I personaggi
non mi appartengono, ma sono di Sir Arthur Conan Doyle, del sadico duo
Moffat&Gatiss e della BBC. Questa storia non ha scopo di lucro. Se
dovesse ricordare una delle innumerevoli storie ambientate nello stesso
periodo od altre, chiedo scusa, ma sarebbe un caso.
Buona lettura
È di nuovo lì. Sul marciapiedi di fronte al Bart’s.
È ancora lì. Cellulare in mano ed occhi fissi sulla figura allampanata, che si staglia contro il cielo grigio.
È perennemente lì. Con il cuore in gola, ad osservare Sherlock, in piedi sul cornicione del Bart’s.
È sempre lì. A pregare che lui scenda. A pregare di trovare le parole che lo convincano a desistere.
Ed ancora una volta fallisce. Non riesce ad impedire a Sherlock di lanciarsi nel vuoto.
Non può fare altro che guardare.
Il Belstaff che si gonfia. Le braccia allargate.
Un angelo che si libra con le ali nere. Un angelo che cade.
Trascinando John con sé all’inferno.
John si svegliò, spalancando gli occhi, il respiro affannato,
sudato. Si portò il braccio sugli occhi, in un gesto di
rassegnata disperazione. Sbirciò la sveglia. I numeri blu
segnavano le 00.34. Aveva dormito poco più di mezz’ora. Il
cuore stava tornando a battere ad un ritmo quasi normale. Era
così ogni notte, da quando era accaduto. Da quando
Sherlock… da quando il suo coinquilino… da quando il suo
migliore amico… da quando
lui… non riusciva nemmeno a concludere il pensiero. Dirlo ad alta voce era impensabile.
Eppure, ogni volta che riusciva a chiudere gli occhi, aveva davanti a
sé la stessa immagine. L’angelo che cadeva. L’angelo
con le ali, che non riuscivano a sorreggerlo. A farlo volare.
“Io non sono un eroe.”
La voce gelida di Sherlock gli attraversò la testa. Forse non
sarà stato un eroe, ma gli aveva salvato la vita. Ed ora se la
era ripresa. Senza Sherlock Holmes, lui non era più nulla. John
Watson aveva smesso di esistere, perché il sole intorno a cui
ruotava si era spento.
Andare avanti
Era la Vigilia di Natale. La gente era felice e carica di pacchetti
regalo da mettere sotto gli alberi decorati, per la gioia di grandi e
piccini. Per le strade risuonavano le note delle canzoni natalizie, i
tintinnii delle campanelle di improbabili Babbo Natale, le risate
allegre delle persone che si incontravano e si scambiavano gli auguri.
Anche all’interno del pub, l’atmosfera era gioiosa e
chiassosa.
John Watson aveva sperato che questo gli avrebbe permesso di
dimenticare, almeno per qualche ora, che la sua felicità era
stata cancellata dal gesto sconsiderato della persona più
importante della sua vita. Alcuni anni prima, Sherlock Holmes lo aveva
salvato dal tedio di un’esistenza inutile e priva di ogni
aspettativa. Quell’uomo alto, troppo magro, scontroso,
maleducato, irrispettoso, incosciente, con un cervello eccezionale ed
un cuore enorme, aveva travolto il reduce dell’Afghanistan,
coinvolgendolo nella sua vita burrascosa, avventurosa e piena di
pericolo.
Viva.
John si era sentito di nuovo utile e determinante, anche quando
Sherlock lo insultava. In realtà, lui sapeva quanto
l’unico consulente investigativo al mondo lo rispettasse. Gli
piaceva fare da cassa di risonanza ai pensieri caotici di Sherlock.
Vedere l’eccitazione, per avere risolto l’enigma di turno,
nascere sul viso del suo migliore amico. In quei momenti, Sherlock era
raggiante ed esuberante.
Bello.
Mentre Holmes usava la sua meravigliosa mente, Watson si assicurava che
mangiasse, dormisse e non fosse troppo incivile con il resto
dell’umanità. Un sorriso tenero spuntava sempre sulle
labbra di John, quando Sherlock si arrendeva alla sua insistenza e si
infilava in bocca un pezzetto di cibo, sbuffando e lamentandosi del
fatto che ciò avrebbe rallentato la soluzione del caso.
Tutto questo era finito, in una mattina uggiosa, quando Sherlock Holmes
aveva deciso di porre fine alla propria vita, confessando di essere un
impostore, un ciarlatano, un trucco.
Non che John gli avesse creduto. O gli credesse ora. Per quanto le
ultime parole del suo migliore amico gli rimbombassero nella mente,
anche quando faceva di tutto per allontanarle, John Watson continuava a
credere in Sherlock Holmes. Nel suo cervello unico e brillante. Nel
fatto che lui vedesse ciò che agli altri sfuggiva e lo
collegasse, in modo da svelare i piccoli e grandi misteri
dell’animo umano. Non capiva perché avesse cercato di
convincerlo che fosse un inganno. Forse pensava che avrebbe sofferto
meno, per la folle ed insensata decisione che aveva preso. Non avrebbe
dovuto uccidersi. Potevano uscire insieme dalla trappola che gli aveva
teso quel bastardo di James Moriarty. Insieme avrebbero trovato una
soluzione.
Loro due.
Sherlock e John.
Uniti contro il resto del mondo.
Sherlock, invece, aveva deciso in modo diverso.
Lo aveva tradito.
Lo aveva lasciato indietro.
Solo.
Ed il mondo era diventato un posto grigio, vuoto e senza sole.
Da quel giorno, la vita di John non aveva più avuto senso. La
trascinava, giorno dopo giorno, in una routine, che gli stava togliendo
ogni voglia di vivere. Anche gli amici di un tempo, non riuscivano ad
aiutarlo.
La signora Hudson piangeva spesso, ma John era troppo arrabbiato per
consolarla. Così la evitava il più possibile, accettando
i turni con gli orari più assurdi, che gli venissero proposti
nella clinica in cui lavorava.
Molly si era ritirata in un dignitoso dolore, espresso in brevi
messaggi, ma in pochissimi contatti personali. Sembrava quasi che si
sentisse in colpa per qualcosa e John non riusciva a capire di cosa si
ritenesse responsabile. Non che la cosa gli desse fastidio. Non avrebbe
saputo come confortarla. Lui aveva già i propri sensi di colpa
con cui convivere, non aveva parole per sollevare gli altri dai loro.
Mike aveva tentato di trascinare John fuori dal guscio in cui si era
rinchiuso, ma non c’era riuscito. Dopo vari fallimenti, aveva
smesso di cercarlo, incapace di lenire il dolore profondo e sordo, che
aveva investito la vita di John.
Sarah era diventata una presenza silenziosa al suo fianco. Non lo
forzava. Non cercava di costringerlo a fare nulla che non volesse. John
gliene era grato, ma sapeva che Sarah era solo in attesa di raccogliere
i pezzi, nell’istante in cui lui sarebbe, inevitabilmente,
crollato.
Harry non sapeva nulla di Sherlock Holmes e John non la aveva
contattata. Era sicuro che la sorella gli avrebbe offerto un solo tipo
di conforto. Forse ubriacarsi fino a svenire poteva essere la giusta
soluzione alle sue angosce. Avrebbe sicuramente dimenticato il peso al
cuore, che gli stringeva la gola fino ad impedirgli di respirare.
Però John non voleva scordare Sherlock. Al mondo doveva rimanere
almeno una persona che ne rispettasse il ricordo.
Greg non lo aveva mai cercato. Probabilmente aveva paura che John
potesse prenderlo a pugni. Non che avesse tutti i torti. Lestrade si
era fatto convincere da quei due idioti di Donovan ed Anderson che
Sherlock avesse architettato ogni caso che avesse risolto, per
dimostrare un’intelligenza che non aveva. Donovan ed Anderson si
erano lasciati ingannare dall’infido raggiro orchestrato da James
Moriarty ed avevano trascinato Gregory Lestrade nell’abisso,
insieme a loro. L’ispettore si sentiva responsabile del suicidio
di Sherlock, anche se aveva tentato di aiutarlo. Aveva ragione. John
non avrebbe mai fatto né detto nulla che potesse lenire il
dolore di Lestrade. Aveva sbagliato e doveva sopportarne le conseguenze.
Il più colpevole di tutti, però, era la persona che
avrebbe dovuto proteggere Sherlock e, invece, lo aveva consegnato al
suo carnefice. L’uomo, che John non poteva proprio perdonare per
la morte di Sherlock, era Mycroft Holmes. Se lo avesse avuto davanti,
avrebbe potuto ucciderlo. O, almeno, tentato di farlo. John sapeva che,
dietro ai suoi modi affabili e raffinati, Mycroft era stato addestrato
a difendersi. Sicuramente anche ad uccidere. Il maggiore degli Holmes
aveva evitato ogni contatto con John. Non si era presentato al funerale
del fratello, a cui non erano andati neanche i genitori. Era come se
gli Holmes avessero deciso di cancellare Sherlock dalle proprie vite.
Forse era un modo per lenire il dolore. John pensava che fosse da
vigliacchi, anche se, crogiolarvisi, non era salutare. Oppure, ancora
peggio, si vergognavano di Sherlock.
Il dottore si era trovato spesso a pensare ad un modo per mettere fine
alla propria vita, vuota ed insensata. Se non lo aveva ancora fatto era
perché non voleva che la sua morte aggiungesse ulteriore biasimo
al ricordo di Sherlock. Non voleva che il suo amico fosse accusato
anche del suo suicidio.
Chiuso nel proprio dolore, isolato in un mondo senza amici, John faceva
di tutto per evitare di frequentare locali in cui potesse incontrare
qualcuno che lo conoscesse. Odiava lo sguardo di compatimento che molti
gli riservavano, perché credevano che fosse stato ingannato e
che fosse troppo orgoglioso per riconoscerlo. Forse preferiva quelli
che lo deridevano, perché loro scatenavano la sua rabbia. Questo
era l’unico sentimento che ancora riuscisse a provare e lo
facesse sentire vivo. Una volta passata la furia, però, tornava
ad essere apatico. Andare a bere una birra in un luogo in cui nessuno
sapesse chi fosse, era l’unica cosa che lo facesse sentire quasi
normale e che riuscisse ad allontanare quella sensazione di
inutilità, che stava imperversando nella sua vita.
L’uomo urtò il braccio di John, mentre stava per portarsi
il boccale di birra alla bocca, facendo finire una parte del liquido
ambrato sulla giacca del medico.
“Potrebbe stare attento,” borbottò John, prendendo alcuni tovagliolini di carta per asciugarsi.
L’uomo si voltò verso di lui. Era visibilmente ubriaco,
più giovane, robusto ed alto di John. Osservando il fisico, si
poteva notare quanto si tenesse allenato: “Hai detto qualcosa,
bassotto?”
“Che un po’ di educazione non guasterebbe, ma temo che siano parole sprecate.”
“Vorresti insegnarmi l’educazione, piccoletto? Sai che potrei mangiarti in testa, vero?”
John sospirò. Non aveva voglia di farsi coinvolgere in una rissa
con uno stupido ubriaco. Non sarebbe servito a nulla. Si alzò,
facendo un cenno al barista, pronto a pagare il conto per andarsene, ma
l’uomo non desisté: “Batti in ritirata, nanetto? Hai
paura di prenderle, vero?” Rise in maniera sguaiata, ma si
bloccò, fissando John, che stava pagando.
“Aspetta! Aspetta un momento… io ti conosco! Bruce, la
faccia del nano non ti è familiare?” L’uomo si era
girato verso il compagno di bevute, un suo coetaneo, altrettanto alto e
grosso. Anche Bruce studiò John, che si era alzato per
andarsene: “Ehi… certo che lo conosci, Carl! È lo
stupido che scodinzolava dietro a quel tipo che si è buttato dal
Bart’s… come lo chiamavano?”
“Parli dell’investigatore con il cappello buffo?”
“Esatto! Lui era il suo amico. Il tipo che lo aiutava nei casi e che si beveva tutte le sue panzane.”
“Hai ragione, Bruce! Dove credi di andare, buffone? Fermati e
spiegami come hai potuto essere così idiota da credere a tutto
quello che ti raccontava quell’imbroglione. Scommetto che
è perché dentro ad un corpo da nano c’è un
cervello piccolo piccolo,” ghignò, afferrando John per un
braccio.
La rabbia salì dalle viscere, incontenibile: “Mi lasci
andare,” sibilò, in tono minaccioso, stringendo i pugni.
“Credi di farmi paura, piccoletto? – lo derise
l’uomo, piazzandosi davanti a lui – Non temo gli idioti,
io.”
“Forse perché ne vedi uno tutti i giorni, quando ti guardi allo specchio.”
“Carl, sai quale altra voce girava su questi due?” Chiese Bruce, ignorando le parole di John.
“Si diceva altro?”
“Sì. Tutti pensavano che fossero amanti.”
“Davvero? Dimmi, nanetto, ti piaceva prenderlo nel culo dal tuo
amico? Perché sono sicuro che anche il tuo cazzo sia troppo
piccolo e tu faccia fatica a infilarlo da qualche parte,” rise
Carl, orgoglioso della propria battuta.
“Chissà se l’imbroglione lo abbia mai davvero
soddisfatto. Potremmo fargli vedere noi cosa siano dei veri uomini. Che
ne pensi?”
L’uomo si era avvicinato alle spalle di John, pressandolo contro
l’amico. Mettendogli una mano sul sedere e strizzandolo.
Avvicinando il volto, per immergerlo nei capelli del dottore.
La rabbia di John esplose. Diede una testata decisa all’uomo che
aveva alle spalle, piantandogli contemporaneamente un gomito nello
stomaco, con tutta la forza scatenata dall’adrenalina. Prima
ancora che l’altro capisse cosa stesse accadendo, John lo
colpì allo stomaco, con un pugno. Senza fiato, l’uomo si
piegò in due. John unì le mani e le lasciò cadere
sul collo dell’uomo, che stramazzò a terra, privo di sensi.
Fu allora che entrarono due agenti di polizia, armi in pugno: “Mani in alto! In ginocchio! Non ti muovere!”
John obbedì, senza opporre resistenza né spiegare le
proprie ragioni. Le mani che gli afferrarono i polsi e gli portarono le
braccia dietro la schiena, per mettergli le manette, lo fecero con
efficienza e forza. Gli agenti lo caricarono su un’auto e lo
portarono in centrale. John non disse una parola. Forse una cella era
il posto giusto in cui trascorrere quella Vigilia di Natale.
“È
proprio necessario?” La voce ed il viso di Sherlock esprimono
tutto il suo disgusto. John sta decorando l’albero e ha chiesto
al suo coinquilino di aiutarlo. “Questa festa è
stata…” John gli appoggia una mano sulla bocca, per farlo
tacere. Non è arrabbiato o deluso od infastidito. Sa cosa pensi
Sherlock di qualsiasi cosa abbia a che fare con le tradizioni e le
convenzioni sociali. Sa che per lui decorare l’albero e la casa
sia una inutile perdita di tempo: “Faremo felice la signora
Hudson,” ribatte, tranquillamente. Toglie la mano dalle labbra di
Sherlock e gli porge una decorazione. Sherlock stringe le labbra
e la fissa come se fosse una bomba a mano, pronta ad esplodere. John
non si muove. Sherlock sbuffa ed afferra la decorazione, mettendola
sull’albero: “Contento?”
John non lo guarda. Sta decorando l’albero e nasconde un sorriso: “Ce ne sono ancora tante.”
Sherlock ne prende un’altra dalla scatola, con un grugnito: “Solo perché me lo chiedi tu.”
John sorrise. Il ricordo era affiorato involontariamente. Era sdraiato
sulla brandina, nella cella. Non aveva voluto chiamare nessuno
né rivolgersi ad un avvocato. Quello era un posto come un altro,
per trascorrere le feste. Probabilmente Sherlock avrebbe gradito la
vigilia alternativa, che John stava trascorrendo. Era convinto,
comunque, che il suo amico apprezzasse la compagnia delle poche
persone, che riteneva degne della sua considerazione, molto più
di quanto lasciasse vedere. E lui sapeva di essere uno dei pochi
fortunati ad essere nella lista delle persone a cui Sherlock Holmes
tenesse.
La porta della cella si aprì. John si voltò verso
l’ingresso, incuriosito. Sperava che non gli stessero portando un
compagno di cella. La solitudine era diventata una cara amica, con cui
aveva imparato a convivere. Un agente gli fece cenno di seguirlo:
“Abbiamo sentito i testimoni. Lei si è solo difeso.
Può andare a casa.”
Un sospiro di disappunto lasciò le labbra di John. Si chiese se
lo avrebbero lasciato tranquillamente lì, dentro quella cella,
se avesse picchiato il poliziotto che lo stava rilasciando. Notò
che l’uomo stava guardando l’orologio, impaziente.
Evidentemente era a fine turno e doveva andare a casa dalla sua
famiglia. Se lui avesse causato dei problemi, l’agente sarebbe
stato costretto a restare in centrale. John lo fissò quasi con
ostilità, ma si alzò, senza dire una parola. Solo
perché lui non voleva tornare in una casa fredda e vuota, che
non aveva nulla di natalizio, non giustificava il fatto di tenere
quell’uomo lontano dai suoi cari. John seguì il poliziotto
verso l’uscita, ma si bloccò, quando vide l’uomo
alto, dai capelli sale e pepe, fermo vicino al bancone di ricevimento,
che lo stava evidentemente aspettando.
“Ciao, John,” borbottò Gregory Lestrade, con le mani affondate nelle tasche del cappotto.
John non rispose. Strinse la mascella e passò oltre Lestrade,
diretto verso la strada. La neve aveva iniziato a cadere. Lenta. Fitta.
Silenziosa. Sherlock sapeva quanto John amasse vederla scendere dal
cielo. Lo avrebbe chiamato e sarebbero rimasti per ore ad osservarla
cadere e coprire Londra, dalla finestra del salotto di Baker Street.
Uno accanto all’altro. In silenzio. Perché i loro silenzi
erano pieni di parole non pronunciate, ma che entrambi sentivano
perfettamente.
“Mi dispiace per quello che è successo, ma non ho potuto
fare nulla per evitarlo,” sussurrò una voce appena dietro
di lui. John la ignorò. Alzò il bavero della giacca, come
faceva sempre Sherlock.
“Puoi smettere di farlo, per favore?”
“Di fare cosa?”
“Il misterioso con quegli zigomi e il colletto del cappotto rialzato per fare il figo.”*
John sorrise. Chissà cosa avrebbe pensato di lui Sherlock, vedendolo comportarsi allo stesso modo.
Io non ho i suoi zigomi. Il suo portamento. La sua eleganza. Io sono solo uno spaventapasseri con il bavero alzato.
“John! Per favore! Parlami.”
“Non abbiamo nulla da dirci, ispettore Lestrade. Ognuno di noi
deve convivere con i propri errori. Non posso darti l’assoluzione
che cerchi, perché non riesco a darla nemmeno a me stesso. Tu
hai deciso di dare retta ai sospetti di Donovan ed Anderson, mettendo
in dubbio l’intelligenza e l’integrità di un uomo,
che ha commesso il solo errore di aiutarti a sembrare un poliziotto
migliore di quello che sei. Hai fatto ciò che ritenevi giusto.
È tardi per i ripensamenti.”
John non si voltò indietro. Stava riflettendo se cercare un taxi o tornare a casa a piedi.
“Cosa avrei dovuto fare, secondo te? Quando Anderson e Donovan mi
hanno sottoposto i loro dubbi, non potevo non ascoltarli. C’era
della logica, in quello che dicevano!”
John si ostinò a fissare la strada, come se Lestrade non avesse parlato.
“Per favore, John. Ho dovuto fare il mio lavoro. Sono stato
costretto a vagliare tutte le ipotesi. Non potevo certo immaginare che
Sherlock decidesse di lanciarsi da un palazzo, invece di lottare per
dimostrare la propria innocenza.”
John continuava a rimanere chiuso in un ostinato silenzio. Greg avrebbe
preferito che gli urlasse contro, che lo prendesse a pugni, che lo
insultasse. Quell’ostentata indifferenza faceva più male
di qualsiasi altra cosa: “Ti ho mandato quel messaggio, per
avvisarlo che stavamo arrivando, proprio perché
io credevo in lui, nelle sue capacità, nella sua intelligenza. Non ho
mai pensato che fosse un imbroglione.
Mai.”
John decise che sarebbe tornato a casa a piedi. Una passeggiata sotto
la neve, era quello che ci voleva, per lenire le sue ferite. Si
avviò lungo il marciapiede, mentre Greg lo osservava
allontanarsi e sparire, avvolto dalla neve.
John camminava lentamente, ascoltando i propri passi affondare nella
neve fresca. Non aveva alcuna fretta di tornare in una casa piena
solo di ricordi. Le strade erano praticamente deserte. La gente era
raccolta nel caldo delle case, dei locali o delle chiese, in attesa
dello scoccare della mezzanotte. La neve attutiva i rumori, rendendoli
quasi innaturali. Magici. John sentiva una strana pace, come se non
stesse camminando in un luogo reale e potesse avvenire il miracolo.
Stasera Sherlock tornerà da me. Stanotte smetterà di essere morto.
Incrociò un uomo, uno dei pochi coraggiosi che osavano
avventurarsi per le vie innevate, ma non alzò gli occhi, lo
ignorò.
“Capitano,” la voce era esitante, come non fosse sicura di
averlo riconosciuto. Nessuno lo chiamava capitano da anni. John
continuò per la propria strada. “Capitano,”
insisté la voce, avvicinandosi. Qualcuno appoggiò,
delicatamente, una mano sulla sua spalla: “Capitano Watson, si
ricorda di me?”
Finalmente John si voltò e si trovò davanti un viso
sorridente. L’uomo aveva poco più di trenta anni, era
moro, con i capelli tagliati cortissimi e gli occhi verdi, che lo
fissavano felici. Era avvolto in un giaccone blu e gli stava allungando
una mano, in attesa di una sua reazione.
Quel volto lo riportò ad un’altra vita, vissuta prima di
conoscere Sherlock. Sembravano essere trascorsi secoli, invece erano
passati solo un paio di anni. John sentì il caldo vento afghano
fra i capelli, sulla pelle. La sabbia che si infilava nei vestiti. La
risata allegra degli uomini della sua compagnia, che si rilassavano,
fra una missione e l’altra.
Quante vite viviamo in un’unica esistenza?
“Frakes. Sergente Patrick Frakes!” Allungò una mano e prese quella dell’uomo giovane.
“Tenente, signore. Ora sono tenente,” ribatté Frakes, stringendo la mano di John con calore.
John scosse la testa, incredulo. Si ricordava bene di quell’uomo.
Era stato assegnato come soldato semplice al suo distaccamento in
Afghanistan. Era timido e riservato, ma sempre disponibile e cercava di
rimanere umano, malgrado la guerra facesse di tutto per trasformarlo in
un uomo duro ed indifferente. Aveva fatto carriera, diventando sergente
in breve tempo. Faceva parte della sua squadra, il giorno in cui John
era stato ferito. Non era cambiato molto. Qualche ruga in più,
forse, ma il sorriso era sempre lo stesso: gioviale e sincero.
“Capitano, sono così contento di vederla. La trovo in forma.”
“Non sono più capitano, Frakes. Mi chiami pure John.”
“Per me lei è sempre stato il miglior ufficiale con cui
abbia lavorato e mi sembrerebbe di mancarle di rispetto, chiamandola
per nome.”
“Avrebbe ragione se fossi ancora in servizio, ma non sono
più nell’esercito. Immagino che sia in licenza.”
“Sì, mi sono sposato e… senta, capitano, qualcuno
la sta aspettando? Io stavo andando in quel pub a bere qualcosa, in
attesa che mia madre e mia moglie escano dalla funzione.”
“Lei non è andato con loro?”
L’uomo fissò il marciapiede, strascicando i piedi:
“In guerra si vedono cose orribili, capitano. Lo sa anche lei,
vero? Questo mette in dubbio tante certezze.”
“So cosa voglia dire,” sussurrò John. Il mondo era
crollato addosso anche a lui e stava facendo fatica a rimetterne
insieme i pezzi.
“Andiamo? Mi farebbe tanto piacere fare quattro chiacchiere con
lei. Posso raccontarle tutti i pettegolezzi riguardanti i nostri
commilitoni. Ad esempio, sono sicurissimo che lei non sappia che Lewis
si è deciso a farsi avanti con Bennett,” ammiccò,
in tono cospiratorio.
“Non ci credo! Deve raccontarmi tutto!” John gli sorrise
entusiasta. Non aveva nessuno che lo aspettasse. Trascorrere qualche
ora a farsi raccontare cosa fosse accaduto agli uomini con cui aveva
condiviso un pezzo della sua vita, sarebbe stato un bel modo, per
trascorrere quella solitaria Vigilia di Natale.
Erano scoppiati a ridere. Di nuovo. John non ricordava l’ultima
volta in cui avesse riso tanto. Sicuramente era stato per qualcosa che
avesse detto o fatto Sherlock. Una fitta gli strinse il cuore. Doveva
sentirsi in colpa per il fatto che si stesse divertendo? Era la prima
volta che accadeva da quando Sherlock…
“Mi dispiace per il suo amico.”
La voce di Frakes riportò il dottore alla realtà, come se
gli avessero gettato addosso una secchiata di acqua gelida. John
fissò il boccale di birra, girandoselo fra le mani. Non voleva
guardare Frakes. Non voleva vedere quello sguardo di compatimento, che
gli riservavano tutti quelli che credevano che fosse stato ingannato.
In quelle poche ore, John aveva abbassato le proprie difese ed ora non
sentiva più dentro di sé l’energia per difendere
Sherlock ed il suo ricordo.
“Doveva essere un grande uomo,” continuò Frakes.
John alzò gli occhi sul tenente, sorpreso. Vi lesse solo una sincera partecipazione al suo dolore.
“So cosa abbiano scritto i giornali su Sherlock Holmes, ma era un
suo amico. Se lei lo ha reputato degno della sua fiducia e della sua
amicizia, non doveva essere l’imbroglione descritto dalla stampa.
In fin dei conti, non tutto quello che si legge è oro
colato.”
“Grazie, Frakes,” sussurrò John.
“Cosa fa ora?”
“Lavoro in una clinica.”
“Perché non torna in servizio?”
John aggrottò la fronte, sorpreso dalla domanda di Frakes. Non
aveva mai pensato di rientrare nell’esercito. Correndo per le
strade di Londra, inseguendo criminali e risolvendo casi, insieme a
Sherlock, si era lasciato alle spalle il suo passato militare. Ora,
però, Sherlock non c’era più.
“So che era stato congedato per problemi fisici, ma mi sembra che
si sia perfettamente ripreso. Potrebbe parlarne con il Colonnello
Wilkinson. Sono sicuro che la farebbe rientrare in servizio in
pochissimo tempo. Potrei fissarle un appuntamento con lui per dopo
domani. Che ne dice?”
“Dopo domani?”
“Mia moglie è sua figlia. Lo vedo domani al pranzo di Natale,” sorrise Frakes, arrossendo.
“Davvero? – John spalancò gli occhi, incredulo
– Ha decisamente avuto un bel coraggio a corteggiare la figlia
del suo comandante!”
“Ne è valsa la pena. Jenny è fantastica… Allora? Mi dica di sì.”
John tornò a fissare il boccale di birra. Ne bevve un sorso.
Perché no? Non aveva motivi che lo tenessero legato a Londra.
Sherlock era morto. Harry non aveva certo bisogno di lui. Aveva
allontanato tutti i vecchi amici. Forse era tempo di voltare pagina. Di
ricominciare da capo. Ancora. “Mi piacerebbe riprendere servizio.
Se il colonnello Wilkinson accettasse di incontrarmi, gli parlerei
volentieri.”
“Mi dia il suo numero di cellulare. Domani le mando un messaggio con ora e luogo dell’appuntamento.”
Poco dopo si salutarono con calore e con la promessa di sentirsi presto.
Tornato a casa, mentre le campane suonavano a festa e la neve
continuava ad ammantare le strade di bianco, John riuscì a
dormire una notte intera, senza sognare l’angelo cadente.
Il giorno di Natale trascorse lento e noioso. John cercava di non
sbirciare continuamente il cellulare e di non crearsi troppe
aspettative. Non era sicuro che potesse rientrare nell’esercito e
sentiva che un altro fallimento avrebbe distrutto quel poco di
sicurezza che era riuscito a conservare, in quei mesi di agonia. Si
immerse nella lettura, ma la sua mente finiva sempre per proiettarsi
nel futuro, immaginandosi in zona di guerra, utilizzando le proprie
conoscenze per salvare delle vite. Quando, poco dopo le tre, il
cellulare suonò, annunciando l’arrivo di un messaggio,
John quasi saltò sulla poltrona. Esitante, prese il telefono e
guardò chi gli avesse scritto. Sullo schermo apparve il nome di
Frakes.
[15.06] Domani. Base Bradbury. Ore 16. Ci sarò anche io. Sarà bello riaverla con noi.
John si scoprì a sorridere, come se avesse ricevuto il regalo di Natale, che non sapeva di aspettare.
Mycroft Holmes era seduto in una poltrona della sala principale del
Diogene’s Club. Stava leggendo i giornali. Da qualche settimana,
gli articoli su Sherlock erano scivolati dalla pagina principale alle
pagine interne, per trasformarsi in anonimi trafiletti e sparire
completamente, negli ultimi giorni.
La
gente ed i media dimenticano in fretta. Uno scandalo ne sostituisce un
altro. Se fosse così anche per l’organizzazione di
Moriarty, non avremmo avuto bisogno di inscenare la morte di Sherlock.
La sala era vuota. Gli altri soci erano tutti impegnati nel
tradizionale pranzo natalizio, insieme alle loro famiglie. Gli Holmes
non erano mai stati una famiglia tradizionale. Con la scusa della
tragedia che li aveva appenda colpiti, avevano deciso di evitare
qualsiasi tipo di celebrazione. La vibrazione del cellulare sorprese
Mycroft, che lo estrasse dalla tasca. Un accenno di sorriso gli
increspò le labbra, quando vide il mittente. Anthea non riposava
nemmeno il giorno di Natale.
[15.08] Il dottor Watson ha ricevuto un messaggio dal tenente Patrick
Frakes, che gli ha fissato un appuntamento con il colonnello Oscar
Wilkinson.
Mycroft fissò lo schermo, interdetto. Aveva promesso al fratello
di tenere d’occhio John ed era preoccupato per lui. Si era
isolato e stava reagendo molto male al finto suicidio di Sherlock.
Quando avevano organizzato l’operazione, non avevano tenuto nella
giusta considerazione quella variabile costituita dai sentimenti umani,
così estranea alla natura degli Holmes, che razionalizzavano
tutto, ma così profondamente radicata in John Watson.
Probabilmente era stata proprio quella sua spiccata sensibilità
a permettergli di accettare i difetti di Sherlock, riuscendo a farlo
convivere con lui, come non aveva mai fatto nessuno. Mycroft si
ricordava che Wilkinson fosse stato il superiore di John, quando era
nell’esercito, e si chiese se il dottore stesse pensando di
rientrare in servizio. Non poteva permettere che gli accadesse
qualcosa. Sherlock non glielo avrebbe mai perdonato. Se da una parte
John era il punto debole del fratello, perché avrebbe fatto
qualsiasi cosa per proteggerlo, era anche vero che il dottore fosse
un’ancora di salvezza per Sherlock, che non aveva più
preso in considerazione di drogarsi, da quanto era entrato nella sua
vita.
[15.10] Fissa un appuntamento con Wilkinson, domani mattina al
Diogene’s. Amichevole. Non formale. Il dottore non deve esserne
informato.
Mycroft non dovette attendere troppo per la risposta.
L’efficienza della sua assistente non si faceva fermare da una
semplice festa.
[15.20] Ore 9.
La mattina dopo, Londra si svegliò avvolta dal gelo. Dopo la
fitta nevicata della Vigilia e del giorno di Natale, le temperature
erano calate. La candida neve si era trasformata in gelido ed insidioso
ghiaccio. I piedi dell’uomo in divisa fecero scricchiolare il
manto ghiacciato, che divideva l’auto dall’ingresso del
Diogene’s. Il colonnello Oscar Wilkinson aveva poco più di
sessanta anni, ma ne dimostrava molti meno. Non era particolarmente
alto, con un fisico atletico ed asciutto. I pochi capelli rimasti erano
diventati grigi già in giovane età. Gli occhi marroni
esprimevano ancora gioia di vivere, malgrado tutto quello a cui avevano
assistito. Il maggiordomo del Diogene’s, nel più assoluto
silenzio, lo condusse nella sala in cui Mycroft Holmes riceveva i suoi
visitatori.
Al rumore dei passi che si stavano avvicinando, Mycroft distolse gli
occhi dal giornale, che stava leggendo, ed osservò il suo
ospite. Non sembrava nervoso, quasi si fosse aspettato quella chiamata.
Con un movimento elegante, Holmes si alzò dalla poltrona e tese
la mano, esibendosi in un sorriso cordiale: “Buongiorno,
colonnello Wilkinson, posso offrirle un tea o un caffè?”
“Un caffè andrà bene, grazie. Senza zucchero.”
Mycroft fece cenno all’uomo di accomodarsi nella poltrona di
fronte alla sua, mentre il maggiordomo gli servì il caffè
e lasciò la stanza. I due uomini si studiarono per qualche
secondo, con curiosità.
“Ho fatto qualche domanda su di lei e penso di sapere perché io sia qui,” esordì Wilkinson.
“Davvero?”
“John Watson.”
“Continui.”
“Suo fratello è l’uomo che si è ucciso
davanti al capitano Watson. Erano coinquilini. E molto legati, stando
ai giornali. Quello di cui non sono sicuro, è che cosa lei
voglia che io faccia o non faccia.”
“Il dottor Watson ha preso un appuntamento con lei, affinché lei lo aiuti a tornare in servizio.”
“Se anche fosse, a lei cosa interessa?”
“Come lei ha detto poco fa, il dottor Watson era un amico di mio
fratello. Il suo solo amico, a dire il vero. Mi preoccupo per la sua
incolumità.”
“Io non sono un uomo diplomatico, signor Holmes. Sono un
militare. Sono arrivato al grado di colonnello per i miei meriti sul
campo, ma non diventerò mai generale, perché la politica
non mi interessa e non addolcisco mai la pillola. Mi hanno riferito che
lei sia un uomo pericoloso e che sia meglio non averla come nemico. Io,
però, stimo ed apprezzo John Watson come uomo e come ufficiale.
Se lei è veramente preoccupato per lui, come dice, non credo che
si offenderà, se le dirò cosa io pensi
sinceramente.”
“Può parlare liberamente, colonnello. Non vi saranno
conseguenze di alcun genere. Questa vuole solo essere una chiacchierata
amichevole, fatta fra persone che hanno a cuore il bene del dottor
Watson.”
“John Watson è stato un ottimo ufficiale. Un uomo
rispettato e benvoluto da tutti coloro con cui abbia lavorato. Quando
è stato rimpatriato e congedato, è stata una grande
perdita. Visto quello che ha fatto per la polizia di Londra, non
avrà problemi a superare i test fisici. Sono sicuro che
potrà riprendere servizio e rendersi utile al paese, lasciandosi
alle spalle quello che suo fratello gli ha fatto. Il capitano Watson
non meritava di essere tradito dal suo migliore amico né di
essere costretto ad assistere al suo suicidio. Se cerca un modo per
riappropriarsi della propria vita ed andare avanti, non sarò
certo io ad impedirglielo.”
“Non crede che sia troppo presto per il dottor Watson… per
John… essere mandato in zona di guerra? Con quello che sta
passando, non pensa che potrebbe prendere delle decisioni avventate?
Non sto dicendo che cercherebbe di proposito la morte o che metterebbe
coscientemente a rischio la propria squadra, però potrebbe non
essere abbastanza lucido nel valutare il pericolo.”
“Non lo rispedirei mai in zona di guerra. Per chi mi ha preso? Ci
sono tanti ospedali militari, in Inghilterra, che possono avvalersi
della competenza, della professionalità e dell’esperienza
del capitano Watson. Non è necessario che sia mandato in
missione. Non all’inizio, almeno. Con il tempo, non si può
sapere.”
“Volevo essere solo sicuro di questo. Che John non fosse spedito fuori dal paese troppo presto.”
“Direi che abbiamo finito,” disse Wilkinson, alzandosi per andarsene.
“Immagino che non le dispiaccia se terrò d’occhio
John. Non lo prenda come una mancanza di fiducia nei suoi confronti.
Voglio solo essere certo che lui sia al sicuro.”
“Perché tutto questo interesse per il capitano Watson?
Senza offesa, signor Holmes, ma suo fratello è morto e lei non
ha alcun motivo né diritto di intromettersi nella vita del
dottore.”
Mycroft allontanò lo sguardo, come se stesse soppesando le
parole da dire: “Sto proteggendo il cuore di mio fratello,”
rispose, infine, in tono sommesso.
Il colonnello annuì: “Penso che lei non voglia che io riferisca al capitano della nostra conversazione.”
“Le sarei grato, se non lo facesse.”
“Voglio che sia chiaro che lo faccio per lui, non per lei. Sono
convinto che non apprezzerebbe questa intrusione nella sua vita. Il
capitano ha già sofferto abbastanza, a causa di un Holmes. Non
credo sia giusto che provi ulteriore dolore, per colpa
dell’altro.”
“Ne sono consapevole, ma la ringrazio ugualmente.”
Senza aggiungere altro, il colonello se ne andò. Mycroft lo
osservò, fino a quando scomparve dalla sua vista. Per un
po’ di tempo, John sarebbe stato al sicuro. Forse Sherlock
sarebbe riuscito a tornare prima che il buon dottore fosse assegnato a
qualche missione all’estero.
Erano trascorsi sei mesi. L’inverno e la neve avevano lasciato il
posto ad una primavera calda ed afosa. L’elicottero militare
stava trasportando attrezzature e personale da una base londinese ad
una situata nel Devonshire. John era rilassato, seduto ad occhi chiusi,
con la schiena appoggiata alla parete. Ascoltava le battute dei suoi
compagni di viaggio. Malgrado non si trovasse in zona di guerra, la
routine della vita militare e gli impegni di lavoro in ospedale, gli
avevano concesso una tregua al dolore che provava. Non che avesse
dimenticato Sherlock. Il suo angelo cadente. Solo che il dolore aveva
lievemente smesso di levargli il fiato e di fermargli il cuore. A volte
era così stanco, che si lasciava cadere sul letto e crollava in
un sonno pesante e senza sogni. Non voleva dimenticare Sherlock. Voleva
fare pace con il suo ricordo. Non voleva che la caduta fosse
l’unico ricordo a popolare la sua mente. Voleva ritrovare il viso
sorridente, gli occhi trasparenti, la voce profonda, che lo avevano
portato a seguire Sherlock senza pensarci due volte, quando non sapeva
neanche chi fosse.
“E poi, cosa è successo?” La voce impaziente era di
Alastair Cormoran, il più giovane dei militari presenti
sull’elicottero. Discendeva da una famiglia nobile decaduta ed
era sempre sorridente e cordiale con tutti.
“Lena mi ha detto che non mi avrebbe fatto entrare nemmeno se
fossi stato l’ultimo uomo sulla faccia della terra e mi ha
sbattuto la porta in faccia,” ridacchiò Peter Marler,
provocando uno scoppio di risate.
Anche le labbra di John si piegarono in una smorfia divertita.
L’allegria venne bruscamente interrotta da uno scossone
improvviso. Gli uomini si ancorarono come meglio poterono, mentre
l’elicottero perdeva quota.
“Cosa sta accadendo?” Chiese John nel microfono, che aveva nel casco, ad uno dei piloti.
“Qualcosa ha colpito uno dei motori, forse un uccello. Il motore
ha subito dei danni e si è spento. Tenetevi forte. Stiamo
tentando un atterraggio di emergenza,” rispose il più alto
in grado.
Il silenzio si fece teso. Tutti ascoltavano il rumore dell’unico
motore superstite, che si lamentava, come un animale in agonia. Mentre
il secondo pilota lanciava l’SOS, comunicando la loro posizione,
il primo cercava un posto in cui atterrare in sicurezza, senza mettere
in pericolo i civili che potevano trovarsi sotto di loro. Del fumo
aveva iniziato ad uscire dal motore in avaria. Erano decollati da poco
tempo. Se il fuoco avesse raggiunto il serbatoio, l’elicottero
sarebbe esploso. Nessuno di loro si sarebbe salvato.
“Stiamo per toccare terra. Preparatevi a slacciare le cinture ed
uscire velocemente. Correte il più lontano possibile dal
velivolo,” il primo pilota avvisò i passeggeri.
Con un tonfo secco, il velivolo si depose su un terreno solido. I
militari si slacciarono le cinture ed uscirono, mettendosi subito a
correre. John contò gli uomini, sollevato che fossero tutti
usciti dall’elicottero. Aveva fatto in modo di essere
l’ultimo, per controllare che tutto procedesse per il meglio. Non
capì perché Cormoran fosse caduto. Forse era inciampato
in un dislivello del terreno. Forse aveva messo male un piede. Non era
importante. Il fatto preoccupante era che non si stesse rialzando. John
lo raggiunse e lo sollevò di peso, prendendolo sotto le ascelle:
“Forza, resisti. Bastano pochi passi,” lo
incoraggiò. Il boato alle loro spalle fu fortissimo.
L’onda d’urto li sollevò, facendoli volare come
foglie al vento, per diversi metri. Il mondo diventò un posto
stranamente silenzioso. John non sentiva dolore in nessuna parte del
corpo.
“Sherlock,” sussurrò, con un sorriso sulle labbra.
E il buio lo accolse, nel suo abbraccio sereno e pieno di pace.
Angolo dell’autrice
*Dialogo da ”The Hounds of Baskerville”
Eccomi di nuovo qui, dopo un breve periodo di assenza, con una Post
Reichenbach, nata mentre la mente vagava durante una passeggiata al
lago, la primavera scorsa. Lo stile sarà un po’
particolare e spero che vi piaccia. Ringrazio chi sia arrivato a
leggere fino alla fine e chi voglia lasciare un commento.
Se volete sapere cosa sia successo a John, l’appuntamento è per domenica prossima.
Ciao!