Fan
fiction ambientata nella seconda stagione, in una “linea
temporale
alternativa” dove Mon-El non era ancora stato affidato a Kara
e le
cose si sono svolte diversamente un po' per tutto, non tenendo,
dunque, affatto conto degli eventi accaduti nella 2x06.
All'improvviso tutto
diventò
sordo. Supergirl fu lanciata sull'asfalto che si ruppe formando un
piccolo cratere. Lei tentò di rialzarsi ma, aprendo gli
occhi, non
vide altro che rosso e si accasciò di nuovo a terra,
stringendo i
denti. Le faceva male dappertutto e non riusciva a vedere: cosa stava
succedendo, da dove proveniva quel mostro? Dal cielo, lui sbatteva le
palpebre dei suoi tre occhi e si passava le mani con tre dita sulla
grigia pelle squamata, attento a non ferirsi con gli artigli,
aspettando che lei lo aggredisse ancora.
Tutto cominciò in
una soleggiata
mattina come tante altre. Kara aveva intenzione, come prima cosa, di
correre dal suo capo e puntare i piedi quando avrebbe cercato di
spiegargli il motivo del suo rifiuto di occuparsi di vip e cinema.
Non che non amasse il cinema, ma c'erano così tanti
argomenti di cui
poteva scrivere che non si sentiva abbastanza realizzata al solo
pensiero di impegnarsi in una cosa tanto banale. E lo avrebbe fatto
subito, se non fosse che, per la prima volta da quando lavorava per
la CatCo, non sentì la sveglia e dovette uscire di casa
volando;
letteralmente. Era vicina all'edificio quando ricevette una
telefonata e cambiò rotta di colpo, dirigendosi alla nuova
base del
DEO. La notte prima era stato avvistato l'atterraggio di un oggetto
non identificato verso le montagne: lei e J'onn si erano subito
recati sul posto ed erano tornati con uno strano uovo color perla
grande quanto un uomo, che avevano provveduto a mettere in isolamento
per studiarlo. Avevano tentato di guardare cosa ci fosse al suo
interno, ma nessun macchinario né la supervista di Supergirl
erano
riusciti ad attraversare quelle pareti. Avrebbero pensato a un modo
per bucarlo ma non ce ne sarebbe stato bisogno: al telefono, Alex le
aveva detto che l'uovo si stava schiudendo.
Nessuno aveva più
l'ordine di
mettere piede nella stanza dov'era tenuto l'uovo da quando aveva
iniziato a creparsi, e tutti assistettero alla scena dietro il vetro
della parete. Certo nessuno si aspettava che l'uovo si aprisse
perfettamente in due e che, al suo interno, non ci fosse altro che un
bambino. Non un neonato, ma un bambino che avrà potuto avere
sugli
otto anni, nero e con i ricci capelli corti; indosso aveva una tuta
dai colori accesi. Si scoprì così che l'uovo non
era un uovo, ma
una navicella spaziale.
«Il mio nome
è Dexel Hakrat Rut
e voglio tornare a casa mia», disse appena i medici cercarono
di
analizzarlo.
J'onn, in veste di Hank, lo
squadrò da capo a piedi. Fece partire le ricerche, ma finora
non era
dato sapere da dove provenisse quel ragazzino.
«Forse un
montiniano», ipotizzò
Mon-El in modo saccente, con le mani dietro la schiena.
Al suo fianco, Kara trattenne
una
risata. «I montiniani sono tutti alti almeno tre metri. I
bambini
nascono di sessanta centimetri», rimbeccò con
soddisfazione, «Sarà
sicuramente un jahediano scuro».
«Ma i jahediani scuri
non hanno
le mani palmate?», rispose lui con evidente supponenza,
sorridendole.
Guardarono di nuovo attraverso
il
vetro e, mentre una donna in camice faceva aprire la bocca al
bambino, i tre notarono la sua lunga lingua biforcuta.
«N-No, decisamente
no»,
balbettarono insieme.
Hank li fulminò con
lo sguardo.
«Sentite, non abbiamo tempo per i vostri battibecchi da
ragazzini:
perché non andate a cercare informazioni e vi rendete
utili?».
Mon-El s'illuminò di
speranza:
«Davvero posso andare?».
«No, tu no.
Supergirl, è compito
tuo», la indicò con un dito.
«Va bene, me ne
occuperò dopo il
lavoro», annuì, allontanandosi.
Percorrendo un corridoio, Alex
la
raggiunse in fretta: «Allora, avete scoperto da dove viene
quel
bambino?».
«No»,
scosse la testa,
continuando a camminare, «E l'unica cosa che riesce a dire
è di
voler tornare a casa sua ma, appena glielo chiedi, dice che casa sua
è casa sua e che noi lo abbiamo rapito. Dovrò
tornare sui monti per
assicurarmi di non aver lasciato nulla».
«Va bene,
uscirò anch'io per
vedere se trovo qualcosa», annuì. «E per
l'articolo? Sei riuscita
a trovare l'ispirazione?».
Kara scosse pesantemente la
testa,
facendola dondolare. «No, devo ancora far sapere al mio
adorato capo
che non ho intenzione di scrivere quella roba».
Stava per sbuffare, quando si
udì
il grido di un bambino e poi uno scoppio, così entrambe si
girarono,
vedendo una nube grigia e nera riempire il corridoio dietro di loro.
Corsero indietro e scorsero Hank uscire dalla nube con il piccolo
stretto per un polso, sgridandolo di aver fatto esplodere apposta un
macchinario importante. Prese una mano di Kara e le passò il
polso
del bambino che, imbronciato, gli faceva la linguaccia.
«Congratulazioni,
Supergirl, sei
appena diventata la sua bambinaia».
«Cosa?».
«Ha fatto esplodere
un
laboratorio solo con la forza del pensiero; è una mina
vagante, è
meglio se non sta qui. Un po' di aria gli farà bene.
Penserò io a
tornare sui monti. Chi meglio di Supergirl può
proteggere… hai
capito», disse, per
poi avvicinarsi a una sua orecchia: «Non posso mettere in
cella un
bambino perché è dispettoso».
«Ma io devo lavorare!
Non può
occuparsene Mon-El?».
«Certo, affidiamo una
mina
vagante ad un'altra mina vagante», sbottò con
sarcasmo, prima di
tornare indietro verso la nube, a cui accorsero altri agenti.
Kara guardò il
bambino, poi di
nuovo Hank. Sbuffò ancora e si girò in cerca di
Alex, ma lei si era
già dileguata, agitando di spalle il dito indice:
«Non ci penso
nemmeno».
Kara brontolò.
Alex aspettò con le
braccia a
conserte appoggiata alla parete del locale, vicina alla sua moto
parcheggiata. Lei era in ritardo. Non aveva mai ritardato tanto. Per
un attimo, pensò di averla disturbata: magari stava
lavorando a un
caso, o era a pranzo con la sua ragazza, quella nuova. In ogni caso
doveva averla disturbata per forza o non ci metterebbe tanto ad
arrivare. Alex mise il broncio, controllando l'orologio al polso.
Pensò che forse sarebbe stato meglio iniziare subito da
sola; forse
lei avrebbe potuto farsi venire strane idee nel vederla aspettare
oltre i quindici minuti. Scese la gamba dal muro su cui si era
appoggiata e si girò, sentendo la sua voce:
«Ehi,
eccoti», esordì,
venendole incontro. «Ti chiedo scusa, ma non ero nelle
vicinanze e
ho fermato la macchina più in là per il
parcheggio. Sono partita
appena mi hai chiamato ma credo di averti fatto aspettare troppo lo
stesso», le sorrise.
«No, no»,
scosse vistosamente la
testa, «Sono appena arrivata anch'io».
«È che
oggi è il mio giorno
libero».
«Il tuo giorno
libero? No…»,
balbettò, aprendo la porta del locale davanti a loro,
«Mi dispiace,
avresti dovuto dirmelo e non ti avrei-».
Maggie la interruppe:
«Ma no,
figurati, ti aiuto con piacere. Allora, cos'abbiamo?».
Alex richiuse la porta dietro
di
loro, camminando visibilmente sovrappensiero: aveva ragione, doveva
aver interrotto un pranzo con la sua ragazza. Era il suo giorno
libero e glielo aveva rovinato. Almeno una parte di sé si
sentiva
una persona orribile; l'altra parte continuava a pensare alla sua
ragazza e a come doveva essersi indispettita per averla vista andare
via nel suo giorno libero alla chiamata di un'altra donna. Non era
minimamente come poteva sembrare, ma lei lo sapeva? Si frequentavano
da appena una settimana, probabilmente non stavano ancora a quel
punto. Si stavano conoscendo. E si piacevano. Si domandava cosa le
avesse detto Maggie di lei nel momento di dover andare via.
«Allora?»,
rise Maggie,
avvicinandosi al banco; alcuni clienti erano intenti a osservarle, ma
con poco interesse e ripresero in fretta a guardare i loro boccali
mezzi vuoti. «Sei distratta oggi, Danvers».
«Ripensavo al
caso», si guardò
attorno, mettendo le mani nei fianchi e prendendo fiato.
«Ieri
notte, Supergirl ha trovato un uovo sui monti e lo ha portato alla
base. Non è riuscita a vedere nulla al suo interno ma non ce
n'è
stato bisogno, perché questa mattina l'uovo si è
schiuso».
«Sì
è schiuso?». Ascoltava
senza battere ciglio, sedendo su uno sgabello davanti al bancone. Una
delle bariste si era avvicinata con l'intento di prendere
l'ordinazione, ma Maggie le aveva fatto un cenno negativo con la mano
e se n'era andata per servire un altro cliente.
Alex annuì.
«Si è scoperto che
l'uovo non era che una navicella spaziale con all'interno un bambino
spocchioso che vuole tornare a casa. Adesso è con Supergirl.
Pensavo
potessimo aiutarla a reperire informazioni; il bambino non sa dire da
dove viene e Supergirl non conosce la sua specie».
«Non ho mai sentito
di niente del
genere».
«Siamo in
due», rispose
prontamente, «In tre, se contiamo Supergirl».
Maggie sorrise, annuendo.
«Allora
diamoci da fare». Si alzò ed entrambe iniziarono a
interrogare i
clienti del locale, tavolo per tavolo. Speravano che, prima o poi,
qualcosa spuntasse fuori.
Doveva portarselo appresso; la
giornata era appena iniziata e già Kara non sapeva
più che fare; si
prospettava come il compito più difficile che le era mai
stato
assegnato: aveva portato il piccolo Dexel a comprare dei vestiti
umani per poterlo scorrazzare in giro e, appena gli disse di provarsi
un paio di pantaloncini, lui li planò per aria mentre si
toglieva la
sua tuta colorata davanti a tutti; per non parlare di quando aveva
dovuto rincorrerlo nel traffico dopo aver lasciato la sua mano e per
poco non veniva messo sotto da una macchina. Non poteva usare i suoi
poteri da Supergirl quando era semplicemente Kara e lo stesso doveva
imparare a fare lui. Va bene, non aveva mai visto delle automobili e
si era impressionato, ma sembrava farlo apposta. Hank era assurdo:
non voleva che Mon-El uscisse dalla sede del DEO perché era
pericoloso, ma allo stesso tempo le faceva portare con sé un
bimbo
alieno di una razza sconosciuta. Lui non aveva voglia di occuparsene,
pensava che doveva essere quella la verità.
Si trovava in un
ascensore della CatCo con
lui quando lo avvertì di non fiatare, di restarle sempre
vicino e di
non fare cose strane, come muovere gli oggetti col pensiero.
«Soprattutto… tutte
e
tre le cose»,
lo
ammonì con un'occhiata sopra gli occhiali.
«Ma io voglio tornare
a casa
mia», s'imbronciò. Gonfiò le guance che
si colorarono di rosso e
la sua pelle iniziò a dilatarsi, mostrando le sottili linee
che
formavano squame da rettile.
«No, no, no, ti
prego, mi
riferivo proprio a cose come questa», lo implorò.
Gli sistemò il
farfallino rosso sopra la camicia a quadri e gli riprese la mano, in
tempo per l'aprirsi delle porte dell'ascensore. Due passi per uscire
dalla cabina, che si scontrarono con una donna: i lunghi capelli
corvini le finirono sulle spalle, l'odore del dolce profumo che
portava inebriò Kara, che la riconobbe ancor prima di
vederla. «Lena?».
«Kara»,
sorrise, spalancando la
bocca con sorpresa.
«Cosa ci
f-».
«Ero passata a
salutarti, e per
assicurarmi che questa sera non passassi troppo tardi perché
non
sarò in ufficio».
«Stasera?».
«Per l'intervista sul
cinema»,
sorrise ancora, mentre Kara annuiva debolmente, forzando un sorriso.
«Il tuo capo poi mi ha detto che non eri ancora
arrivata…»,
abbassò la voce, avvicinandosi, «Sembrava un po'
arrabbiato, a
proposito», le fece l'occhiolino. Il bambino la fissava quasi
senza
battere ciglio e lei finalmente abbassò lo sguardo,
mostrando un
altro sorriso pieno di curiosità. «E lui chi
è?».
«Oh, il
mio… cuginetto», lo
guardò e poi rise un attimo, raschiando la gola, agitandosi.
Sul
momento le era sembrata un'idea brillante, non poteva pensare di
meglio. «I-I miei zii sono una coppia
interrazziale».
«No»,
ribatté il piccolo.
«Denzel»,
aggiunse Kara.
«Dexel»,
ricordò lui.
«Sì fa
chiamare così dagli
amichetti», rise.
«No».
Lei lo fulminò con
lo sguardo,
intanto che Lena rideva. «Se vuole, può venire
anche lui questa
sera», disse lei, «Troveremo un modo per
intrattenerlo».
«Oh», Kara
agitò una mano,
scuotendo la testa, «Spero di riportarlo dai suoi
genitori».
«Mi hanno
rapito».
Lena rise ancora e Kara gli
riservò un'altra occhiataccia: per fortuna la prima non
sembrava
prenderlo sul serio e fissò lei, non mancando di mostrarle
un
sorriso dapprima divertito e lentamente più dolce,
rilassato. Dexel
la fissò a sua volta e, girandosi alla ricerca di qualcosa
che
potesse essergli utile là in mezzo alle tante scrivanie
degli
operatori, la richiamò a sé con un rapido gesto
della manina
libera. Appena fu vicina, Kara intercettò l'oggetto in
movimento e,
con la paura che Lena potesse scoprire dei poteri del bambino,
l'afferrò al volo. Lui sorrise con cocente soddisfazione nel
vedere
Kara porgere inaspettatamente quella rosa rosa a quella donna.
La Luthor raddrizzò
la schiena,
colta inaspettatamente dal gesto, portandosi una mano sul petto.
«È
per me?».
Kara scrollò
leggermente di
spalle e preparò un grande sorriso, sentendosi a un tratto
in preda
all'agitazione. «Credo», sibilò a voce
bassa, «di sì»,
concluse, annuendo. «Sì, certo».
Le loro mani si sfiorarono
mentre
la donna prendeva la rosa e se la portava al naso con bramosia,
facendo suo il forte profumo. «È davvero
bellissima. Grazie, Kara»,
le sorrise ancora, deliziata, e li sorpassò, entrando in
ascensore.
«A questa sera! Non troppo tardi, mi raccomando. Ti
aspetto».
Le porte si richiusero e il
sorriso di Kara si spense, aggrottò le sopracciglia e si
voltò a
braccia a conserte verso il piccolo alieno.
«Perché lo hai fatto?
Ti avevo detto di-».
«Voleva che tu lo
facessi».
«A-Aspetta…
vuoi dirmi che hai
letto nei pensieri di Lena?», si rimise dritta, pensandoci,
trovando
con lo sguardo la scrivania con un mazzo di rose rosa in un vaso.
«Non serve. Ti
guardava come se
stesse aspettando un regalo», annuì il bambino.
Kara trattenne il fiato,
riguardandosi indietro nonostante sapesse che l'ascensore fosse
chiuso e che Lena era ormai lontana. Il piccolo le aveva messo la
pulce nell'orecchio; eppure non le sembrava che la guardasse in modo
particolare, piuttosto com'era solita fare. E se Lena avesse scoperto
il suo segreto? Forse la guardava in un certo modo per quella
ragione; avrebbe dovuto stare molto più attenta da quel
momento in
avanti.
La gracchiante voce di Snapper
Carr mentre sgridava uno dei suoi dipendenti risuonò forte
alle sue
orecchie da superudito e la distolse da ogni pensiero su Lena,
ricordandole di doversi presentare. Riprese il bambino per mano e gli
fece un gesto di fare silenzio, armandosi di coraggio.
Come volevasi dimostrare, non
era
riuscita a farsi valere e lui aveva avuto la meglio: doveva
assolutamente scrivere quell'articolo. Le aveva perfino ricordato
l'impegno preso con Lena Luthor; per lui era il personaggio
più di
spicco a National City, secondo forse solo a Supergirl. In compenso,
le aveva fatto presente, passandosi le dita sul viso con fare
stressato, che la CatCo non era un asilo. Per quanto non riuscisse a
sopportare quell'uomo, in fondo sapeva che aveva ragione e non poteva
presentarsi all'appuntamento di quella sera con il bambino, che era
impulsivo e non ascoltava: se non poteva riportarlo da Hank, aveva
solo una cosa da fare.
«Assolutamente
no», tuonò Alex
al telefono, seguita con lo sguardo da Maggie, seduta sul seggiolino
della moto dell'altra.
Al pub non avevano avuto
fortuna,
nessuno sembrava sapere di bambini dentro navicelle a forma di uovo,
né che ne fossero atterrati sulla Terra di recente, e
così avevano
deciso di spostarsi con la moto e di cercare altrove, fino alla
chiamata di Kara: Alex aveva parcheggiato la moto in un vicolo dietro
a un'officina aperta e si era spostata qualche passo per rispondere
al cellulare.
Degli uomini robusti a
canottiera
grigia e sudata a fianco delle loro moto e auto parcheggiate fuori
dall'officina le avevano adocchiate da quando si accostarono al muro;
di tanto in tanto si giravano e ridevano tra loro, per poi fissarle
ancora, con sguardi insistenti. Anche Maggie distoglieva lo sguardo e
li inquadrava, per poi focalizzarsi ancora su Alex e alla sua curiosa
telefonata: era particolarmente animata, discuteva con molta
familiarità e la stuzzicava.
«Non puoi portarlo
qui», riprese
Alex, spalancando un braccio con agitazione. «Ho capito, ma-
Aspetta, K-Supergirl»,
si corresse rapidamente, lanciando un'occhiata a Maggie che aveva
sospirato e annuito appena. Alex riattaccò la chiamata e
tornò
verso di lei, prendendo fiato. Si nascose il cellulare in una tasca
dei pantaloni e si portò le mani sui fianchi.
«Avremo presto
compagnia, Supergirl non può occuparsi del bambino e ce lo
sta
portando qui», inarcò le sopracciglia.
Maggie formò un
lungo sorriso e
la guardò completamente persa per qualche istante, prima di
proferire parola: «Tu e Supergirl avete un bel
rapporto».
«Ah…»,
spalancò la bocca,
colta di sorpresa, e tentò subito di rimediare:
«Un rapporto di
lavoro, intendi», abbassò lo sguardo, non
riuscendo a nascondere un
sorriso.
L'altra la guardò
ancora,
scuotendo la testa. «Non mi sembra un rapporto di solo
lavoro. Non
fai che parlare di lei, ti si illuminano gli occhi, come ne fossi
orgogliosa».
«Cosa stai- Non
penserai mica
che-».
«Ehi, di certo non
sarò io a
giudicarti».
Alex trattenne un sorriso e
restò
a bocca aperta, cercando di negare. «Hai frainteso, davvero,
non è
proprio come pensi». Le guance si accesero, le sentiva
bollenti e
sperava non si vedessero rosse.
«Sai chi è
in realtà, si vede»,
sorrise ancora, alzandosi dal seggiolino della moto. «Guarda
che per
me non è un problema, puoi dirmelo se tu e
Supergirl-», fu
interrotta.
«Ma non è
così! Te lo direi».
«Me lo
diresti?».
Erano a poco l'una dall'altra,
i
loro respiri caldi si scontrarono e i loro occhi si fissarono, fino a
quando Alex non riuscì a farne a meno e abbassò
lo sguardo,
diventando troppo imbarazzante. «Te lo direi»,
annuì piano,
«Certo».
Un rombo d'aria si fece sempre
più
forte e, dopo qualche secondo, Supergirl era davanti a loro,
riportando a terra il piccolo che aveva fatto volare sulle sue
braccia. Mentre lui, esaltato, gridava a gran voce un altro giro, gli
uomini davanti all'officina si sparpagliarono come formiche, tra chi
riprendeva il proprio mezzo e se ne andava, a chi entrava in officina
e non si faceva più vedere. L'eroina si guardò
attorno una volta
sola, non dandoci troppo peso.
Appena la vide, Supergirl si
lasciò andare a un'espressione dispiaciuta, avvicinandosi a
lei. «Ti
devo un favore», le disse senza aspettare che parlasse per
prima,
agitando le braccia, contraendo le sopracciglia. «Sei
assolutamente
la mia salvatrice».
Alex trattenne il fiato,
vedendo
Supergirl ma allo stesso tempo scrutando Maggie che si era
allontanata di nuovo verso la moto insieme al bambino, che ne pareva
affascinato. La vide guardarla insieme a lei e sorridere.
«Supergirl,
va bene! Va bene… così», concluse a
labbra strette, pensando alla
discussione avvenuta pochi istanti prima. Diede un'occhiata a Maggie
che aveva fatto saliere il piccolo alieno sul seggiolino della moto e
poi nuovo a lei, che sembrava tutt'altro che allegra, anche se le
aveva appena scaricato una responsabilità. Alex
sospirò: «Lui non
ti ha ascoltata e devi comunque scrivere quell'articolo, non
è
vero?».
«Esatto»,
sbottò, reggendo
tutto il peso su uno stivaletto rosso e dondolandosi con sconforto,
alzando poi le braccia all'aria. «Non mi ha neanche
ascoltata! Non
so davvero come riescano altri a sopportarlo»,
ingigantì gli occhi
e, con un gesto automatico, si portò dietro l'orecchio una
ciocca
bionda. «E fra poco mi dovrò presentare da Lena
Luthor. Spero andrà
tutto bene».
«Prendila per il
verso giusto, in
fondo il cinema non è un argomento noioso. Potresti parlarle
dei
tuoi film preferiti per rompere il ghiaccio. Dei film d'amore che
ami, di Edward
Scissorhands»,
trattenne un sorriso divertito e Supergirl
fece
un passo indietro,
fissandola con affronto.
«Non me lo
ricordare», chiuse
gli occhi e irrigidì i denti, «Non è
divertente».
«Ma è un
film d'amore».
«No, fa paura con
quelle lame, e
il volto pallido, e… non voglio ricordarlo, sei un essere
spregevole», si strinse nelle spalle, per poi aggrottare le
sopracciglia.
Alex rise, scuotendo la testa:
quel film metteva paura Kara fin da bambina, le aveva segnato
l'infanzia; ricordarglielo sperava la facessero distrarre, in fondo
doveva scrivere un solo articolo sull'argomento e lo averebbe
archiviato presto, le serviva come esperienza.
Maggie si era incantata a
guardarle e Dexel, che fino a quel momento era stato totalmente
catturato dalla moto di Alex, scrutò lei e così
fissò loro a sua
volta. Il piccolo aprì la bocca, stava per dire qualcosa,
quando un
boato fortissimo prese l'attenzione di tutti e presto si
scatenò il
putiferio: una nuvola di fumo nero coprì il cielo verso un
palazzo e
le persone cominciarono a urlare come impazzite. Supergirl
scambiò
un'occhiata d'intesa con Alex e prese subito il volo.
«Dobbiamo
raggiungerla», urlò
l'agente, correndo verso la moto; si ricordò di avere con
loro un
bimbo solo quando lo mise a fuoco.
«Sarà a un
isolato da qui,
possiamo salire in tre, è urgente», la
rassicurò Maggie,
intercettando i suoi pensieri. Prese il casco che le era stato
affidato e lo allacciò al piccolo Dexel che, per una volta,
sorrise.
Con Alex alla guida e con
Maggie
che stringeva il piccolo in mezzo a loro, partirono, correndo verso
le urla. Hank chiamò quando ancora non erano arrivate,
chiedendole
di indagare se l'essere spuntato dal nulla che stava creando caos
fosse in un qualche modo collegato con il piccolo alieno di origini
sconosciute. Quando arrivarono, per prima cosa videro per aria
Supergirl che veniva sbalzata contro un palazzo a una
velocità
sorprendente. L'aria era irrespirabile a causa di un incendio e Alex
guidò la moto attraverso la gente che scappava, con molta
cautela,
dando particolare attenzione ai blocchi di cemento staccati
dall'asfalto. Appena videro contro chi stava combattendo la Ragazza
d'Acciaio, restarono a bocca aperta entrambe: quell'essere sospeso da
terra aveva una postura ritta, non indossava indumenti e gli si
vedeva la pelle grigia, una testa lunga e senza spigoli che ricordava
un polpo. Naturalmente avevano già visto alieni di carattere
simile,
ma quell'essere in modo specifico aveva un'aria molto diversa, come
se, stando fermo in quel modo in mezzo al cielo, non avesse
determinate intenzioni; sembrava vuoto.
Supergirl si riprese in fretta
e
tornò all'attacco. Alex fermò la moto e, mentre
scendeva, disse a
Maggie che il DEO stava inviando i suoi agenti che sarebbero arrivati
a breve. Videro alcune persone in difficoltà a raggiungere
un luogo
sicuro e Maggie corse ad aiutarle prima che potesse fermarla; per un
attimo, Alex si sentì con le mani legate: non poteva fare
nulla con
un bambino da controllare, fino a che non pensò di prenderlo
semplicemente in braccio e di correre ad aiutare i feriti. Lui
alzò
il visino al cielo solo un momento che Alex lo trascinò via.
Lei e
Maggie portarono in salvo quelle persone appena prima che l'incendio
si espandesse con una vampata improvvisa.
Una squadra di agenti del DEO
arrivò proprio sul punto si vedere Supergirl sbalzata ancora
una
volta sull'asfalto da quell'essere nel cielo. Lui la guardò
e rimase
a farlo come in attesa, ma la ragazza non riusciva più ad
alzarsi:
non vedeva che rosso e, appena tentò di rimettersi in piedi,
ricascò
sulla terra frantumata alla sua prima caduta.
«Sta
soffrendo», emise Dexel a
un certo punto, guardando Alex che, chinata, controllava la ferita
sul ginocchio di un'anziana.
Lei spalancò gli
occhi e si
guardò subito indietro alla ricerca di Supergirl,
rimettendosi in
piedi.
Maggie fece lo stesso, prima di
gridarle di andare: «Ha bisogno di te, vai! Qui ci penso
io».
Alex scattò
immediatamente,
controllando in cielo la creatura che, ancora, non sembrava emettere
alcuna emozione. Impassibile, lui fissava Supergirl senza respiro;
capendo che non si sarebbe rialzata per affrontarlo, allora il mostro
si mise di spalle e se ne andò svanendo nell'aria con una
velocità
che Alex non credeva possibile, superiore a quella della Ragazza
d'Acciaio. La ritrovò al centro di un piccolo cratere di
polvere e
macerie che ancora cercava di rialzarsi, finendo a terra di continuo.
«Non ci vedo, non ci
vedo»,
ringhiava mettendo le mani avanti, toccando l'asfalto sbriciolato
nella ricerca di un appoggio.
«Kara», la
chiamò e le prese
una mano; si spaventò quando capì che lei
tremava. «Kara, sono
qui, dimmi cosa ti senti».
«Non ci vedo,
Alex… È tutto
rosso! E devo essermi rotta qualcosa».
Doveva portarla via da
lì.
La riportarono alla sede del
DEO e
scattarono immediati controlli per accertamenti sulla sua salute. Si
era rotta un femore a causa di un colpo di quella creatura e aveva
riportato varie contusioni e graffi. Per la seconda volta da quando
si trovava sulla Terra, Kara poté vedere il suo sangue, non
appena
riuscì a vedere di nuovo: fortunatamente la
cecità era durata
diversi minuti che sì, le erano sembrati tantissimi, ma solo
dei
minuti, il tempo da dare al rosso di cui si era macchiata la sua
vista di dipanarsi poco a poco come nebbia. Lui era riuscito a
ferirla e Kara aveva provato paura, tuttavia si stava riprendendo in
fretta, sotto lo sguardo apprensivo di Alex che, seduta accanto al
suo lettino bianco, ancora le reggeva una mano fra le sue, calde.
«Mi fa ancora
male».
«Non
muoverti», la sgridò
prontamente Alex, passando il suo sguardo attento su ogni centimetro
del corpo di Kara, dal costume fiero rosso e blu alla fasciatura.
Hank si era chiesto se fosse stata necessaria una gessatura, ma lei
si rifiutò e i dottori acconsentirono a lasciarla solo dopo
essersi
accertati che l'osso si stava rimettendo al suo posto da solo e che
in fondo non ce ne sarebbe stato bisogno. «Non sei ancora
guarita
del tutto», aggiunse dopo un attimo, sorridendole.
«Sono messa
così male?».
«Un po'»,
rispose con dolcezza,
a bassa voce, mentre con due dita le accarezzava la fronte e i
capelli, e poi la guancia sinistra su cui era stato applicato un
cerotto. Quel graffio sembrava particolarmente duro a sparire e il
cerotto si stava di nuovo macchiando di rosso.
«Fa male»,
ringhiò, sentendo le
dita di Alex passare sopra la ferita. «Mi ha colpito con il
terzo
occhio, aveva una vista simile alla mia. Se non mi fossi spostata in tempo,
quella cosa mi avrebbe decapitata», mormorò con
evidente fastidio.
Solo in un secondo momento,
si ricordò dell'appuntamento con Lena e strinse i pugni con
forza,
corrugando lo sguardo. «Uh,
accidenti,
devo andare! Lena aveva detto che mi avrebbe aspettata
presto».
Alex si accigliò,
guardandola con
remora. «Adesso pensa a riposarti; Lena potrà
aspettare».
A metri di distanza, Maggie era
appoggiata contro un muro e guardava, attraverso il vetro della
stanza, Alex che si prendeva cura di Supergirl. Amorevolmente cura di
Supergirl. Non riusciva a staccarsi da quella visione, né
voleva
farlo. Trovava Alex tremendamente dolce, distante da quella ragazza
tirata e dura come voleva dimostrare di essere quando si erano
conosciute. Trovava che Alex fosse cresciuta, cambiata in meglio, che
si fosse aperta e scoperta e che le avesse fatto bene. Ed era
contenta di vederla in atteggiamenti teneri con Supergirl; era un
grande passo avanti e si sentiva fiera di lei ma… ma non
poteva non
ammettere di sentirsi in un qualche modo malinconica. Qualcosa la
disturbava, anche se cercava con ogni mezzo di fingere che
così non
fosse.
Il giovane Dexel era a pochi
metri
da lei, più vicino al vetro. Hank stava cercando qualcuno
che se ne
prendesse cura e che lo portasse fuori, ma nessuno sembrava essere
abbastanza capace o di fiducia e camminava avanti e indietro per i
corridoi come un avvoltoio. Mon-El si era offerto subito e lui lo
aveva ricacciato nella sua stanza. Diceva di non poter andare nei
monti tranquillo se prima non avesse trovato qualcuno di adatto al
piccolo alieno.
Maggie sospirò e
mosse le labbra
a formare un mesto sorriso, cogliendo l'attenzione del bambino. Si
accostò a lei tanto che quasi le era sui piedi.
«Non è
come credi», esclamò
con serietà.
Lei alzò un
sopracciglio e poi
guardò di nuovo attraverso il vetro insieme a lui, che
approfittò
dell'occasione per stringerle una mano con le sue piccole dita.
Eppure, sembrava proprio come
credeva. Alex non si mise il cuore in pace fino a che Supergirl non
riuscì a mettersi in piedi senza aiuti e, una volta uscita
dall'infermeria dopo di lei, Maggie le sorrise raggiante, come per
dimostrarle quanto avesse ragione. Alex scosse la testa e si
portò
una mano sui capelli, non facendo a meno di sorridere a sua volta,
seppure con palese imbarazzo.
«Non è
come credi», le disse
immediatamente, e il bambino, accanto, annuì come per dire
che
glielo aveva detto.
«Guarda che non
c'è niente di
male; puoi anche ammetterlo, Danvers».
Alex sbuffò e il suo
sguardo
incrociò quello del piccolo alieno che, sempre con molta
serietà,
sentendosi minacciato tentò di reggersi a Maggie con
più forza,
usando entrambe le manine. «E lui cosa fa ancora qui? Credevo
che
Hank stesse cercando qualcuno per lui».
Maggie scrollò di
spalle,
scuotendo la testa. «In mancanza di qualcuno, possiamo
portarcelo
dietro noi». Alex si pietrificò, dando una lunga
occhiata a lei e
così al bambino. «Cosa c'è, Danvers,
non ti piacciono i bambini?»,
continuò con tono canzonatorio.
Lei guardò altrove e
si sistemò
braccia a conserte, cercando di trovare una risposta, intanto che
restava con la bocca aperta. Infine annuì.
«Sì… quelli a cui
puoi togliere le pile».
Maggie passò una
mano sui
riccioli neri del bimbo, regalandogli un sorriso, e prese
l'iniziativa, cominciando a camminare mano nella mano con lui davanti
all'altra. «Dai, so io dove ogni bambino, anche uno piovuto
dallo
spazio, può passare del tempo spensierato». La
invitò a seguirla
con uno sguardo e Alex si ritrovò ad accettare, non
riuscendo a
trattenere un flebile sorriso.
La segretaria le aveva chiesto
di
aspettare mentre lei entrava nell'ufficio della signorina Luthor per
avvertirla del suo arrivo. Appena si era presentata davanti a lei, il
primo pensiero della donna era stato quello di dirle che la signorina
l'aspettava molto prima e che, non avendo telefonato per disdire,
aveva deciso di aspettarla, modificando tutti i suoi appuntamenti.
Oh, l'aveva fatta sentire in colpa. Forse era proprio quello che
sperava di ottenere, parlandole con quello sguardo dispiaciuto ma
tremendamente contrariato. Sapeva che poteva rivelarsi una pessima
abitudine, ma la curiosità vinse e col suo superudito
penetrò il
muro che le divideva, ascoltando la conversazione che avveniva dietro
la porta.
«Non ti avevo detto
di appuntare
che Kara Danvers può entrare quando vuole senza che tu debba
scomodarti?», sentì dire da Lena.
«H-Ha ragione,
signorina Luthor».
«Bene, allora.
Puoi-».
«Signorina?»,
la interruppe e ci
fu un attimo di silenzio. «Hanno chiamato per le-».
«Oh, no, no. Adesso
niente
lavoro, per favore».
Kara smise di ascoltare,
sistemandosi la gonna a tubo a righe e direttamente il colletto della
camicia color pastello. Il femore le faceva ancora male ma non era
più fratturato: invece di prendere l'ascensore, aveva deciso
di
salire tutte le rampe di scale per fare pratica ma, non appena si
fermava, riprendere a muoversi le costava parecchia fatica. Le
entravano i brividi al pensiero di dover affrontare di nuovo quel
mostro senza emozioni; aveva paura di non riuscire a fermarlo. Si
passò un dito sulla guancia sinistra dove lui l'aveva
sfregiata con
un laser dal terzo occhio ed ebbe come la sensazione che la pelle si
stesse crepando. Deglutì, ma non ebbe modo di vedersi allo
specchio
che la segretaria aprì la porta e la lasciò
entrare, tenendogliela
aperta e chiudendogliela alle sue spalle. Appena entrò
nell'ufficio,
l'odore della rosa rosa che la giovane Luthor aveva disposto in un
lungo vaso trasparente sulla scrivania la colpì per prima,
soffocando quasi del tutto quello del dolce profumo che lei amava
indossare.
Lena finì di firmare
un documento
e alzò la testa dalla scrivania, vedendola e sorridendole
con
dolcezza. «Vieni, accomodati pure», le
indicò una delle due sedie
disposte davanti a lei.
Kara fece due passi di scatto,
iniziando a portarsi le mani avanti. «Sono veramente
mortificata,
Lena! So che dovevo presentarmi prima, e so che non ho telefonato, ma
sono capitate un sacco di cose dell'ultimo minuto che mi mi
hanno-».
«Non è un
problema, Kara. Avevo
immaginato fossi stata trattenuta con tuo cugino».
Cugino?
Le balenò in mente il viso di Kal, ma per fortuna si
ricordò presto
di averle presentato Dexel con quella parentela.
«Sì», strinse le
labbra e increspò le sopracciglia, battendo le mani sulle
cosce,
«Denzel mi ha dato qualche piccolo problema… Ma
per fortuna sono
riuscita a risolvere e sono venuta qui lo stesso, con la speranza di
poter comunque avere la nostra intervista». Si sedette sulla
prima
sedia con educazione, piegando prima la gonna. «Male che
andava,
avrei preso un altro appuntamento».
Lena incrociò le
dita delle mani
e le dispose sopra i documenti nella cartellina sulla scrivania,
mettendosi dritta con la schiena e guardandola con attenzione, senza
abbandonare il suo sorriso, al contrario rimarcandolo con maggiore
radiosità. «Oh, avrei fatto di tutto per avere la
nostra
intervista», ribatté e Kara abbassò gli
occhi con imbarazzo, così
pensò di approfittarne per prendere blocco e penna dallo
zainetto
che si era portata dietro.
Lo aveva appeso alle sue spalle
e
girarsi per recuperarlo le aveva ricordato il momento in cui la
strana creatura aliena aveva violentemente scontrato una delle sue
braccia contro di lei, l'attimo in cui il suo osso si era fratturato.
Non poteva credere di aver potuto sentire un dolore simile. Era come
se quel mostro avesse potuto renderla umana solo toccandola; si era
sentita fragile. Subì uno scatto di dolore nel rimettersi
composta e
sorrise, sperando che l'altra non se ne accorgesse.
Parlarono molto, più
di quanto
Kara pensasse. Lena aveva delle vere e proprie liste di film che
amava e di altri che odiava, riuscendo a discutere di ognuno di loro
senza dimenticare un solo dettaglio, con oggettività e in un
secondo
momento dicendo tranquillamente la propria. Dondolava sulla sedia,
era diretta nel dire ciò che pensava, e a volte rideva tanto
che i
lisci capelli le cadevano sul davanti e lei si impegnava a rimetterli
dietro le orecchie con un gesto automatico. Notò perfino
che, se la
discussione la prendeva in particolar modo, aveva l'abitudine di
mordicchiare il tappo della penna. Kara non era riuscita a
trattenersi e su alcuni film si era sentita di intervenire, avevano
discusso, trovandosi in disaccordo ma anche d'accordo un buon numero
di volte. Non ci avrebbe mai creduto.
Kara si fermò per
scrivere degli
appunti sul blocchetto dopo aver dibattuto sull'ennesima pellicola
ma, invece di continuare il discorso, Lena si zittì e
l'ufficio,
dopo tanto parlare, sembrò prendersi una pausa. La giovane
donna si
distese sulla sedia e poggiò le braccia a conserte,
guardando
l'altra senza battere ciglio. Sorrideva mentre scriveva, assorta,
catturata da quelle lettere o, forse, ripensava al discorso. Non avrebbe
appuntato tutto, solo il necessario per stimolare i suoi ricordi e
scrivere un articolo più completo a casa. Era veloce; i suoi
occhi
azzurri giravano da sinistra a destra, da sinistra a destra. Quando
si fermava, faceva una buffa smorfia con il naso e la bocca, muovendo
gli occhiali, e così riprendeva a scrivere.
Lena la guardò
attentamente,
ancora, e infine si riavvicinò alla scrivania, poggiando i
gomiti e
tenendosi la testa con le mani; decise di interrompere quel silenzio
divenuto di troppo: «Sai, Kara». Lei
alzò lo sguardo dal
blocchetto e Lena cambiò espressione, spalancando gli occhi.
«Ma
tu sanguini»,
sussurrò, alzandosi immediatamente dalla sedia.
Kara si fermò,
abbassando il
blocco con la penna e passandosi lievemente un pollice sulla guancia
sinistra. Era lì, lo sentiva: il suo sangue. Lena le prese
il viso
con le mani e glielo girò per controllare il graffio,
chiedendole di
non toccarsi. Intanto che la giovane Luthor apriva la porta e parlava
con la sua segretaria, Kara fissò sul pollice sinistro la
macchiolina di sangue scarlatto che aveva raccolto dalla ferita. Era
così lucido; si sorprendeva sempre a credere fosse il suo.
L'altra
tornò dentro l'ufficio con dell'alcol e del cotone e li
poggiò
sulla scrivania, sedendo nella sedia accanto a quella di Kara che,
avendo le ruote, girò per avere la ragazza di fronte.
«Fammi dare uno
sguardo»,
esclamò, bagnando con l'alcol un pezzo del cotone.
Kara deglutì ma
lasciò che il
viso dell'altra si accostasse, guardando il taglio e così
iniziando
a tamponare con delicatezza, attenta quando la vedeva sollevare il
labbro superiore in una piccola smorfia di dolore. Temeva che, con
quella vicinanza, Lena Luthor potesse capire che lei e Supergirl
erano la stessa persona, ma il sangue aiutava a togliere il dubbio e
sperava così di non correre in rischi inutili.
«So a cosa stai
pensando», si
lasciò andare a una breve risata, guardandola negli occhi
una volta
sola, fugace. «La ricca figlia di papà che si
diletta nel fare
l'infermiera… Sarò anche stata in una scuola
privata, ma quando
sono stata abbastanza grande da decidere da sola, ho frequentato un
corso di pronto soccorso», confidò con fierezza.
Kara la scrutò e,
senza che se ne
accorgesse, si perse nei suoi scrupolosi occhi vitrei. «Non
l'ho
pensato», sorrise e Lena, guardandola, sorrise a sua volta.
«Come ti sei fatta
male?»,
domandò a un certo punto. Finì di pulirla dal
sangue e appallottolò
il cotone usato lasciandolo sulla scrivania di vetro, per poi
ripassare le dita sul graffio con fare interessato.
«È un taglio
netto…». Aveva notato la sua guancia sinistra un
po' rossa, prima.
«Oh»,
scosse piano la testa,
tentando di sorridere come mai aveva fatto in vista sua,
«D-Deve
essere stato il tagliacarte». Annuì e le
abbassò la mano, ma Lena
prese un altro pezzo di cotone e tamponò di nuovo: la ferita
era
rossa e temeva si riaprisse. «Sono un po' imbranata
e… mi era
uscito sangue, sai, poi ho cercato di sistema…
rmi». La sua voce
si affievolì quando la vide guardarla negli occhi. Era
fatta: Lena
l'aveva scoperta. Così pensò, ma il dubbio
svanì poco dopo poiché
non cercò di accusarla, non sembrò prendere
l'iniziativa per nessun
discorso mirato su Supergirl, non fece niente di niente se non
vederla con attenzione, squadrare il suo viso dettaglio dopo
dettaglio, ripassare i polpastrelli caldi sulla sua ferita alla
guancia e così lasciarli deviare verso un angolo della bocca
e poi
sul morbido labbro inferiore, in una carezza, come volesse baciarla.
Kara tentò un sorriso, sollevando impercettibilmente il
labbro sui
cui si era appoggiato il suo pollice destro, e pensò di
tirarsi
indietro, ma era tardi.
Già vicina, Lena
spostò la mano
di nuovo sulla guancia e poggiò le labbra rosse sulle sue,
socchiudendo gli occhi. Kara schiuse le sue e la guardò.
Stava per
chiudere gli occhi anche lei e lasciarsi trasportare, ma
preferì
divincolarsi e tirare fuori un sorriso di circostanza che fece ridere
Lena, che abbassò lo sguardo.
«Mi
dispiace… Devo aver
frainteso», si nascose il viso con una mano. «Sono
certa di essere
imperdonabile, ma ti prego, accetta le mie scuse», si morse
un
labbro e Kara non si lasciò sfuggire il suo rossetto rosso a
lato un
po' sbavato: probabilmente, un po' di quel colore era adesso sulle
sue labbra.
Intanto che Hank perlustrava le
montagne dove avevano trovato lo strano uovo con Dexel all'interno,
Alex era esonerata da ogni incarico che non riguardasse sorvegliare
il bambino alieno, e lei e Maggie erano passate a riprendere l'auto
della seconda prima di raggiungere l'obiettivo. Maggie aveva
allacciato le cinture al bambino nel sedile dietro e si era messa
alla guida, chiedendo all'altra di avere fiducia. Mentre lei faceva
manovra per parcheggiare a fianco ad altre automobili, Alex
alzò lo
sguardo verso il finestrino e adocchiò il cinema dall'altra
parte
della strada. Si domandò se avesse davvero intenzione di
entrare al
cinema con un bambino imprevedibile. Almeno, considerava, a quell'ora
del pomeriggio ci sarebbe stata poca gente e il rischio di creare
incidenti sarebbe stato minimo. Vedere che film, poi? Forse Dexel si
sarebbe annoiato, e più pensava al cinema e più
pensava che sarebbe
stato un po' strano: per Maggie era il suo giorno libero e invece di
passarlo con la sua nuova ragazza, lo passava con lei al buio e al
silenzio in una sala. Maggie prese il piccolo per mano e
attraversarono la strada; erano ormai davanti alle porte del cinema
quando Alex aprì la bocca per dirle che la sua ragazza ne
sarebbe
stata sicuramente gelosa, che lei lo sarebbe stata, ma non la vide
fermarsi e la seguì. Si lasciò andare a una
faccia sorpresa
bloccando i passi a qualche locale più avanti, di fronte
alle porte
della sala giochi.
Entrarono e Dexel
restò a bocca
aperta nel vedere tutte quelle luci e quei suoni che riempivano i
saloni; era pieno di bambini, di risate, di adulti e ragazzi che si
divertivano con i flipper, con i videogiochi.
Maggie sorrise fiera, guardando
Alex che, considerava, non aveva l'espressione poi molto diversa da
quella del bambino. «Che ti avevo detto?».
«Ricordami di non
dubitare mai di
te».
Si affacciarono al banco e
comprarono dei gettoni, spiegando brevemente al piccolo alieno come
funzionava; lui sembrò capire in fretta e sparì
dai loro occhi,
correndo a sedersi davanti a un videogioco, in mezzo ad altri
bambini.
Alex allungò lo
sguardo,
seguendolo ad ogni movimento, vedendolo iniziare a giocare con un
sorriso innocente stampato sulle labbra. «Dici che
andrà tutto
bene?».
«Ah, ho
capito», esclamò
l'altra, al suo fianco, «Sei una di quelle mamme apprensive,
Danvers».
L'altra arrossì,
cambiando
espressione. «È il mio lavoro»,
tuonò, seccata.
Maggie sorrise di nuovo e le
sventolò qualche gettone dinnanzi agli occhi, piazzandosi
davanti a
lei. «Allora, vuoi giocare?», le
domandò, ammiccante.
Alex, che non aveva ancora
tolto
occhio di dosso al piccolo e si assicurò che stesse davvero
giocando
sereno, le prese i gettoni dalle mani. «Accetto la
sfida», sorrise,
aggrottando le sopracciglia, «Ma non vincerai mai».
«Questo
perché non sei per
niente competitiva, uh?».
Si guardarono attorno e
decisero
di non stare troppo lontane dal bambino, nel caso lui le avesse
cercate o in qualunque altro caso, così iniziarono la sfida
con un
semplice flipper.
Maggie tenne d'occhio la
pallina
argentata dietro il vetro per un po', intanto che Alex mugugnava
improperi, attenta a non farla cadere, sbattendo le mani sui pulsanti
del gioco con forza, facendolo tremare e strisciare sul pavimento a
scacchi bianchi e neri. Poi guardò semplicemente lei. Alex
era così
rapita da quel gioco. Muoveva ogni singolo muscolo facciale:
arricciava il naso, piegava la bocca da un lato, di tanto in tanto si
morsicava un labbro, gli occhi erano pieni, attenti, si muovevano
velocemente e le sopracciglia cambiavano a seconda di dove finiva la
pallina, rendendola aggressiva o esaltata in meno di un secondo. Alla
fine urlò, alzando le braccia all'aria, quando la pallina le
sfuggì
cadendo giù e perse. C'era così tanto chiasso in
quel salone, tra
la musica ad alto volume diffusa dalle colonne dell'audio e dalle
voci e risate dei clienti, che nessuno fece caso a lei. Si
girò e
trovò Maggie che la guardava. Abbassò gli occhi
con imbarazzo ma
lei nemmeno si mosse, finché non le diede il cambio.
Le cose tra loro funzionavano
così, pensò Alex. Sapeva di avere una cotta per
lei, ormai lo aveva
capito e stava cercando di accettarlo con il tempo, ma Maggie, che
non sembrava averla nemmeno presa in considerazione, a volte la
guardava in modo tale da metterla in difficoltà. In
quell'ultimo
periodo era uscita con una ragazza dietro l'altra, e in più,
adesso,
osava fare battute sul suo rapporto con Supergirl: non poteva proprio
permettersi di guardarla in quel modo.
«Mi sa che abbiamo
trovato una
cosa in cui sono più brava di te, Danvers»,
esclamò orgogliosa: i
punti sul tabellone continuavano a salire.
«Pfiu,
figurati, è solo fortuna», si mise le braccia a
conserte, poggiando
con il fianco sul tabellone che schizzava luci e suoni continui.
«Ed
è un gioco stupido», spalancò gli occhi
come per dare più enfasi
alle sue parole.
Maggie si voltò per
guardarla
negli occhi, alzando un sopracciglio.
«Davvero»,
continuò Alex, «Lo
saprebbe fare anche il bambino arrivato sulla Terra ieri
notte».
«Sei invidiosa
perché hai perso,
ammettilo».
«No».
«Ammettilo».
«D'accordo, allora
voglio vedere
che sai fare con quello». Alex le indicò l'hockey
da tavolo
dall'altra parte della sala, appena tornato libero, e Maggie
guardò
lui e poi lei, annuendo.
«Ci sto».
Un punto per una, poi il
vantaggio, un altro punto, un altro. Alex vinse e lasciò a
Maggie il
compito di decidere il gioco successivo. Passarono da un tavolo
all'altro, da un seggiolino a un altro, finendo per sedere dentro due
macchine da corsa davanti
al grande schermo di un computer in una gara all'ultimo percorso. Le
navette
si muovevano quando le due giravano il volante a destra e sinistra,
simulando la corsa. Sul veicolo giallo, Maggie era in vantaggio e
correva speditamente verso il traguardo, ma quella rossa di Alex era
in agguato e guadagnò terreno in fretta. Era ormai a poco da
lei.
Ancora poco. La macchina rossa aveva raggiunto la gialla, ma lei
aveva già superato lo striscione nero e bianco del
traguardo.
Maggie si lasciò
andare a una
risata divertita e Alex uscì dalla navetta per prima,
mantenendo un
sorriso.
«Oh,
oh»,
uscì anche lei e socchiuse le labbra in una smorfia,
«È quello lo
sguardo della perdente? Mi piace quello che vedo».
Alex, appoggiata al muro,
roteò
gli occhi e tentò di non sorridere, lasciando che Maggie le
arrivasse più vicina. «La mia doveva essere
difettosa».
«Difettosa?».
Annuì, scuotendo la
testa.
«Assolutamente. O non avrei mai perso in quel
modo… con così poco
stacco», scosse brevemente la testa e mise su un ghigno.
Maggie le
sorrise e la guardò di nuovo in quel modo. Non poteva farlo,
pensò
Alex; non ne aveva alcun diritto. Il suo cuore perse un battito,
mentre ricambiava lo sguardo.
«Quindi?».
La voce calda di
Maggie le rimbombò in petto.
«Quindi…
magari vuoi la
rivincita», alzò le sopracciglia. Le
fissò le labbra, non riuscì
a farne a meno. Temeva lo scoprisse e voleva distogliere lo sguardo,
ma non ci riusciva, era come rapita. Sarebbe stato palese, doveva
fare qualcosa, ma in fondo non voleva. I loro volti erano
così
vicini che baciarla sarebbe stato un attimo, a quel punto. Era solo
un attimo.
Non dissero più
nulla. Alex
appoggiata contro il
muro bordeaux, Maggie a poco da lei come le macchine da corsa sul
computer del gioco. Quest'ultima si tirò un po'
più avanti,
mettendosi sulle punte dei piedi, ma le grida forti di qualche
bambino le fece perdere l'equilibrio e le cadde addosso. Si rimise
composta e si scusò, allontanandosi, ma non osò
guardare l'altra in
faccia che, rossa, si era girata con la stessa velocità. Ad
Alex
parve di deglutire un macigno, o il suo cuore, o entrambi insieme:
per un secondo appena che fosse, aveva avuto Maggie sul suo petto.
Letteralmente. Dopotutto, l'idea di farle vincere quella stupida
gara con le macchine da corsa non era stata affatto male.
Un altro grido irruppe nei loro
pensieri e, ricordandosi entrambe di non aver più
controllato il
bimbo alieno con loro, corsero come saette nel salone accanto
dov'erano sicure provenissero le grida. Superata l'arcata, passarono
dal pavimento a scacchi a quello morbido formato da pezzi di puzzle
colorati e numerati, accorgendosi subito che quella era la zona
dedicata ai più piccoli: da un lato c'era un alto scivolo
gonfiabile
che finiva su una piscina di palle colorate circondata da una rete,
dall'altra un castello gonfiabile pieno di bambini scalzi che
rimbalzavano, più avanti c'erano altalene e altri scivoli, e
al
centro della sala piccoli tavoli colorati con pastelli e fogli
gettati ovunque. Videro subito che molti bambini si trovavano nella
zona vicino alle piscina delle palle colorate, e avvicinandosi
udirono qualche altro grido.
«Ehi»,
tuonò Alex, piombando in
mezzo a loro. Afferrò Dexel per un braccio e lo
tirò indietro, nel
momento in cui Maggie tenne fermo l'altro bambino che lo aveva
spinto. «Che vi prende?».
Era surreale vedere quanto
animo
ci mettessero ad accusarsi fra loro di essersi spinti, di essere
bugiardi e di essere traditori, dal momento che si conoscevano
massimo da una mezz'ora. Lo presero per una mano ognuna e lo
portarono via, ma non fece storie e, una volta in auto,
ricordò a
entrambe che quel bambino stava barando e che nessuno aveva creduto a
lui che diceva la verità poiché nessuno lo aveva
visto, ed era una
cosa ingiusta. Alex cominciò a capire il reale motivo per
cui Hank
non volesse che quel bambino restasse alla base: non tanto
perché
fosse imprevedibile, ma perché il DEO nascondeva molti
segreti e
tutto avrebbe preferito rischiare meno che un bimbo alieno ci
mettesse il naso.
Maggie mise appena in moto
l'auto,
che un forte rimbombo dalla strada fece tremare i vetri dei
finestrini e le due si scambiarono un'occhiata, allarmate: l'alieno
misterioso era tornato.
Kara deglutì,
allontanandosi col
sedere sulla sedia tanto quanto la sua testa da quella situazione di
disagio. Lena l'aveva baciata. Per un solo e piccolo attimo, aveva
pensato lo avrebbe fatto, ma da quel pensiero alla realtà
dei fatti
c'era molto altro. Non pensava certo che lo avrebbe fatto davvero. Lo
aveva fatto davvero!
Kara spalancò gli
occhi e abbassò
il volto rossastro, riuscendo a sentire ancora sulle sue labbra
quelle di Lena. La spiò con la coda dell'occhio, sopra gli
occhiali,
e percepì l'impaccio dell'altra quasi quanto il suo. Doveva
fare
qualcosa, dire qualcosa, qualunque cosa purché quel momento
finisse.
«N-Non-»,
iniziò, biascicando;
«Non hai frainteso», disse infine, gettando fuori
ciò che aveva
sulla punta della lingua. Lena sorrise e Kara si sentì
esplodere,
tanto che saltò dalla sedia quando udì il suo
cellulare vibrare.
«D-Devo rispondere». Si portò in piedi
come se la sedia fosse
fatta di spine e avvicinò il cellulare a un orecchio,
guardando Lena
che si alzava e ripuliva la scrivania, gettando nel cestino, in un
angolo dell'ufficio, il cotone usato.
«Supergirl,
lui è tornato»,
strillò Alex al telefono. In sottofondo, Kara sentiva rumori
confusi, metallo, un vento forte, le voci di qualcuno. «Te
la senti?».
«Arrivo»,
rispose intanto che
riattaccava, facendosi seria. Riportò il cellulare nella
borsa e
Lena, appoggiata con una mano sulla scrivania, la squadrò
con
attenzione.
«L'intervista
è finita, eh?»,
schiuse le labbra fino a formare una smorfia dispiaciuta.
Kara aprì la bocca
ma si accorse
di non dire nulla quando pensò che la stava fissando troppo
a lungo.
Allora cominciò ad agitarsi, imbarazzata, e riprese tutte le
sue
cose sottobraccio. «H-Ho raccolto abbastanza…
abbastanza
materiale», si rimise a posto gli occhiali, annuendo con un
sorriso
di circostanza. «Poi ti… ti farò
sapere, okay? Ora sono proprio
di fretta». Si salutarono con un gesto veloce, lontano, e
Kara
chiuse la porta dietro di lei una seconda volta, poiché
nella prima
le cadde la borsa che ostruì il passaggio. Si sorrisero di
nuovo,
prima che se ne andasse.
Lena prese un grande sospiro e
si
poggiò con peso sulla scrivania. Intanto, Kara
aprì la porta per le
scale antincendio e, correndo verso l'esterno, sfilò i
bottoni della
camicia, mostrando il costume blu su cui era cucito in rosso
l'emblema della Casata degli El: Supergirl stava arrivando.
Non riusciva a non ammettere a
se
stessa che scontrarsi ancora contro quell'essere le metteva quasi
paura. Non avrebbe saputo definire ciò che provava in nessun
altro
modo. Eppure era in seria difficoltà se pensava di preferire
combattere contro la creatura sconosciuta oppure affrontare Lena
Luthor e quello che c'era stato. Sapeva cosa provava al pensiero di
avvicinarsi di nuovo a quell'alieno senza emozioni, al contrario non
era altrettanto certa su cosa provasse per quella donna. Stavano
diventando amiche, credeva. Non era sicuramente questo che si
aspettava quando aveva lasciato James in nome della loro amicizia.
Che significato poteva avere quella parola, adesso?
Volò in fretta sugli
edifici,
seguendo i rumori, i crolli, le urla. Arrivò appena in tempo
per
fermare un grosso blocco di cemento dal cadere sull'asfalto e colpire
una macchina. Lo sollevò e lo lanciò dove non
poteva far del male a
nessuno. Inquadrò Alex e Maggie, più in basso,
che aiutavano a
liberare l'area. Al loro fianco, Dexel sembrava disorientato.
«Si può
sapere da dove spunti
fuori?», domandò poi alla creatura
lassù in cielo che, impassibile
come suo solito, la fissava senza muovere un solo muscolo, neppure
facciale. «Perché sei qui, cosa vuoi?».
Lui aprì la bocca e,
con un
fischio molesto, emise dei suoni che a stento, Kara, riusciva a
percepire come una voce: lui mugugnò con fatica qualcosa di
incomprensibile e dopo lo ripeté.
All'improvviso, il mostro si
mosse
e planò verso il basso rapidamente, tanto che Supergirl
decise di
seguirlo: si stava dirigendo verso delle persone. Lo bloccò
appena
in tempo e cercò di riportarlo in alto, ma lui si oppose e
pensò di
colpirla al femore ferito in precedenza, gettandola contro dei
pilastri. Questa volta non aspettò che Supergirl tornasse
all'attacco e corse contro di lei con velocità inaudita,
afferrandola fermamente per le braccia e lasciando che lei
spalancasse gli occhi azzurri per farli specchiare nei due suoi
principali, neri come il buio più fitto. La luce rossa la
investì
come un lampo accecante e si divincolò, volando via, in
alto, senza
sapere realmente dove andare.
Alex lasciò la mano
di una donna
che stava aiutando ad allontanarsi dalla zona colpita e
ricercò
Supergirl nel cielo, guardando irrequieta sopra i palazzi. L'aveva
vista volare ma era sparita. Doveva essere di nuovo cieca, e forse
ferita. Maggie le chiese se la vedesse da qualche parte, sapeva che
stava cercando lei, ma Alex riuscì a stento a scuotere la
testa.
Una voltante del DEO piena di
agenti si fermò davanti ad alcune macerie e loro, appena
misero
piede sulla terra sbriciolata, si posizionarono in fretta e
cominciarono a sparare contro l'alieno tutti i colpi che avevano in
canna. Niente sembrò fargli male: i proiettili entrarono nel
suo
corpo come burro e un liquido bluastro e gelatinoso scivolò
giù, ma
in lui non ci fu alcun cambiamento, alcuna emozione, nessun danno che
sembrasse davvero sortire gli effetti sperati. Il mostro
calò su di
loro e accecò tutti mentre, con il terzo occhio e la sua
vista
laser, tagliava il furgoncino nero in due.
Supergirl provò a
fermarlo,
poteva sentire i suoi movimenti, ma la creatura le diede un colpo
tanto forte da scagliarla di nuovo lontano. Alex si mise in mezzo e
sparò, ma tutto pareva realmente inutile. Lui non la
degnò di
sguardo e seguì la Ragazza d'Acciaio che, prendendo respiro,
cercando di riprendersi, si mise a volare per farsi seguire, per
portarlo lontano dalla città; purtroppo il mostro fu
più veloce,
lei non vedeva dove stava andando, e la colpì con uno
schiaffo in
pieno petto, facendola precipitare a terra, che tremò al suo
arrivo.
Supergirl ansimò,
tentando di
staccarsi l'asfalto che, per la potente caduta, l'aveva incastonata
al suo interno. Non vedeva e sentiva il suo corpo farsi sempre
più
lento, come se avesse potuto paralizzarsi. Dallo spostamento d'aria,
percepiva distintamente la creatura aliena che si avvicinava a lei
con rapidità. Non le avrebbe lasciato respiro.
L'alieno chiuse i due occhi
principali e tenne spalancato solo il terzo, sulla grigia fronte
squamosa, pronto a centrare il nemico. Alex gridò; Supergirl
non
riusciva a rialzarsi. L'occhio s'illuminò di rosso e la
bestia emise
un verso, fino a quando un proiettile non colpì proprio il
bulbo
oculare e, come accadde per il resto del suo corpo, l'essere non
provò dolore, ma il suo laser parve essere stato messo fuori
uso.
Disorientata, la creatura spalancò gli altri due occhi e si
mise
alla veloce ricerca del bersaglio successivo: chi gli aveva sparato.
D'istinto, Maggie
sparò qualche
altro colpo e lui balzò su di lei, facendola cadere a terra
e
accecandola con la sua vista; subito dopo, tentò di colpirla
con un
braccio e lei si spostò appena in tempo per non essere
uccisa, ma
gridò quando si accorse che il braccio sinistro era rimasto
vittima
dei suoi tre lunghi e affilati artigli. Alex sparò in corsa
verso di
loro.
J'onn intervenne appena in
tempo,
spingendo la creatura da un lato, gridando con tutta la voce che
aveva in corpo: «Chiamalo!».
Tutti si girarono e la fine
voce
del piccolo Dexel tagliò la scena. Disse una parola, una
soltanto, e
il mostro alieno si arrestò, tornando indietro al volo fino
a
inchinarsi a lui. Un uomo e una donna di colore affiancarono il
bambino e gli passarono davanti, toccando ognuno un lato della testa
della creatura che, diventando rossa sul punto delle loro mani, cadde
a terra senza conoscenza.
Nessuno voleva credere che ogni
cosa accaduta da quando trovarono la navicella a forma di uovo non
era altro che il frutto di un malinteso. Per cominciare, non era
stato Dexel a cadere sulla Terra la notte prima, ma solo la creatura
che, per il popolo degli hicannum, era un protettore. Dexel viveva
con la sua famiglia sui monti già da mesi e, quando dal
cielo arrivò
il loro protettore con la navicella a forma di uovo, il bambino si
infilò là dentro per schiacciare un pisolino
com'era abituato a
fare nel loro pianeta natio. In ogni caso, non importava quanto fosse
essenziale per gli hicannum il loro protettore, un essere androide
creato per la salvaguardia della prole, Hank lo fece mettere sotto
sequestro al DEO: difficilmente lo avrebbero riavuto.
In quanto a Dexel, lui e i suoi
genitori se ne sarebbero andati a breve: Hank aveva promesso che li
avrebbe aiutati ad ambientarsi in città, invece di
rifugiarsi sui
monti.
Alex si affacciò al
vetro della
camera infermieristica chiuso da una tenda color panna. C'era uno
spiraglio, a destra, e spiava al suo interno. Era stata là a
guardarla da quando le diedero un sedativo per operarla al braccio.
Quando la vide muoversi, decise di entrare.
«Ehi», le
sorrise, appoggiandosi
allo stipite della porta, disponendo le braccia a conserte.
«Ehi»,
replicò Maggie scuotendo
la testa ancora confusa, mettendosi seduta su lettino. Alex chiuse la
porta e andò subito ad aiutarla, reggendole il braccio
ingessato e
portandole la fascia per tenerne il peso.
Si scrutarono a vicenda con
attenzione, intanto che glielo infilava dietro il collo.
Maggie se lo guardò,
facendo una
smorfia con le labbra. «Immagino che dovrò
chiedere un permesso al
lavoro».
Alex non rispose, scrutandola
ancora, prendendo respiro e, un po' agitata, mettendo le mani nelle
tasche dei pantaloni. Stava per parlare, ma l'altra la interruppe:
«Lei come sta?
Supergirl,
intendo, sta bene?».
Annuì.
«Sì», sorrise, «Sì,
si è ripresa in fretta, lei era… molto
stanca», abbassò lo
sguardo impacciato e poi finalmente prese un po' di coraggio,
guardandola negli occhi. «Grazie per averla salvata, per
aver…
aver salvato mia sorella».
Maggie si tirò
indietro con la
testa, spalancando gli occhi. «Cosa…
Stai dicendo che
Supergirl… Kara… Kara è Supergirl, tua
sorella?».
Nel vedere la sua espressione
sorpresa, Alex non poté fare a meno di ridere.
«Beh, adesso sai
perché non ho una relazione con lei».
«Oh, ho
frainteso… Dovresti
trovarti una ragazza vera, Danvers».
Lei si lasciò andare
a una risata
sarcastica, roteando gli occhi. «Un po' come fai tu, una
ragazza
nuova ogni tanto».
«Perché
no?!», sorrise.
«Perché
no…?! Che trascuri nei
tuoi giorni liberi per passare del tempo con un'altra donna e qualche
alieno».
«Sì»
annuì, «Beh, non era una
cosa seria… comunque, oggi non ero con lei, abbiamo rotto
ieri
sera».
«Oh»,
Alex schiuse le
labbra, cambiando espressione. «Non lo sapevo, mi dispiace
che con
lei non abbia funzionato», si girò, sbattendo una
mano sul
pantalone.
Ci fu un attimo di silenzio,
speso
da Maggie, con un sorriso perenne sulle labbra, per ponderare la
curiosa reazione di Alex. «Ti dispiace?», le
domandò, infine.
Alex sospirò,
girandosi di nuovo
verso di lei, con uno scatto. «Proprio no»,
sibilò con decisione e
affondò le labbra nelle sue, portando la mano destra dietro
la nuca, nei suoi capelli scuri.
Kara uscì dalla sua
camera,
forzando le gambe che ancora le facevano un po' male. Hank
passò lì
davanti e la guardò con curiosità intanto che
camminava, facendole
notare che il rossetto rosso le si era sbavato via. Imbarazzata,
provvide a toglierselo immediatamente con una manica. Dexel
l'aspettava a pochi metri, nel corridoio ben illuminato. Si
avvicinò
e, sorridendo, gli poggiò una mano sulla testa per una
carezza,
scompigliandogli i ricci neri.
«Adesso te ne vai,
eh?».
Lui annuì e
sforzò un sorriso,
poco prima di tornare serio. «Ti devo dire una
cosa».
«Dimmi».
Lui si guardò
attorno e,
assicurandosi che non ci fosse nessuno, parlò: «Lei
lo sa».
I genitori lo
chiamarono e lui
corse via, saltando in braccio a sua madre, mentre Kara lo guardava a
bocca aperta, sovrappensiero. Lei lo sapeva. Lena sapeva che lei era
Supergirl.
Mia prima fan fiction in
questo
fandom. Spero vi sia piaciuta ^_^
Fatemi sapere cosa ne pensate
e
alla prossima ~
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