~Introduzione~
Wow. Finalmente pubblico. Yay *O* sono così emozionatoh! *O*/
…sì, ok, come incipit
non è il massimo. Riformulo.
Salve a tutti, miei fedelissimi lettori (?), quest’oggi sono
venuto a proporvi quello che mai vi avevo proposto,
per quanto riguarda Saint Seiya.
Una storia a capitoli.
Sì, sì, una storia vera, con una trama e tutto. *rolls*
È il progetto cui tengo di più in
assoluto, e soprattutto è una bella scommessa: questa fiction sarà
completamente, totalmente ed unicamente Spectre-centrica:
ho provato a codificare un mondo del quale sappiamo ben poco. Sì, sappiamo come
si risvegliano gli Spectre, sappiamo come è
strutturato il Meikai, ma dove stanno loro? Fanno campeggio? Hanno un resort con piscina? Si allenano, almeno un po’, o si
risvegliano già completamente pronti? Tutti questi particolari non vengono specificati da Kurumada-sensei,
quindi ho provato a dare io una risposta. Certo, è una mia personale
interpretazione, ma che ho provato a far combaciare con
la trama il più possibile.
Compariranno Spectre già visti, ma il protagonista assoluto
sarà un personaggio originale, e molti altri ne compariranno. D’altronde gli Spectre sono
108, potrò farne vedere cinque o sei nuovi, no? *O*
Probabilmente, i più grideranno al Gary Stu. Chi mi conosce sa che non è nel mio stile,
assolutamente, e spero che amerete i miei piccoli Spectre quanto li amo io.
Guardate, non ho messo neanche l’avviso shonen-ai
perché non è previsto neanche lontanamente, nel corso della storia. Poi certo,
in roleplay sono successe tante cose e comunque sia voi, viziose
creature contaminate dal peccato, riuscirete a slashare
qualcuno senz’altro. Ma io non darò alcun tipo di indizio,
mai. *rolls*
Pubblico oggi il primo capitolo (una rapida introduzione,
più che altro, tornerò sui punti appena accennati dal capitolo molto presto) in
coincidenza con il compleanno di Dylan, il protagonista. Quindi, gli faccio gli auguri con tutto il cuore, anche se lui
probabilmente non sarà troppo contento. *rolls*
Un’ultima cosa, prima di cominciare. Ho una bella sfilza di
doverose dediche da fare:
A Rucci, a.k.a. Ren-chan, per il suo meraviglioso Kanon, per i Betaggi continui, per le fanart…
oddio, per tantissime cose, in realtà, sono troppe da elencare e tu lo sai
quanto ti sono grato. Un bacione, Mother.
A Scillina, a.k.a. LeFleurDuMal, per la grande mano
che mi ha dato per la caratterizzazione di Rhadamanthys, e soprattutto per aver
creduto così tanto nel mio progetto. Grazie, Master! çOç
A Gucci, a.k.a. Kijomi, per il fangirlism
silenzioso, per i roleplay privi di senso –ma
esteticamente apprezzabili, e per avermi dato l’occasione di roleplayare un fiore lesbica parlante. Non è da tutti.
A June
per avermi bombardato di fanart, per il bene incredibile che vuoi a Mathias *rolls* , per essere così carina. Ti voglio bene, e anche Shun te
ne vuole. Ah, e anche Hades-sama. çOç
Ok, ora è il caso di iniziare, la
prefazione risulta essere più lunga del capitolo in sé. Erhm.
A voi, signori e signore. Il
concerto sta per iniziare.
Godetevi il Canto della Banshee.
Primo Canto ~ Preludio alla Sinfonia della Morte
“La
musica deve far sprizzare il fuoco dallo spirito degli uomini.”
Ludwig van
Beethoven
Sono Dylan Lawrence Dunkin, e vorrei che ascoltaste
una storia.
Credetemi, è una storia che merita di essere ascoltata.
Parla di guerrieri e di Dei, di
lacrime e di gioia, di onore e di sfortuna.
Di guerra e di amore.
È la storia della mia vita.
Sono nato il 17 Maggio, di Venerdì, in una giornata fresca
ma piovosa: niente di nuovo, per la campagna inglese.
Mia madre non la ricordo bene, è mancata quando
io avevo tre anni: ho poco più che un’impressione di lei, il vago
sentore del calore di un abbraccio, un profumo, il suono di un pianoforte.
Sì, era una pianista molto brava, come mio padre: in verità,
la nostra famiglia si occupa di musica da svariate generazioni.
Robert Daniel Dunkin,
mio padre, era un insegnante di pianoforte, violino, contrabbasso e si
cimentava anche nel canto. Io, ovviamente, seguivo le sue orme cercando di
imparare il più possibile; era nel canto, però, che trovavo me
stesso.
Stavamo passando un brutto periodo, io e mio padre, a quel
tempo. Avevo da poco compiuto nove anni, e non trovavamo lavoro fisso: a
malapena sopravvivevamo riparando e accordando strumenti, o suonando ad
improvvisate feste e manifestazioni.
Poi, un giorno, un piccolo signore della contea vicina –uno
dei pochi sopravvissuti, e strenuamente ancorati al proprio titolo di landowners- ci mandò a chiamare: aveva sentito
parlare di noi, e voleva che insegnassimo a suonare ai loro figli.
Sir Sebastian Cristopher
Heavendor era un uomo molto gentile: ricordo con
chiarezza i suoi occhi chiari e sorridenti, e i suoi baffetti
castano-grigi che parevano sobbalzare quando rideva;
sua moglie, Madam Henrietta Louise Heavendor, era una
persona ben più rigida del marito, e non si mescolava troppo con noi. Non ce la
prendevamo, in fondo ci trattavano più che bene: avevamo una piccola stanza
nella dependance della loro villa, e venivamo sostanzialmente mantenuti ad un prezzo più che
conveniente.
Con i signorini sia io che mio padre
ci trovavamo bene: la maggiore, Priscilla, era portatissima per il pianoforte,
e faceva progressi incredibili di giorno in giorno. Quando giungemmo al maniero
aveva tredici anni, e sua madre la stava preparando per il debutto in società:
le faceva provare ogni giorno vestiti su vestiti per
vedere quale di loro si intonasse meglio col biondo spento dei suoi capelli,
elaborando –tra l’altro- sempre nuove acconciature; quando la poverina non ce
la faceva più, la ritrovavo spesso vicino alla nostra abitazione, in cerca di
svago e libertà.
Poi in mezzo vi era un maschio della mia età, Sebastian jr,
al quale all’inizio, devo ammettere, non stavo particolarmente a genio.
Probabilmente era anche a causa dei miei occhi, era comune che inquietassero:
sono eterocromi, il destro è verde –come quelli di mia madre, diceva mio padre- e il sinistro era di un’insolita
colorazione dorata. Pian piano, però,
conquistai la sua fiducia, e già alla fine dell’estate eravamo diventati grandi
amici; si dilettava nel suonare il violino, ma senza troppo impegno: a mio
avviso sarebbe potuto diventare davvero un ottimo suonatore, ma era troppo
preso dai mille giochi che si inventava ogni giorno
per stare troppo ad ascoltare mio padre.
Infine c’era la mia favorita, una meravigliosa bambina
bionda di cinque anni: Anastasia. Lei stava imparando a suonare il piano, ma
era soprattutto la sua voce ad avere grandi potenzialità. Sia io che mio padre
ci divertivamo molto con lei: era semplicemente,
genuinamente, fantasticamente entusiasta.
Qualsiasi cosa era una sorpresa, una meraviglia, e per quanto io non fossi di molto più grande di lei, guardavo con una
tenerezza stranamente adulta alle sue esternazioni di gioia.
Cantavamo spesso insieme, e passavo molto tempo con lei.
Ma anche la sinfonia più bella deve finire, prima o poi.
Il mio ebbe come conclusione una fuga, tanto angosciante quanto rapida.
Era il giorno del mio compleanno, e all’Heavendor
Manor vi era un gran fermento; erano ormai cinque
anni che vivevamo insieme, quindi i signori e soprattutto i ragazzi erano
diventati una famiglia per noi, più che datori di lavoro, e sentivo che anche
per loro era lo stesso: era stata quindi organizzato una
vera e propria festa, sebbene modesta. Avevano allestito la sala principale
della villa, con un piccolo rinfresco; alcuni dei servitori, tra giardinieri e
camerieri, avevano addirittura improvvisato una scenetta teatrale che mi aveva
fatto letteralmente morire dal ridere.
Quante risate! Ne sento ancora il sapore sulla lingua, se ci
penso…
La festa stava finendo: Priscilla,
Sebastian jr e Anastasia stavano suonando per me i London Trios di Haydn:
sapevano quanto io amassi quell’artista, e non potevano farlo mancare dalle
loro esecuzioni.
Quanto erano bravi… sì, dopo cinque
anni passati insieme avevo anche l’ardire di sentirmi orgoglioso, almeno un
po’, per il poco che avevo cercato di trasmettere loro supportando gli
insegnamenti di mio padre.
Poi accadde.
Sentii qualcosa,
dentro di me.
Un’entità indefinita, un sentore oscuro.
Era qualcosa di silenzioso e… fragoroso allo stesso tempo.
Conficcato nello stomaco, strisciante e sinuoso, cercava di
uscire.
Ebbi l’impressione di averlo già sentito prima, dentro di
me: non riuscivo a considerarlo qualcosa di alieno, ma
anzi lo sentivo profondamente mio.
Era questo a terrorizzarmi di più, in quegli attimi.
Mi chiesero che cosa avessi, perché mi fossi alzato di
scatto dalla sedia dalla quale stavo ascoltando i ragazzi suonare.
Non risposi: non potevo parlare. Se
avessi aperto la bocca, quella cosa sarebbe uscita; provai, però, un desiderio
inspiegabile –morboso, quasi- di liberarla, di farla emergere e muoversi e…
Lacrymosa Dies Illa
Quam Resurget Ex Favilla
Iudicandus Homo Reus.
Lacrymosa Dies Illa
Quam Resurget Ex Favilla
Iudicandus Homo Reus.
Huic Ergo Parce Deus
Pie Jesu, Jesu Domine.
Dona Eis Requiem.
Amen.
Non ricordo bene cosa accadde, poi.
Anche l’esecuzione di quel canto la rimembro
come un sogno affogato nel nero.
Inafferrabile, inquietante.
Ma necessaria.
Non ricordo bene cosa accadde.
So solo che una volta vibrata l’ultima, inconsapevole nota,
le fiamme mi stavano già circondando.
Non sentii urla, né affanni. Sembrava che nessuno avesse
tentato di scappare.
Sir Heavendor
e sua moglie, Priscilla e Sebastian e la piccola Anastasia e i
servitori… e mio padre… erano tutti lì, a terra, immobili.
Solo fuoco a vestirli.
Le fiamme arrivarono al pianoforte, facendolo cedere.
Il suono che emise fu il lamento di una bestia ferita, un
grido disarticolato, straziante come la morte.
Solo allora mi svegliai, e realizzai.
Penso che urlai. Penso che piansi.
So che corsi fuori –almeno credo, dato che mi trovai all’esterno della villa- e cominciai a tossire,
soffocato dal fumo.
La mia mente era un nugolo di fumo e paura e fiamme e
disperazione.
Cenere e lacrime si mischiarono, in un modo di buio e fuoco.
L’unica casa che avessi mai avuto, la mia
famiglia, il mio meraviglioso concerto… tutto svanito. Rimaneva solo il
silenzio.
Non so quanto rimasi lì, fermo nel giardino invaso dal fumo.
So per certo che ad un tratto un’ombra mi sovrastò; alzai
gli occhi e lo vidi.
Era grande, l’essere più imponente che avessi mai visto.
Aveva enormi ali nere, e artigli.
Sembrava un drago, eppure si ergeva su due gambe… o zampe.
Si avvicinò di più a me, e vidi che in verità era un uomo.
Un uomo che indossava una strana armatura nera, dai riflessi
violacei.
Nello stato in cui mi trovavo, ben pochi avvenimenti
avrebbero potuto smuovermi.
Quella persona mi sconvolse totalmente, e mi affascinò.
Spesso le persone si inquietavano
per il mio occhio dorato, si tenevano a distanza da me come se fossi un essere
strano ed unico. Quindi, pensavo ingenuamente di
essere il solo a possedere questa caratteristica.
Ma quell’uomo, quell’uomo dalle
grandi ali nere mi fissava con due occhi
dorati, severi e profondi.
Percepii qualcosa provenire da lui. Era profondo, abissale,
pericoloso. Oscuro.
E stava cercando me, ma non per
nuocermi.
Riconobbi, in quella sensazione, lo stesso fenomeno che
avevo già provato prima: come un nugolo di stelle oscure, vorticanti dentro il
mio corpo.
Quella stessa cosa
reagì istintivamente alla sua compagna, proveniente dall’uomo in nero.
I suoi occhi dorati lampeggiarono, in
apparenza soddisfatti.
Finalmente, poi, parlò:
-Ti ho trovato, finalmente. Sei stato scelto, ragazzo; nel
fuoco hai concluso oggi la tua infanzia. Abbandona le
lacrime in questo luogo. Il sommo Hades, il Dio dell’Oltretomba, ti ha inserito
nel suo disegno.-
Sentendo quel nome, il mio animo si smosse.
Non sono in grado di spiegare come, ma qualcosa gridò di
gioia, dal profondo della mia disperazione. Qualcosa che
aveva finalmente trovato quello che stava cercando da quattordici lunghi anni.
L’uomo dalle ali scure si chinò verso di me, tendendomi una
mano guantata di nero.
Era grande e forte, e pareva poter frantumare le stelle come
maneggiare la più fine porcellana.
-Qual è il tuo nome?-
Non esitai un istante (col senno di poi, anche se avessi
opposto resistenza probabilmente non sarebbe cambiato niente) e presi quella
mano, alzandomi.
-…Dylan.
Dylan Lawrence Dunkin, signore.-
Quel giorno iniziò, per me, una nuova musica.
Una cupa sinfonia, struggente e melanconica, che avrei
potuto apprezzare solo più avanti nel tempo.
Quel giorno, tra le lacrime e le fiamme, nacque quello che sarebbe
stato il primo fra gli allievi di Rhadamanthys della Viverna, Generale
Infernale del Sommo Hades…
Dylan di Banshee.
Note finali:
Solo una piccola spiegazione, a rigor di cronaca, anche se tutto verrà meglio sviluppato nel corso della storia.
"La banshee è una creatura leggendaria dei miti irlandesi. Fa parte del piccolo popolo ed è uno spirito che spesso viene classificato tra quelli maligni, anche se in realtà nelle antiche leggende viene descritto semplicemente come uno spirito femminile che si aggira attorno a paludi e fiumi, nelle sorgenti o nelle colline d'Irlanda. Il termine Banshee deriva infatti da Bean si che significa "donna delle colline". Il suo aspetto si identifica più che altro negli occhi sempre arrossati per via delle lacrime, che versa sulle tombe di coloro che amava.
Si dice che quando muore un membro di una qualche famiglia importante, la banshee che protegge la famiglia pianga e si disperi, rilasciando il suo terribile grido di dolore per le valli irlandesi."
(Wikipedia cit.)
Infine il Lacrymosa, per chi non lo sapesse, è l'ottava Sequentia del Requiem In D Minor, K 626, di Wolfgang Amadeus Mozart. Che chissà, magari è stato Spectre di Banshee in passato. *ignoratemi*
Bene, direi che è tutto. Alla prossima!