L'ispettore Lestrade si presenta poco dopo le cinque del pomeriggio
alla porta di John. Il poliziotto porta con se' una ventata di aria
fresca ed una borsa di plastica piena di cibo cinese. Sherlock sta
ancora dormendo.
Rimangono fermi all'entrata della camera da letto, osservando il lento
alzarsi ed abbassarsi della cassa toracica di Sherlock, e poi, con un
sospiro congiunto, tornano in salotto.
"Quindi, come si è comportato?" chiede Greg.
John apre una scatola di noodles fritti, alzando le spalle, "E' stato
coerente per quasi dieci minuti intorno all'ora di pranzo, poi
è tornato a letto. Ha continuato a dormire per le ultime sei
ore o giù di lì.
Greg annuisce come se questo sia un avvenimento comune, e divide in due
le sue bacchette, facendole battere tra di loro con fare predatorio.
"Il tuo cognome è Watson per caso?" chiede Greg, esaminando
il cibo.
"Sì," risponde John, corrugando le sopracciglia,
"Perchè?"
"Sherlock ha una collana con il tuo nome sopra."
L'ha tenuta, pensa
John, e non è in grado di pensare a nient'altro per qualche
secondo.
"Com'è fatta?" chiede John, tanto per essere sicuro.
"Mmm, catenina d'argento, piccolo ciondolo rotondo di metallo con su
scritto 'proprietà di John Watson, restituire se ritrovato,
per favore'." Greg fa un gesto con le sue bacchette per un attimo,
l'equivalente di una scrollata di spalle, "Sembra ci fosse anche un
numero sul retro, ma è troppo rovinato per leggerlo ormai.
Ci siamo tutti chiesti cosa fosse, chi prima chi poi. Nessuno si
è preso la briga di chuiedere però, non
è che sia proprio il tipo da dirti qualcosa solo
perchè hai voglia di saperla.
John non dice nulla per qualche secondo, osservando il poliziotto
mentre questo si infila dei noodles in bocca. Tocca il ciondolo della
sua collana attraverso il tessuto della maglietta. Lancia un'occhiata
alla camera da letto e resiste all'istinto di controllare la gola
pallida di Sherlock. "Non la indossa ora," dice John, consapevole di
quanto la sua voce esca fuori sbagliata.
Greg scuote la testa, deglutendo. "Non più. La catenina si
è rotta nel bel mezzo di un caso a cui stava lavorando con
me l'anno scorso e ha rischiato di affogare inseguendo quello stupido
ciondolo quando è finito nel Tamigi." Greg nota
l'espressione sul volto di John e ride, "Non chiedere. Comunque, la
tiene nel suo appartamento ora, appesa sopra la lampada del suo
comodino."
Greg arraffa un'altra manciata di noodles mentre John processa
l'informazione.
"So che mi hai chiesto come l'ho conosciuto," dice Greg, "ma mi
piacerebbe sentire anche la tu di storia se non ti dispiace."
John sposta la sua attenzione dal corridoio a Greg. Prende in
considerazione l'idea di mangiare qualcosa e poi poggia le sue
bacchette, avvertendo un vago senso di nausea.
"Ci siamo incontrati alle medie," dice infine, "lui aveva solo dodici
anni allora ma frequentava già il liceo."
Greg considera l'informazione, mentre agguanta un involtino primavera.
"Quindi cosa è successo?"
John non riesce a decidere se l'ispettore sia particolarmente
perspicace o se sia semplicemente la sua espressione ad essere ovvia.
"Siamo stati molto amici. Per qualche anno, in ogni caso. Io mi sono
arruolato nell'esercito subito dopo l'università, sono stato
mandato in missione quasi subito. Ci siamo tenuti in contatto per
qualche mese e poi..." John riprende le bacchette, perchè ha
bisogno di fare qualcosa con le mani, e questa al momento è
l'opzione meno violenta. "Comunque non lo sentivo da allora, fino a
quando non si è presentato al pronto soccorso sei mesi fa."
"Sei un medico?" chiede Greg, evitando saggiamente di porre la domanda
più ovvia.
"Già."
John si sposta in cucina e prende due birre dal congelatore, le
bacchette ancora strette in una mano. "E invece tu? Qual'è
la tua storia?"
Il poliziotto sogghigna. "Come ti ho detto, è un po' lunga."
"Abbiamo tempo." John passa a Greg una birra e questo la prende con un
segno di ringraziamento.
"Be', la prima volta che l'ho incontrato avevo 24 anni, era il mio
secondo anno come poliziotto. Mi avevano messo in strada a controllare
le infrazioni di velocità,-alla uh- alla decima curva a
destra prima di Bacher, conosci quel posto?"
John annuisce e lui continua.
"Be' erano le due di mattina o giù di lì e stavo
provando a non addormentarmi, aspettando che qualcuno arrivasse
accelerando dall'angolo, ed eccolo che arriva a più di cento
all'ora, arrivato e scomparso così-" schiocca le dita.
"Così gli vado dietro ma senza successo. Lo perdo di vista
in meno di un minuto. Be', quando sto finendo il turno menziono la cosa
ad uno dei ragazzi più anziani e lui mi chiede se fosse una
moto rossa e se il motociclista fosse alto e magro. Quando dico sì. proprio
così, conosci l'uomo? e lui dice non un uomo, un ragazzo. Il nome
è Sherlock Holmes e d'ora in poi tu lo ignorerai.
Oh Dio, Sherlock su una moto, pensa John. E poi ferma
violentemente quel treno di pensieri. Lestrade continua.
"Comunque io chiedo al mio superiore di lui il giorno dopo. Lui mi
racconta della famiglia di Sherlock e- tu sai della sua famiglia?"
John annuisce. Sfortunatamente.
"Bene. Quindi, per la settimana successiva mi siedo a quel maledetto
angolo tutta la notte, ed ogni notte lui arriva sfrecciando intorno
alle due ed io non posso fare nulla se non osservare la sua silouette
mentre sparisce."
Greg scuote la testa, bevendo qualche sorso di birra. "Be' una notte
non passa e io penso che sia parecchio strano, quindi tengo gli occhi
aperti mentre torno in centrale, e proprio qualche chilometro dopo
c'è una motocicletta completamente distrutta a lato della
strada ed un ragazzo che avrà si e no sedici anni seduto
lì accanto. Mi fermo e gli chiedo cos'è successo
e se è ferito e se posso chiamare qualcuno per lui e lui mi
risponde di andare con tutta cortesia a farmi fottere, altezzoso come
se la moto l'avesse fatta schiantare di proposito."
"Sembra una cosa che farebbe," mugugna John, sorridendo controvoglia.
Greg ride. "Be' comunque, qualche minuto dopo appare Mycroft -conosci
Mycroft?"
"Sì," dice John.
Greg fa un'espressione che John non riesce a decifrare e beve un altro
sorso di birra prima di continuare. "Comunque, appare Mycroft e lancia
a Sherlock uno zainetto e sembra sia sul punto di andarsene di nuovo.
Be', gli chiedo dove stia andando e perchè non stia portando
il ragazzo con se' e Mycroft dice che Sherlock non sale sulle auto e se
ne va. Quindi a quel punto sono parecchio confuso e realizzo che
Sherlock ha iniziato a camminare nella dimensione opposta e corro per
raggiungerlo e gli chiedo se posso dargli un passaggio, eccetera. Ma
lui scuote semplicemente la testa e continua a camminare e ad un certo
punto lascio stare e torno alla mia auto. Il giorno dopo mi alzo per
colpa di un messaggio da un numero che non ho mai visto prima su cui
è scritto che vuole parlare con me e di passare a casa sua
prima di andare a lavoro. Io lo faccio, perchè, voglio dire,
non ho idea di come abbia rimediato il mio numero e sto morendo di
curiosità, e dice che gli piacerebbe entrare in affari con
me."
"Entrare in affari?" ripete John.
"Sì. Mi ha detto che se gli avessi dato accesso a dei vecchi
casi mi avrebbe fatto diventare ispettore in due anni. All'inizio ho
pensato mi stesse prendendo in giro, ma, be' lo sai com'è
fatto, ho capito abbastanza in fretta che non era semplicemente un
ragazzino che provava a prendermi per il culo."
Greg fa una pausa, chiaramente selezionando quelli che pensa siano i
dettagli più importanti. "Comunque gli ho dato dei vecchi
casi, lui li ha risolti, io mi sono preso il merito. Mi hanno fatto
ispettore. Il più giovane di sempre." Scrolla le spalle.
"Nella sua mente non siamo amici, solo colleghi. Ancora adesso mi
chiede vecchi casi ogni tanto, mi aiuta se non riesco a cavarmela con
quelli attuali. Ho...ho la sensazione di tenere a lui più di
quanto lui non tenga a me. Non lo so. E' come se fosse un odioso
auto-distruttivo fratello minore. Non posso arrestarlo per la droga,
perchè so che la prigione distruggerebbe uno come lui. Ma
d'altra parte non posso semplicemente ignorare la cosa. Quindi lo
controllo come meglio posso. La cosa non lo entusiasma particolamente."
John si prende un momento per assorbire la storia dell'altro uomo,
mentre finisce la sua birra.
"Quindi riguardo la cosa con le auto?" chiede alla fine. "Hai detto che
non va più in auto, che si rifiuta di salirci.
Perchè?"
La risposta di Greg è lenta, quasi contrita. "I suoi
genitori..."
"Che c'entrano? Non vanno più in macchina neanche loro?"
"No." sospira Greg, "Sono morti in una macchina."
"I suoi genitori sono morti?"
ripete, ricordandosi improvvisamente le pompose parole di Mycroft: Possono succedere molte cose in
cinque anni, John.
Greg annuisce.
"Merda. Cos'è successo?"
"Incidente," risponde l'altro uomo, sollevando la sua birra. "un
terribile incidente d'auto."
"In ogni caso," mormora John, passandosi una mano tra i capelli, "E'
comunque un mezzo di trasporto più sicuro di una moto. Credo
che una persona come Sherlock riesca a realizzarlo."
Greg scuote la testa. "Non capisci. Lui era lì."
"Cosa?"
L'ispettore poggia la schiena sul divano di John, incrociando le mani
sullo stomaco.
"Sherlock era lì. La notte in cui sono morti. Era sul sedile
di dietro, suo padre stava guidando. Erano sulla strada di ritorno per
Londra dalla campagna e la macchina è stata presa in pieno.
Era tardi, non c'era nessuno che abbia visto o abbia chiamato aiuto.
L'altro guidatore è morto sul colpo. Sherlock è
rimasto incastrato, cosciente, ma incapace di muoversi. E' rimasto
lì tre ore prima che qualcuno passasse per la strada e
chiamasse i paramedici."
Be' merda.
John non vuole chiedere ma lo fa comunque. "I suoi
genitori. Sono morti sul colpo?"
John sa già quale sia la risposta dall'espressione sulla
faccia di Greg.
"No. Ho controllato il report della polizia. So che non avrei dovuto
ma..." scrolla le spalle come a scusare le sue azioni. "Secondo
l'ufficiale in carica suo padre è rimasto sveglio e gli ha
parlato per quasi un'ora dopo la collisione, ma aveva numerose ferite
sulla parte superiore del corpo. Quando sono arrivatii paramedici aveva
perso troppo sangue per essere salvato."
"Quindi Sherlock ha visto suo padre morire."
"Sì," dice Greg, scolandosi la sua birra.
"E adesso non sale sulle auto."
"Adesso non sale sulle auto." concorda lui.
John realizza di star stringendo il ciondolo e lo lascia andare,
premendo i palmi delle mani l'uno contro l'altro. Qualcosa diventa
improvvisamente chiaro ed il pensiero forza un sospiro fuori dai suoi
polmoni e nuovamente nella sua bocca; non lo fa uscire, aria calda
intrappolata tra la lingua e i denti. Il suo stomaco diventa una lastra
di ghiaccio tra le costole.
"Che giorno era, il giorno dell'incidente?" chiede.
"Circa sei anni fa, nel 2008," dice Greg, "Er- il 22 Giugno, credo.
Perchè?"
"Cazzo," risponde John, perchè è l'unica risposta
sensata che riesce a produrre.
Il 22 Giugno 2008. Il giorno prima che Sherlock gli mandasse la
maledetta e-mail che avrebbe rovinato tutto.
"Cazzo," dice di nuovo, e si passa le mani tra i capelli. "Ho bisogno
di un'altra birra."
***
Sherlock siede sul pavimento della camera da letto di John, una tempia
appoggiata alla serratura della porta semi-chiusa. Chiude gli occhi per
contrastare il rimbombo del sangue nelle orecchie, si lecca le labbra
screpolate, e ascolta Lestrade dare una sommaria spiegazione
dell'Incidente. Si è svegliato un po' prima che arrivasse
Greg e ha tentato di muoversi verso il salotto. Ma i muri si sono mossi
quando si è alzato e è dovuto andare avanti
strisciando. Quando li ha sentiti parlare di lui si è
fermato, e quella pausa si è protratta per lunghi minuti
mentre segreti venivano svelati e morti ricordate e John aveva
imprecato in un modo che era così dolorosamente familiare da
stringergli il cuore.
Ricorda com'è stato; Sentire
così tanto così in fretta. La realizzazione che
l'unica cosa peggiore della sensazione stessa sia la consapevolezza che
possa accadere di nuovo: amplificata. E' il tipo di dolore che si ferma
pesante ed indesiderato dietro ai suoi denti, il tipo che gli chiude la
gola e gli rende difficile respirare. Aveva desiderato di non sentirsi
mai più così.
Sherlock ricorda le ore spese ad aspettare in un intricato collage di
metallo e cuoio; parole lente dalle sue labbra insanguinate e lente
risposte dal sedile di fronte. Ricorda le bruciature ed il dolore
quando si era dislocato il ginocchio destro in un ultimo violento
tentativo di raggiungere suo padre quando aveva improvvisamente smesso
di rispondere a Sherlock. Ricorda il silenzio dopo. Silenzio tranne che
per le cicale ed il suo stesso respiro. Ricorda l'alba, ore dopo che i
paramedici lo avevano portato via, quando il suo corpo era pesante e
dolorante a causa delle medicine, quando Mycroft era arrivato in
ospedale con occhi scuri e mani tremanti e un computer.
Perchè a quel punto Mycroft sapeva che quella era l'unica
conosolazione che era autorizzato ad offrire.
Ovviamente c'era un'e-mail nella posta di Sherlock, da parte di John,
l'unica persona la cui morte avrebbe causato ancora più
dolore per lui, un evento che non aveva neanche voluto prendere in
considerazione dopo gli eventi del giorno precedente.
Ma aveva dovuto farlo, perchè l'e-mail era una lettera
assolutamente tipica, scritta male, con una punteggiatura improbabile,
che parlava di deserto e caldo e artiglieria, il cui scrittore aveva
allegato una foto del suo viso sorridente segnato dal vento -denti
bianchi contro la pelle scure. Teneva la pistola in una mano, in
maniera così spensierata da far male, e nell'altra un
gigantesco ragno -morto. John aveva concluso l'e-mail con uno
sprezzante post scriptum riguardante il fatto di aver provato ad
inviare la gigantesca aracnide a Sherlock come regalo per i suoi
esperimenti ma di essere stato scoperto dal proprio comandante, che
l'aveva trovato mentre cercava di infilare la carcassa in un
contenitore e non ne era stato proprio contento. Aveva concluso
l'e-mail scrivendo con
affetto, John, il che non era una cosa particolarmente
speciale; concludeva ogni e-mail in quel modo. Ma quel giorno era stato
troppo.
Sherlock aveva lanciato il computer attraverso la stanza, urlato a
Mycroft quando questo aveva provato a toccarlo e ad un certo punto
avevano dovuto sedarlo. Quando aveva ripreso conoscenza, qualche ora
dopo, aveva preso in prestito il blackberry del fratello, per scrivere
una risposta alla mail di John. La risposta crudele e finale che
avrebbe garantito una fine alle comunicazioni.
Avrebbe dovuto sapere che non sarebbe stata la fine.
John non gli aveva creduto all'inizio. Aveva scritto una risposta
confusa, poi una arrabbiata. Lo aveva chiamato, lasciando numerosi
messaggi in segreteria dai toni bruschi e dalle eccessive
profanità. Aveva anche contattato Mycroft, sebbene quale
fosse stata la loro conversazione esatta Mycroft non glielo
dirà mai. Alla fine, dopo quasi sei mesi Sherlock aveva
ricevuto un ultimo messaggio. Mi
arrendo. E apparentemente così era stato.
Sherlock ascolta Lestrade che fa le sue scuse a John in salotto,
realizzando che John stia avendo probabilmente una qualche sorta di
rivelazione e non voglia essere disturbato. Quando Greg si alza, chiede
se John voglia che controlli lui Sherlock.
No. Per favore digli di
no.
"No," risponde John bruscamente, "lascialo dormire. Mi
prendo cura io di lui."
Sherock lascia cadere la testa su una spalla sollevato, cercando di
bagnarsi ancora le labbra, ma la sua bocca è completamente
secca. Effetti
collaterali dell'eroina, gli viene in aiuto la sua mente.
Probabilmente sei anche
disidratato.
Aspetta che Lestrade se ne sia andato e poi riprova ad
alzarsi, usando il muro come supporto.
"John?"
La sua voce è debole. Anche la sua mente, se è
per questo. Normalmente è bello, essere in grado di non
pensare in linea retta ma in improvvisi sprazzi di colore ma al momento
vuole dare un senso alle cose, e la sue mente che vaga in un fangoso
circolo indotto dalle droghe non è per niente d'aiuto.
Chiude gli occhi e quando li riapre John è di fronte a lui.
"Sherlock."
L'espressione di John non è più sotto controllo (bene), e il
conflitto di emozioni che vi è rappresentato è
immensamente interessante.
Preoccupazione. Rabbia.
Confusione. Senso di colpa?
"Hey." John poggia due dita sotto la mascella di Sherlock,
per controllare il battito, e poi alza il mento verso la luce,
studiando i suoi occhi. "Come ti senti?"
"Terribilmente," risponde con sincerità, poi fa un gesto
verso il corridoio, "bagno."
John lo guarda camminare, una mano sempre dietro di lui, e non fa il
minimo sforzo per nascondere il suo sbigottimento.
"Sei un idiota," lo informa John, appoggiandosi fuori dalla porta del
bagno.
"Sono un genio confermato," risponde bruscamente Sherlock dall'interno.
Scaricare l'acqua richiede un imbarazzante livello di concentrazione,
così come abbottonarsi i pantaloni. Voltarsi verso il
rubinetto, comunque, richiede più coordinazione di quanta
riesca a radunare.
"John," dice Sherlock rasseganto, e John è dietro di lui un
attimo dopo.
"Hai bisogno di aiuto?" chiede John, come se fosse una cosa
perfettamente normale e nulla di cui vergognarsi.
"Sì."
John gli indica dove sedersi sulla vasca da bagno e inumidisce un
asciugamano. Pulisce il viso di Sherlock per primo, e poi anche il
collo, lavando via il sudore ormai asciutto dalla sua pelle. Si alza,
bagna di nuovo l'asciugamano, e inizia a pulire le braccia di Sherlock,
fermandosi con particolare attenzione sull'interno dei suoi gomiti.
"Per favore dimmi che usi sempre siringhe pulite," sussurra John.
"Certo, non sono stupido."
John ride in uno strano modo che sta a significare quanto non sia
d'accordo.
E' silenzioso per qualche minuto prima che si fermi ad osservare le
dita di Sherlock.
"C'è del sangue essiccato sotto le tue unghie."
"Sì," concorda Sherlock, chiudendo gli occhi. Tutta la sua
attenzione è rivolta al rimanere in posizione eretta. Si
sente incredibilmente vulnerabile senza un muro a cui appoggiarsi.
"Posso chiedere a chi appartiene?" dice John, cominciando a sfregare i
polpastrelli.
Sherlock glielo dice perchè la testa gli fa male.
"Ti ricordi in ospedale, la seconda conversazione che hai ascoltato,
quando Lestrade mi ha descritto la scena del crimine del diplomatico
assassinato?"
"Sì, intendi l'uomo trovato nell'hotel del tuo amico? Quello
che era scomparso."
"Non amico," corregge, "collega. Il suo nome era Victor Trevor."
"Era?" ripete John.
"Ho passato gran parte degli ultimi sei mesi a cercarlo. L'ho trovato
ieri. Qualche minuto troppo tardi per essere d'aiuto."
"Quindi questo è il suo sangue?" chiarisce John, pulendo con
attenzione la punta del pollice.
"Sì, ho provato a rianimarlo quando l'abbiamo trovato, anche
se probabilmente è stata un'azione inutile fin dall'inizio.
C'era molto sangue."
Le mani di John hanno smesso di muoversi. Ora stanno semplicemente
stringendo quelle di Sherlock. Sherlock apre gli occhi e vede che John
lo sta fissando.
"E' per questo che lo hai fatto?"
"Fatto cosa?" chiede, tanto per essere irritante. John muove la mano
sinistra, il pollice che strofina contro i buchi freschi dell'iniezione
nella parte interna del braccio di Sherlock.
"Questo," dice, spingendo abbastanza forte da far male. "Stavi
soffrendo, e questo è l'unico modo in cui riesci a gestirlo,
giusto?"
Sì, pensa
Sherlock. "No," risponde.
John sospira, alzandosi, e lancia l'asciugamano nel lavandino. "Vieni."
Aspetta che Sherlock lo segua, poi gli circonda il busto con un braccio
quando diviene chiaro che non ci riesce. John sta attento a non
guardarlo mentre si muovono lentamente verso il divano, dove John lo
sistema con un bicchiere d'acqua ed un toast.
Beve l'acqua ed ignora il toast ed aspetta l'inevitabile domanda.
Ad un certo punto John pulisce il tavolino, ci si siede sopra
così da guardare Sherlock negli occhi, ed unisce le dita in
una morsa stretta. La sua bocca si apre varie volte prima di riuscire a
formare le parole.
"Perchè non me l'hai detto?" esce fuori più
rassegnata che arrabbiata. "Riguardo i tuoi genitori."
Sherlock ricorda il blackberry tra le mani. I tasti duri mentre
scriveva quelle tre terribili righe. Quanto il suo pollice fosse stato
reclutante a pigiare l'invio ma l'avesse fatto comunque.
"Non era importante. Non siamo mai stati molto legati. Lo sai:"
"Erano i tuoi genitori.
Anche se facevano schifo in questo. Non puoi guardare tuo padre morire
e superarlo semplicemente."
"Non c'era nulla che avresti potuto fare," dice Sherlock, provando a
risultare distante e fallendo miseramente. "eri a migliaia di
chilometri di distanza."
"In ogni caso," John si muove, come a volerlo raggiungere e la presa
che Sherlock ha sulle sue stesse dita si intensifica. "Avrei potuto
esserci per te in altri modi. Voglio dire. Non avrei saputo cosa dire e
probabilmente mi sarei approcciato all'intera questione del 'tentare di
consolarti' in modo completamente sbagliato. Ma se me l'avessi detto,
avrei provato ad aiutare, almeno avresti saputo che ci tenevo. Non
saresti stato così solo, in questo modo."
"Avevi cose più importanti di cui preoccuparti."
"No," la voce di John diventa tagliente e Sherlock si sorprende a
guardarlo. "Non osare. Non provare a far finta che fosse per il mio
bene, come se tu sia stato una qualche sorta di martire, preoccupato
per i miei sentimenti. Mi hai distrutto.
Eri il mio unico amico. L'unica cosa vicina ad una famiglia
che mi era rimasta e lo sapevi. Non osare."
Sherlock abbassa gli occhi sulle mani, beve un sorso d'acqua per
evitare di parlare.
Il tono di John diventa più gentile. "Perchè
allora? Per favore, sto cercando di capire."
"Era terribile."
"Cosa?"
"Tenerci."
John sbuffa ed è abbastanza fastidioso da fargli alzare la
voce, fino ad allora poco più di un sussurro. "Faceva male."
dice Sherlock, sbattendo le palpebre mentre le parole si formano
all'interno della sua gola. "Niente aveva mai fatto così
male prima. Ed era terribile. Sentire così tanto. Sentire in generale. E
poi, il giorno dopo ho ricevuto la tua e-mail, quella con la foto del
ragno."
L'angolo delle labbra di John si alza al ricordo, ma per la maggior
parte, la sua espressione rimane furiosa.
"E ho realizzato che dovevo liberarmi di te prima che tu potessi
lasciare me, intenzionalmente
o meno."
L'espressione di John fa una cosa divertente, Sherlock non riesce a
decidere se voglia ridere o urlargli in faccia. Non fa nessuna delle
due cose, ma si passa le mani sugli occhi, e poi sulle guance.
"Ti rendi conto che è incredibilmente stupido, vero?" dice
John.
"Ha funzionato." risponde Sherlock all'improvviso. "Più o
meno,"
"Hai tenuto il ciondolo," ribatte John e Sherlock sussulta prima di
riuscire a fermarsi.
"Tu hai tenuto il tuo,"
risponde lui, "tu lo indossi
ancora."
La voce di John esce fuori velocemenyte. Le dita strette. "Ti avevo
promesso che l'avrei fatto."
E' silenzioso per qualche secondo e Sherlock prende un altro sorso
d'acqua, aspettando che John parli di nuovo.
"Perchè tu hai
tenuto il tuo?" chiede John. "Non ha senso."
Perchè ho
provato a gettarlo via e non ci sono riuscito. Perchè non ho
mai avuto un amico prima e sapevo che probabilmente non ne avrei mai
avuto un altro e non riuscivo a sopportare l'idea di non avere
più una prova del fatto che fosse accaduto.
Perchè era l'unica parte di te che mi era concesso
conservare.
"Perchè è mio," risponde.
"Sentimentale," dice John prendendolo in giro.
Lo so, pensa
Sherlock.
Nessuno dei due dice nulla per qualche secondo.
"Eri serio?" chiede John, "Quello che hai detto in quella e-mail,
riguardo..?"
Sherlock guarda giù. "Riguardo il fatto che non mi fossi
più utile?"
E' sicuro del trasalimento di John, dell'improvvisa tensione delle sue
mani e Sherlock è grato di aver avuto la previdenza di
distogliere lo sguardo dal viso di John.
"Ah, sì. Quello." concorda John.
Certo che non ero serio,
che domanda stupida.
"No."
"Bene," dice John, "D'accordo. Ok."
John sospira, poggiando il peso dui gomiti, lasciando che la sua testa
vi si appoggi per un momento. Quando si alza la sua espressione
è ancora sbagliata, ma non così brutta come prima.
"Mangia il tuo toast," dice John, muovendosi per riempire di nuovo il
suo bicchiere. "Vediamo se c'è un documentario in onda.".
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