Buonasera a tutti voi. Torno nuovamente nel fandom con una storia che
per me significa molto. C'è tanto di me in quanto pubblico
di seguito e, vi dirò, scrivere è un vero e
proprio parto questa volta. Costruire certe situazioni non viene
semplice e certi demoni ancora infestano la mia testa. Ho deciso di
esorcizzare questi demoni in un modo a me familiare: scrivendo di loro.
Alcune dovute precisazioni: ho dovuto, per esigenze di servizio, dare
un cognome a tutti i personaggi (come Miroku ed Inuyasha, per esempio)
ed un nome al povero senzanome
Hojo, usando quello di Akitoki per comodità!
Detto questo, vi auguro buona lettura ;)
Hope
Un vetro si infranse.
Mille schegge costellarono il pavimento
di legno scuro come piccole stelle in un cielo notturno.
Kagome si era fatta piccola piccola,
stretta e raccolta in un angolo del soggiorno in attesa che
l'ennesima sfuriata di suo marito terminasse. Neanche ricordava che
cosa l'avesse reso così furente, ma Hojo era fatto
così da un po'
di tempo a questa parte: dipendeva da quale primo pensiero lo colpiva
la mattina appena sveglio.
In quei momenti la ragazza faceva finta
di sparire. Chiudeva gli occhi, respirava lentamente con una mano
posata sul petto mentre cercava, inutilmente, di controllare i
battiti del suo cuore impazzito. Cercava di tramutare in fatti quel
desiderio di annichilimento totale serrando le ginocchia verso il
torace, calando le palpebre sulle iridi nocciola, pensando ad un
luogo lontano, sicuro. In quei casi, se le violente mani di Hojo la
raggiungevano con gesti poco delicati, sentiva solo l'eco di un
dolore sordo là dove veniva toccata: il corpo era
lì, la mente
trasmigrata in chissà quale remota regione.
Certe volte tornava al liceo, con le
sue amiche, discutendo di un compito in classe; altre volte si
trovava nella sua camera da letto a punzecchiare dolcemente le
orecchie del suo gatto Buyo.
Poi la tempesta finiva, la pioggia
cessava di cadere sulle sue membra stanche, ed a lei non restava
altro che raccogliere le macerie del suo corpo, della sua anima, e
riarrangiarle alla meno peggio.
Era come un vaso rotto, i cui cocci
venivano saldati con oro colato per garantire al pezzo una sua
unicità, un valore intrinseco. Ma per Kagome non c'erano
oro, né
cocci: solo lembi lacerati di un'anima distrutta che non avrebbero
mai e poi mai combaciato di nuovo. Per quanto lei tirasse quei pezzi
l'uno accanto all'altro, per quanta lena ed accanimento ponesse in
essere per ricostruirsi daccapo ogni volta, non riusciva comunque a
ricostruirsi salda ed eretta come un tempo.
Era un edificio diroccato e
traballante, un animale che cercava inutilmente di strisciare con le
sue ultime forze lontano da quel predatore che puntava alla sua
giugulare con zanne affilate. Eppure quei canini non affondavano mai
nella sua carne per l'ultimo colpo di grazia.
Sembrava che quel predatore si beasse
della vista di quella preda in affanno, zoppicante verso una salvezza
lontana. Saggiava la sua schiena tremante con occhi attenti mentre le
stava abbastanza lontano da permetterle di avere una fioca speranza
di vita, abbastanza vicino da poterla cogliere con un semplice,
piccolo balzo.
Gonfiava il petto tronfio di un
orgoglio tipicamente animalesco: la supremazia assoluta su una
creatura più indifesa, l'esercizio del diritto di veto sulla
sua
sopravvivenza.
Insulti misogini di ogni tipo uscivano
dalle labbra di suo marito, i suoi occhi guizzavano di una luce
malata, una sorta di estasi orgasmica contraeva i suoi muscoli
mentre, concitato, si muoveva davanti a lei senza scopo prefissato,
né meta. Era riuscito a colpirla un paio di volte, forse
tre, poi
Kagome si era rannicchiata sul pavimento con lo scopo di proteggere
quanto di più delicato avesse: il viso. Si era resa conto,
nel corso
del tempo, di come il suo desiderio di nascondere il volto in primis
nascondesse in realtà una motivazione sordida e malata: le
ecchimosi
su braccia e gambe erano facili da nascondere, ma la faccia... Beh,
svettava per prima là dove doveva essere. Una manica lunga
non
poteva nascondere un labbro spaccato o uno zigomo violaceo.
Qualcuno avrebbe notato, qualcuno
avrebbe supposto, qualcuno avrebbe chiesto.
Il
fatto che lei stessa nascondesse al mondo la condotta recidiva di suo
marito non riusciva a spiegarselo, ma così era,
così andava. Non
ricordava più come si potesse vivere in qualsiasi altro modo.
La sua
mente felice vagava, ma vagava saldamente sicura di tornare alla sua
stabile, venefica realtà da un momento all'altro.
Se
Kagome stessa si fosse ritrovata per davvero in quella situazione che
prendeva vita nella sua mente durante uno dei suoi viaggi astrali,
sarebbe stata di nuovo in grado di comportarsi in modo consono,
adeguato? La risposta la spaventava.
E poi,
quando Hojo era tranquillo, quando non dava di matto le cose andavano
piuttosto bene, no?
No?
Suo maritò lasciò
improvvisamente la stanza come una furia per recarsi davanti al
portone d'ingresso.
Solo allora Kagome
si accorse che il campanello stava insistentemente suonando e senza
pensarci si lasciò scappare un sospiro sollevato.
Ma lo smorzò:
nessuno le poteva promettere che, terminata l'inaspettata visita,
Hojo non avrebbe ripreso dal punto in cui era stato interrotto.
La voce che arrivò
dall'ingresso era anziana e preoccupata.
<< Se questa
storia non finisce immediatamente, chiamo la polizia. >>
Riconobbe in quel
tono sicuro la vecchia vicina del piano di sotto, Kaede, quella
graziosa, gentile nonnina che spesso l'aveva fermata lungo le scale
afferrandola per le spalle mentre le narrava una bellissima favola:
per lei c'era di meglio là fuori, un uomo vero che avrebbe
saputo
trattarla come la meravigliosa creatura che era.
A Kagome piaceva
quella storia. Le faceva credere che da una qualche parte del mondo
esistesse qualcuno che poteva rispettarla, forse amarla come
meritava.
Ma il coraggio di
compiere un solo passo al di là della soglia della sua
quotidianità
le mancava.
Pensava che solo
esseri umani meno mediocri di lei meritassero un sentimento tanto
puro come l'amore. Cos'aveva Kagome di speciale affinchè
qualcuno la
ritenesse migliore di qualcun altro, tanto da farla entrare nella sua
vita? Nulla.
Ascoltò
distrattamente Hojo mentre inveiva contro l'anziana Kaede,
raccomandandole caldamente di farsi gli affari suoi. Poi la porta
sbattè violentemente ed il marito le passò
davanti lanciandole
un'occhiata gelida prima di recarsi in bagno.
Kagome ebbe il
tempo di ricomporsi quel tanto che le bastava per abbandonare
l'istintiva protezione di difesa ed alzarsi in piedi e, senza che la
minima emozione trasparisse dai suoi gesti o dal suo viso,
cominciò
a raccogliere i cocci di quell'ennesima litigata.
Raccoglieva pezzi
di vasellame e pezzi di sé stessa, buttando distrattamente
tutto
nell'immondizia senza il minimo rigore di logica.
Era così che stava
andando? Si stava lentamente buttando via una litigata dopo l'altra?
Cos'avrebbe fatto
una volta raccolto e buttato l'ultimo scarto che sarebbe rimasto di
lei non lo sapevo. Qualche pezzo ancora le restava ed andava bene
così.
Spazzò via con la
scopa le ultime piccole macerie, spazzò via dalla sua mente
l'ultimo
pensiero logico che avrebbe potuto adombrarla, ed attese paziente, in
piedi al centro della stanza, che Hojo si spostasse di nuovo in
un'altra stanza. Un'altra stanza qualsiasi, a patto che non fosse
quella in cui lei stava cercando di sopravvivere.
Un paio di ore più
tardi il campanello suonò di nuovo.
Interruppe una
quotidianità che, ad occhio ignorante, sarebbe anche parsa
tranquilla: i due coniugi, seduti sul divano l'uno accanto all'altra,
stavano guardando senza interesse uno sceneggiato comico in
televisione in un soggiorno avvolto dalla penombra.
Uno sguardo esperto
ed attento avrebbe notato, invece, l'atono sguardo di lui che
osservava senza cogliere davvero le vivide figure che si susseguivano
sullo schermo opaco del televisore e la rigida postura di lei, seduta
accanto al marito né troppo distante, né troppo
vicino, con i piedi
puntati inconsciamente verso la porta pronti ad uno scatto fulmineo
alla prima avvisaglia, al primo la storto che
avrebbe
scatenato una melodia che Kagome non avrebbe voluto sentire
più.
Hojo si alzò con
un grugnito sommesso ed andò ad aprire: due uomini in divisa
guardarono prima lui, poi lanciarono un'occhiata fulminea ed
indagatrice oltre il vuoto alle sue spalle.
Il più alto dei
due, un uomo sulla trentina con gli occhi indaco ed i capelli castani
raccolti in un codino, si schiarì rapidamente la voce.
<< E' lei
Akitoki Hojo-san? >>, disse rapido guardandolo dritto
negli
occhi.
L'uomo, in
risposta, assentì tranquillo.
<< Ci è
stato segnalato un episodio di violenza domestica. >>,
continuò
il poliziotto dando una rapida occhiata ad un minuscolo blocco per
gli appunti che teneva fra le mani, e lì si corresse,
<< Anzi,
reiterati episodi di violenza domestica. Il collega ed io siamo
venuti per degli accertamenti. >>
Hojo incrociò le
braccia al petto e si appoggiò allo stipite della porta. Un
sorrisetto strafottente andò a dipingersi sul suo viso,
negli occhi
una luce accesa, la sicurezza di chi sa che sta affrontando solo un
piccolo impiccio di minimo significato.
<< Immagino
già chi vi abbia contattato. >>, ammise con
una punta di
verità, << L'anziana del piano di sotto
è una povera vedova
demente e senza figli che deve dare pure un senso alle sue giornate
noiose. >>
Ridacchiò, a quel
punto, ed un brivido scosse la schiena dell'agente; c'era qualcosa in
quella risata che gli faceva accapponare la pelle.
Kagome, ancora
seduta sul divano in salotto, ascoltava distrattamente la
conversazione. Sorrise quando sentì il marito accusare
Kaede-sama di
essere una pensionata visionaria, ma era un sorriso amaro,
rassegnato.
L'unico pazzo
visionario, in quel frangente, era proprio Hojo.
La conversazione
stava proseguendo su una linea relativamente tranquilla: l'agente
che, in qualche modo, giustificava una telefonata di quel tipo da
parte di un'anziana ansiosa, suo marito che rispondeva con una voce
calda e rassicurante, un paio di risatine che scapparono per una
battuta detta da chissà chi.
La visita
inaspettata, dai toni del discorso, stava volgendo al termine senza
grosse conseguenze e fu a quel punto che qualcosa iniziò a
battere
insistentemente nella testa della ragazza.
Si grattò
distrattamente la spalla sinistra, dando sollievo ad un insolito,
bruciante prurito, ma più le sue corte unghie correvano
sulla pelle,
più la solleticante sensazione si faceva vivida e forte. Si
accanì
dunque a pieno regime contro quel fastidio con l'unica conseguenza di
renderlo più insistente.
Si grattò la
spalla a sangue e si stupì quando si accorse che il prurito
si era
esteso a tutto il braccio, alla mano, e risaliva addirittura fino al
collo andando a lambire torace e ventre.
Grattava, grattava
e grattava ora con entrambe le sue piccole mani tremanti, ma il
disagio non passava.
Schioccò secca la
lingua contro il palato e si scoprì la bocca asciutta, la
salivazione azzerata.
Udì dall'esterno
quelle che volevano essere parole prossime ad un commiato e
lì le
gambe cominciarono a tremare talmente forte che i piedi, insolenti,
battevano sul pavimento di legno producendo un ritmo poco gradevole
all'udito.
Cosa le stava
accadendo?
Una smania
misteriosa la travolse in pieno.
Non riusciva più a
controllare i movimenti del suo corpo e si ritrovò eretta a
mezzo
metro dal divano, i piedi piantati sul morbido tappeto iraniano, gli
occhi che guardavano con sdegno quell'insulsa commediola che ancora
faceva capolino nello schermo del televisore.
Un attore si
abbandonò ad una fragorosa risata e Kagome lo
rimproverò con
un'occhiata glaciale.
<< Non c'è
niente da ridere. >>, sibilò a denti stretti e
puntò un
accusatorio indice verso di lui come se potesse starla a sentire.
Si guardò intorno,
assicurandosi che nessuno avrebbe potuto sentirla, e
continuò. <<
Che cosa ne dici? Se ora quei due se ne vanno senza un dato di fatto
le probabilità che tornino si riducono ad un numero ad una
cifra. >>
Si torturò le mani
mentre osservava l'attore, il suo unico, ignaro interlocutore, che
continuava a recitare seguendo il copione ed, ovviamente, senza
degnarla di una risposta.
<< Kaede-sama
potrebbe anche telefonare di nuovo, ma chi la prenderebbe sul serio
poi? >>, insistette la ragazza.
Qualche sinapsi
doveva essersi attivata in completa autonomia perchè si
accorse di
aver cominciato a camminare avanti ed indietro seguendo l'intrecciato
disegno del tappeto di lana.
<< Nessuno
tornerà a disturbare Hojo e me. Nessuno chiederà
più nulla. >>
Con un mezzo balzo
abbandonò il caldo abbraccio del tappeto ed
iniziò a camminare a
piedi nudi sul freddo legno del pavimento seguendo il debole
tracciato delle venature, di quei solchi che tempo addietro avevano
ospitato la linfa vitale dell'albero e che ora stavano trasportando
lei verso una nuova, inconscia meta.
I suoi passi
traballanti la condussero là dove sarebbe dovuta andare:
davanti
alla porta d'ingresso, esattamente dietro le spalle di Hojo.
Li si fermò, le
mani giunte in grembo, ed osservò diligentemente i due
poliziotti da
sotto la frangia scura senza proferire parola.
Quello a sinistra,
un giovane dai lunghi capelli color pece e gli occhi profondi, la
notò immediatamente. Fece un rapido cenno col capo al
collega ed
anche quest'ultimo la guardò.
<< Houshi,
penso che qui non abbiamo per niente finito. >>, concluse
dunque il primo.
Hojo, interdetto,
guardò prima uno, poi l'altro, infine si voltò:
Kagome era lì, a
pochi passi da lui, immobile come in un fermo immagine, come se la
sua vita stessa fosse stata messa in pausa.
Houshi scostò poco
delicatamente Akitoki dalla porta e si avvicinò alla
ragazza, ancora
immobile come una statua, forse per assicurarsi che fosse una
creatura in carne ed ossa e non un cartonato, un'apparizione
intangibile.
La guardò
attentamente: quel taglio ancora fresco sul labbro superiore, quel
rossore vivo e puro che le accendeva lo zigomo sinistro stavano
lì a
testimoniare che, probabilmente, l'anziana vicina non era una
delirante visionaria con la passione di ricamare strane, infondate
vicissitudini sul vissuto altrui.
Le mise una mano
sotto il mento e la guardò intensamente negli occhi.
<<
Signorina, conferma la versione della segnalazione? >>
Kagome non rispose;
non appena Houshi le lasciò il mento, il suo viso ricadde
nella
stessa posizione di prima come quello di un fantoccio inanimato, una
bambola di pezza nelle fortuite mani del destino.
<< Taishou...
>>, esalò dunque l'agente al collega, lo
sguardo fisso sulla
donna, << Chiama la centrale, chiedi l'intervento di
un'altra
pattuglia. >>
Dopo l'arrivo di
altri due poliziotti che caricarono Hojo sulla loro volante, Kagome
restò ignara riguardo alla sorte di suo marito.
Houshi e Taishou, i
due agenti che per primi erano arrivati sul posto, la portarono in
ospedale per accertamenti e per il rilascio di un certificato che, a
loro dire, era indispensabile per dare inizio all'iter legale che ne
sarebbe seguito.
La ragazza non ci
mise molto a fare due più due ed a capire che entrambi si
riferivano
ad una denuncia e, di conseguenza, all'inizio di un calvario penale.
La fecero
accomodare nella sala d'aspetto gremita di gente e, mentre uno di
loro le si sedeva accanto, l'altro sparì dietro la porta
della
guardiola per parlare con l'infermiere di turno. Probabilmente gli
stava spiegando la situazione e, molto più che
probabilmente,
sarebbe stata la prossima ad entrare.
Houshi, il giovane
col codino, uscì poi dalla stanza sbuffando sonoramente e si
avvicinò al collega farfugliando qualcosa riguardo ad un
incidente
grave, due codici rossi in entrata e l'impossibilità di
sbrigare la
faccenda nel lasso di poco tempo.
Iniziò dunque a
vagare senza meta seguendo le quattro mura di quella sala d'attesa
con la stessa lena ed ostinazione di una mosca che sbatte infinite
volte contro lo stesso vetro della stessa finestra per poter trovare
una via d'uscita da una situazione scomoda. Si fermò poi
davanti ad
un tabellone informativo che recava delucidazioni sulla zecca comune
e la malattia di Lyme dove svettavano due scritte a caratteri
cubitali: “L'Ixodida: come difendersi dal parassita
dell'estate”.
Ma a Kagome in quel
momento non poteva importare meno degli aracnidi e delle loro
sottofamiglie.
Si guardò intorno
con circospezione, infastidita dal sommesso cicaleccio che si levava
dalle bocche di tutte quelle persone intorno a lei. Quel tono basso
di voce che mantenevano, quasi sacrale, dava a sembrare che stessero
recitando una sorta di mantra, una preghiera nei confronti di
qualcuno che non avrebbe mai ascoltato.
La sala d'aspetto,
inoltre, puzzava terribilmente di sudore e detersivo industriale, le
mattonelle del pavimento erano sbeccate qua e là, le
seggiole
cigolavano fastidiose al minimo movimento. Alla ragazza parve di
impazzire: non riusciva a rilassarsi, a non concentrare la mente su
ognuno di questi particolari.
Voleva solo
distendere i nervi per qualche secondo, ed invece non riusciva a non
registrare ogni singolo avvenimento che la circondava: la tosse
nervosa dell'anziano seduto accanto a lei, la signora carica di
bigiotteria che si lamentava dell'attesa, il gruppo di ragazzini in
divisa da calcetto che ridevano nel prendere in giro il loro amico
finito lì per quella che doveva essere una storta o qualcosa
del
genere.
Ed Hojo?
Chissà che fine
aveva fatto... Avrebbe dovuto disinteressarsene, eppure non ci
riusciva.
Si trovavano in
quel pasticcio per colpa sua, no? Ma poi... Di pasticcio propriamente
si trattava?
Kagome non riusciva
a rispondersi.
Nella sua testa
migravano così tanti pensieri contrastanti che si
accavallavano gli
uni sugli altri. Da una parte la soddisfazione di essere riuscita a
sganciarsi dal giogo della supremazia malata di suo marito,
dall'altra la voglia di ritornare immediatamente a casa con lui, sana
e salva... Ma sana e salva per quanto?
Taishou, il
poliziotto che le era seduto accanto, si alzò senza
proferire parola
e sparì oltre una porta sulla destra che Kagome dapprincipio
non
aveva notato; tornò dopo pochi minuti con un bicchiere di
carta
fumante fra le mani.
Le si parò
dinnanzi e le porse quel bicchiere. << Prego, signorina.
>>
Con un gesto
meccanico le mani della ragazza lo afferrarono e ringraziò
con un
cenno del capo l'agente che era tornato a sederle affianco.
Forse aveva notato
il suo disappunto, il suo modo ansioso di guardare tutto e tutti:
fatto fu che cercò di coinvolgerla in quello che fu un
pallido
tentativo di rincuorarla.
<< Ci sarà
da aspettare ancora un po'. >>, le disse dunque, lo
sguardo
fisso su un punto davanti a sé, << I medici
sono impegnati con
due ragazzi coinvolti in un incidente stradale. >>
Kagome annuì
appena, persa chissà dove.
Taishou la osservò
mentre reggeva il bicchiere di tè davanti al volto senza
sorseggiarlo nemmeno una volta.
I suoi tratti erano
delicati, come quelli di una bambina, i capelli neri le ricadevano
scomposti su due spalle fin troppo magre ed incorniciavano un viso
grazioso ed armonioso seppur scarno e provato.
Ma i suoi occhi...
quegli occhi castani gli provocarono una stilettata al cuore la prima
volta che ricambiarono il suo sguardo: erano infossati e spenti,
agonizzanti come quelli di una bestia smarrita in un territorio non
suo.
Si chiese in quale
distorta visione della realtà qualcuno trovasse lecito
accanirsi su
una creatura tanto delicata.
<< Io mi
chiamo Inuyasha. Inuyasha Taishou. >>, le
mormorò il
poliziotto; il suo sguardo era fisso nel vuoto, i gomiti posati sulle
ginocchia e le mani giunte a penzoloni nel vuoto, << Qual
è il
suo nome, signorina? >>
Kagome esitò
appena. << Mi chiamo Hojo... >>
Era sulla difensiva
e Taishou se ne accorse immediatamente. << No, signorina,
volevo sapere il suo vero nome. Non quello da sposata. >>
<<
Higurashi... Kagome Higurashi. >>
Inuyasha sobbalzò,
colto nel vivo. << Come quel gioco per bambini?
>>
La ragazza assentì
appena mentre con una mano saggiava delicatamente la sua fluente
chioma corvina nel tentativo di riorganizzare quei capelli
disordinati alla meno peggio.
La vecchia,
spensierata lei si sarebbe lanciata a piè pari nel racconto
di
qualche aneddoto spassoso della sua infanzia facendo presente al
ragazzo quanto detestasse quel gioco e le derisioni ad esso annesse;
la Kagome del presente, invece, si limitò a pensare con
nostalgia a
quelle estati giocate all'ombra del tempio, quando ancora il mondo le
sembrava vasto e colorato, pronto ad accoglierla in un rassicurante
abbraccio non appena avesse fatto un salto nella vita vera.
Ma tutto questo era
una vita fa.
Inuyasha le
sorrise. Due tenere fossette si incavarono nelle sue guance rasate di
fresco e la ragazza trovò quelle labbra incurvate
terribilmente
rassicuranti.
Anche se per un
solo istante, sentì un calore meraviglioso dirompere dal suo
petto
ed irradiare le sue provate membra di un tepore gentile.
Fu come l'abbraccio
di una mamma affettuosa, la carezza di un amante devoto e rispettoso.
Le sue labbra
tremarono appena nel tentativo di restituire la cortesia, ma fu solo
un vano tentativo di sorriso: scoprì leggermente un'arcata
superiore
lattea e perfetta, ma gli angoli della bocca protestarono per la
posizione insolita in cui stavano venendo forzati e ricaddero
colpevoli al loro posto.
Mortificata,
inumidì appena il labbro inferiore e spostò lo
sguardo sul
pavimento, il bicchiere di tè ancora saldo fra le dita
lunghe ed
esili.
Attese paziente due
lunghissime ore e, finalmente, giunse il suo turno.
Il medico,
nonostante l'ora, nonostante le occhiaie e nonostante un velo
impietoso di stanchezza adombrasse il suo sguardo, fu molto gentile
con lei e Kagome ne fu a dir poco sorpresa.
Si era aspettata di
tutto, fuorchè comprensione.
Si era spesso
immaginata derisa da occhi esterni, giudicata stupida per le sue
altrettanto stupide scelte di vita degli ultimi due anni. Invece
nulla di tutto ciò accadde: il dottore non le chiese nemmeno
perchè
non avesse denunciato i fatti al primo schiaffo ricevuto.
Quella era proprio
la domanda che la ragazza temeva di più.
Perchè?
Perchè non prima?
Perchè aveva sopportato anni di angherie prima di additare
il
colpevole?
La risposta non la
conosceva nemmeno lei e si sentiva sciocca nell'ammettere quella
perentoria verità a sé stessa e ad altri.
Era per questo che
celava il girone infernale in cui veniva punita per colpe non
commesse ogni giorno, nascondendo la verità a quelle poche
persone
che ancora frequentava. E, soprattutto, alla sua famiglia.
Kagome uscì
dall'ospedale con un sottile plico di carta fra le mani ed un enorme
vuoto dentro di sé.
Ed adesso?
Taishou
la riaccompagnò alla volante dove Houshi li stava aspettando.
Il
poliziottò col codino le raccontò una tiritera
infinita di cosa
avrebbe dovuto fare con quelle carte alla mano, dei novanta giorni di
tempo che avrebbe avuto per sporgere denuncia dell'ultimo avvenimento
per raccontare poi anche delle vicende pregresse, delle conseguenze
che tutto questo avrebbe potuto avere su suo marito.
Il suo
fare era spazientito e questo irrigidì oltremodo la ragazza
che
sedeva sul sedile posteriore dell'automobile senza proferire parola.
Houshi
fissò dunque il collega che aveva preso posto accanto a lui.
Inuyasha tamburellava le dita sul cruscotto con fare pensoso, i
muscoli rigidi, il volto chiuso in un'espressione seria.
Sembrava
stesse cercando delle parole sfuggite alla sua lingua chissà
in
quale momento.
<<
Higurashi-san. >>, mormorò dunque guardandola
finalmente negli
occhi.
Kagome
chiuse le mani sulle ginocchia, i pugni talmente stretti da sentire
la pressione delle unghie sulla pelle.
Quell'appellativo,
il sentirsi chiamare con il suo nome da nubile le provocò
una
scarica elettrica lungo la spina dorsale.
Quell'Higurashi,
per Kagome, riempì completamente di un suono completamente
nuovo
l'intero abitacolo del mezzo, aveva lo stesso profumo selvatico di un
fiore di campo sbocciato nel verde lussureggiante fra l'aspra
gramigna.
Stava
a tracciare una linea di confine fra una vita ed un'altra ancora.
Inuyasha
si voltò completamente verso di lei e si inumidì
appena le labbra
sottili; i suoi occhi caldi le guardarono dentro, sotto pelle, carne
ed ossa.
<<
Higurashi-san, nessuno di noi due ha il potere di obbligarla a fare
niente in questo momento. Se non vorrà denunciare suo
marito, noi
non potremo obbligarla. Se vorrà tornare a casa da lui, noi
avremo
il dovere di riaccompagnarla dove vuole... >>
Kagome
sbattè la palpebre un paio di volte, perplessa.
<< Akitoki è
a casa adesso? >>
I due
poliziotti si scambiarono un'occhiata per un istante. Houshi fece un
rapido cenno con la mano che sembrava voler intimare il collega a
lasciar perdere: probabilmente le parole da lui pronunciate stavano
rimbalzando a vuoto contro un muro di cemento, ma Taishou lo
ignorò
e continuò.
<<
Sì, si trova a casa al momento. Se lei, Higurashi-san, non
ci
fornirà un motivo per incriminarlo, noi non avremo alcun
motivo per
trattenerlo. >>
Kagome
assentì appena, distante da quel discorso a cui non stava
fornendo
risposta alcuna. Guardò fuori dal finestrino al di sotto
della lunga
frangia scura: i lampioni irradiavano l'ampio parcheggio di una luce
fredda ed innaturale illuminandolo a giorno, costeggiando anche la
strada che da lì portava al centro urbano, a casa sua.
Quale casa?
Qualcosa di caldo
lambì appena la sua mano destra e fu costretta a voltarsi in
direzione delle sue gambe: l'agente Taishou aveva posato una mano
sulla sua e la stringeva appena, forse timoroso di farle male, forse
restio a quel contatto che esulava dalla sua professione.
<<
Higurashi-san, se lei fosse contenta delle cose così come
sono non
si sarebbe mai mostrata ai nostri occhi e non avrebbe accettato di
seguirci in ospedale. Non è così? >>
Due occhi seri,
traboccanti comprensione, la guardarono dritta in pieno viso.
Kagome sentì il
respiro mozzarsi, gli occhi nocciola inumidirsi.
Subito dopo, però,
la pace.
Sentì un peso
all'altezza del petto alleggerirsi fino a scomparire, una sensazione
di quiete farsi spazio fra le sue membra stanche.
Una lacrima
solitaria rigò la sua guancia arrossata e cadde dopo il
mento
disperdendosi fra le pieghe della felpa che indossava. Altre,
più
spavalde, la imitarono ed inumidirono il suo viso infossato fra le
spalle.
Ora che la verità
era stata detta, lanciata sul tavolo come un mazzo di carte da gioco,
stava a Kagome iniziare una nuova partita con la vita.
<<
Taihsou-san, non mi riporti indietro... La prego... >>,
sussurrò, incespicando sulle parole fra un singhiozzo e
l'altro. Si
puliva il volto con le maniche della felpa, come una bambina, e non
guardò più nessuno negli occhi.
Inuyasha lanciò
uno sguardo tronfio al collega che, per tutta risposta, fece un cenno
di assenso col capo abbozzando un sorriso soddisfatto, il primo di
tutta la serata.
La ragazza pianse
finchè riuscì, fin quando le lacrime finirono e
restarono solo i
fremiti che qualche singhiozzo si trascinava ancora dietro. Infine si
abbandonò sul sedile e reclinò il capo
all'indietro serrando le
palpebre sui suoi occhi stanchi.
<<
Higurashi-san, ha un posto dove andare? >>, le chiese
dunque
Taishou interrompendo il silenzio.
La mora assentì
appena col capo. << Al tempio... Il tempio Higurashi. La
mia
famiglia vive lì. >>
Houshi mise in moto
il motore, inserì la prima e partì.
Kagome inspirò
profondamente ed immagini vivide e colorate presero forma nella sua
testa: vide sua madre sorriderle cordiale, suo fratello Sota
abbracciarla teneramente, il nonno con il kimono tradizionale, Buyo
che le zampettava incontro miagolando festoso...
I loro volti
rassicuranti fecero compagnia alla sua mente accompagnandola verso
quegli ultimi istanti di veglia; pochi minuti dopo cadde in un sonno
profondo avvolta da un'atmosfera di tranquillità che non
respirava
da mesi.
Una volta al
tempio, svegliata la madre di Kagome nel cuore della notte, i due
poliziotti spiegarono brevemente la situazione.
La donna, le mani
giunte al petto, confessò che nutriva dei sospetti al
riguardo ma
che la figlia negava ad oltranza anche la più nitida
evidenza e si
ritrovò a non sapere come intervenire.
Fu molto felice di
riaccoglierla sotto il suo tetto e garantirle protezione.
Houshi e Taishou si
congedarono non prima di ricordare a Kagome le loro raccomandazioni
su cosa ora avrebbe dovuto fare.
<< Mi
raccomando, Higurashi-san. >>, le disse Houshi,
<< Non
lasci che ciò per cui ha sofferto resti impunito.
>>
La ragazza, stretta
fra le rassicuranti braccia di sua madre, assentì col capo.
A quello
che avrebbe dovuto fare da lì in poi avrebbe pensato dopo:
ora era
al sicuro, a casa, dove avrebbe dovuto essere.
I due poliziotti
salutarono con un leggero inchino e si diressero verso la grande
scalinata del tempio, ma Taishou si bloccò al primo scalino
guardandosi alle spalle.
Mormorò poi
qualcosa che al collega suonò come un “Arrivo
subito” e
ripercorse in tutta fretta la strada che portava all'abitazione della
ragazza.
Madre e figlia
erano ancora sulla soglia chiuse in un nostalgico abbraccio che
traboccava tristezza e rimorso.
Inuyasha si
dispiacque di rovinare quel momento di affetto ma, con un leggero
colp di tosse, richiamò l'attenzione su di sé.
Gli occhi umidi di
Kagome si posarono sulla sua figura in uniforme con un'espressione
stupita.
Il ragazzo trafficò
dentro una tasca interna alla giacca della divisa e da lì
estrasse
un foglietto stropicciato.
<< Scusi
l'ardire, Higurashi-san, ma prenda questo. >>,
bofonchiò
dunque impacciato porgendole il pezzo di carta.
Kagome lo prese e
vi lesse un insieme di numeri a cui, nell'immediato, non seppe dare
un senso.
<< E'... E'
il numero del mio cellulare di servizio. >>,
chiarì dunque il
moro, << Se avesse bisogno di chiarimenti, se si dovesse
trovare in una situazione scomoda al riguardo... Ecco, non esiti a
chiamarmi. Sarei felice di poterle essere d'aiuto. >>
La ragazza fece
passare lo sguardo dal foglio ad Inuyasha almeno una mezza dozzina di
volte. Chissà quando aveva avuto l'idea di darglielo e
scriverlo?
Si trovò stupita
di tanta gentilezza; lei, che in tutto questo tempo aveva visto solo
le sfaccettature peggiore dell'animo umano.
Riuscì a sorridere
appena, questa volta, grata che quel poliziotto dall'indole gentile
avesse incrociato la sua impervia strada. Si premurò di
stringere
quel numero lesta fra le dita timorosa del fatto che avrebbe potuto
scivolare via dalla sua mano.
<< La
ringrazio, Taishou-san. >>
Con un ultimo,
leggero sorriso l'agente si allontanò per l'ultima volta
raggiungendo ad ampie falcate il collega che stava sbrigando qualche
scartoffia aspettandolo nell'auto.
<< Possiamo
andare adesso? >>, gli domandò Houshi
guardando distrattamente
un paio di fogli che reggeva fra le mani.
Inuyasha si
accomodò meglio sul sedile, assentendo con un rapido cenno
del capo.
<< Sì. >>
°°°°°
Vi ringrazio per essere
arrivati sin qui!
Avevo pensato di farne una one shot, ma mi piacerebbe poterla
continuare... Forse solo due o tre capitoli in più, non
saprei. Ci penserò su!
Ancora grazie per averle dato una letta :)
PS: spero di non essere stata indelicata e di non aver offeso nessuno
trattando certe tematiche. Se così fosse, me ne scuso!
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