riprendono ad urlare

di Jultine
(/viewuser.php?uid=75132)

Disclaimer: questo testo è proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


E I TAMBURI RIPRENDONO AD URLARE

 

 
 
“Le vostre vite sono meschine e deboli. Potrei uccidervi in qualsiasi modo, dal più silenzioso e pulito al più barbaro. Potrei perforarvi la carotide con l’aculeo delle acacie che crescono vicino a casa mia. Potrei spingervi da una gradinata, gettarvi sotto un’auto, avvelenarvi il caffè, drogarvi e soffocarvi, accoltellarvi al ginocchio mentre fingo di allacciarmi le scarpe. Ma non lo faccio: la mia anima non è sporca il tanto che basta per farlo. Lo è però abbastanza per uccidervi in modo più subdolo e feroce. Potrei uccidervi con la mia presenza assente, con le mie parole, con il mio odio, con i miei rifiuti, con le mie moine fasulle. Potrei uccidervi in tutti questi modi.”
 
            Si va alla guerra in moto rettilineo uniforme, serrato in un punto materiale che è fermo eppure si muove, corre, a velocità costante e mascella serrata. Le dita che danzano sul finestrino a tempo di musica, i tamburi che sbattono e tremano, che esplodono nelle orecchie.      
            Sorpasso. Moto uniformemente accelerato, il cuore pompa all’impazzata. I tamburi serrano le labbra. Lui si affaccia al finestrino, vuole fumare una sigaretta, vuol scappare. Non ha ancora imparato ad aspirare bene il fumo. Non ha ancora capito se sia maschio oppure femmina. Eppure ha i capelli lunghi e lo sguardo tenebroso di mascara e roba chimica. Ha un seno prosperoso che nasconde dietro strati di stoffa e vergogna, una vulva e una vagina e un utero e un paio di ovaie. È una donna dalle sinapsi al maschile e l’amore per gli uomini cattivi ma non troppo, che si infatua delle ragazzine silenziose degli autobus.    
            Fermata. Scende col cappuccio della felpa sulla testa, la sciarpa nera a coprirgli il viso, due occhi da jihadista fallito e il cuore in pena da sindrome post-traumatica da stress. E pensa che forse dovrebbe solo lasciare una scritta sotto al portone, con la bomboletta nero brillante che ha rubato dal cantiere di papà. Una scritta sotto al portone, un segreto che non è più un segreto, un ricordo che non vuol dimenticarsi. Una scritta col nome e il cognome dell’ombra latitante che lui va cercando e seguendo e strozzando.  
            Nello zaino ha un coltello e un martello per piastrellature, un libro in lingua russa, un moleskine nero a copertina morbida, una penna da 0.5mm, il cellulare spento e una corda da 10 metri. Ha scritto come deve fare, come lo deve torturare, come lo deve sgozzare, come lo deve inumare nel giardino di merda della sua casa di merda.   
            Lungo la strada principale ci sono pochi passanti. Fa freddo, il freddo che brucia il naso e gli occhi, il freddo che gli dà forza, il freddo che gli fa compagnia. Svolta a destra, si acquatta come un coniglio bagnato e scrive sul muro:
 “Я заслуживаю правду”. [1]         
            Ma se la merita davvero, si chiede. Forse sì, forse sta solo perdendo tempo e salute. Forse questa mattina non si è mai svegliato e sta ancora sognando col naso imbevuto di cuscino e sonno e depressione. Forse è morto mentre attraversava la strada per beccare il pullman in tempo. Troppe variabili, troppo poco tempo. E avanza.     
            Pensa che si è quasi arrivati sul campo di battaglia, e lo pensa forte per mozzarsi il respiro dentro al petto col diaframma che taglia come la lama di un machete. E mentre avanza con lo sguardo conficcato al suolo -  non specchiarti nella vita - si accorge che si è già arrivati alla guerra. Una guerra senza soldati, con un generale muto e quattro oligarchi ciechi che si bombardano a colpi di menzogne.   
Il cancello terra di Siena bruciata, il quadro del citofono con le due colonne di lapidi, l'auto col sedere prepotente, le sbarre sottili dove lui sgusciava da piccolo per scappare via.  
            Ora dovrei suonare il campanello, si dice, ma a guardare quel portone gli viene da fuggire e vomitare e spaccare tutto.   
            E quindi dovrei citofonare e poi ammazzarlo, si ripete, ma si sente gli scarponi interrati nell'asfalto e il culo pesante e la testa leggera.      
            Dice torno indietro mi sento male.         
            Riavvolge i passi con il mondo che tremola come dentro ad un acquario. Afferra il cellulare, lo accende e dice mi dispiace, mi venite a prendere vicino all'autostrada?
            Fuori dal finestrino ha cominciato a piovere. Mamma sorride e dice che fortuna proprio mentre salivi in macchina. Lui annuisce. Papà chiede come mai ti sei trovata in difficoltà. Lui risponde passeggiavo.  
            Si infila le cuffie nelle orecchie e i tamburi riprendono ad urlare.
 
[1] “Merito la verità”.
La parola Pravda può anche significare “giustizia”. Questo contesto lascia intendere che la frase sia da interpretare in entrambi i modi.




Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3548521