Nei parchi si possono
fare strani incontri e ascoltare storie interessanti. Capita,
così, che un vecchio sconosciuto ti si sieda accanto e inizi
a raccontare. Che poi, se ci pensate, è strano: sono sempre
i vecchi, a possedere le storie più belle. Forse
perché hanno visto molto; forse perché hanno
visto troppo.
******
Ciao, ragazzo. Ti
disturba se mi siedo qui? È l’unica panchina in
ombra nei paraggi, e le mie gambe sono stanche.
Sai? Tu hai l’aria di uno che sa
apprezzare una bella storia. Io ne conosco una, e ho una gran voglia di
raccontarla. Ti va di ascoltarmi?
Bene. Allora fa’ attenzione a non
perdere neanche una parola.
Che storia sto per raccontarti? La storia del Joyful.
Conosci il Joyful,
no? Qualche anno fa ci fu un grande scandalo, quando venne alla luce la
vicenda. Un sacco di nomi importanti finirono nel fango, anche se
nessuno dei diretti interessati disse mai nulla al riguardo.
Ma comunque.
Per quanto ne so, dal dopoguerra in avanti il Joyful è
sempre stato il locale preferito di politici e imprenditori. Chiunque
avesse soldi e potere, andava là.
Pensa, la prima volta che ci misi piede ero poco
più grande di te: avevo trent’anni, o
giù di lì. Ero stato eletto da poche settimane ed
ero anche stato nominato ministro.
Sai com’è alla tua
età, no? Credi di poter cambiare il mondo, di poterlo
migliorare. Ancora non sai che sono tutte stronzate, quindi vuoi
crederci lo stesso. Be’, all’epoca ci credevo
anch’io. Ero entrato nel mio nuovo ufficio pieno di progetti
e buoni propositi, e stavo irritando parecchia gente con le mie idee,
così un giorno il mio capo partito mi dice che certi
equilibri sono troppo importanti per poter essere spezzati, e che
alcune alleanze sono più importanti di altre.
Quali sono le alleanze importanti? Me lo chiedevo
anch’io. Il mio capo dice che vuole spiegarmelo, ma che per
capire devo prima conoscere il posto in cui le alleanze nascono. Anche
i luoghi sono importanti, capisci?
Se sai cos’era il Joyful, allora sai
anche delle sue ragazze. Le più belle che tu possa
immaginare, te lo garantisco. Lo so bene, io; per anni ho passato le
mie serate lì dentro.
Dicevamo delle ragazze. Incantevoli, delle dee.
Entrare al Joyful,
per un novizio, era stordente: ti ritrovavi in questo ambiente
lussuoso, e dovunque ti voltassi vedevi inviti al peccato. Le ragazze
ti passavano accanto, con i loro corpetti stretti, le spalle nude e le
gonne corte e vaporose, e tu non vedevi che un sorriso ammiccante e un
luccicare di occhi maliziosi. Era da far girare la testa a chiunque.
Anche se in molti ne erano convinti, il Joyful non era una
casa d’appuntamenti. Al contrario, lì dentro
vigeva un regolamento ferreo. Le ragazze non si potevano toccare, pena
l’estromissione dal Joyful,
e te l’assicuro, non ci teneva nessuno.
Un’altra regola della casa era che si
poteva entrare soltanto mascherati. Noi indossavamo le maschere, e con
quelle eravamo tutti uguali, come i completi che indossavamo per il
lavoro. Le ragazze, invece, prima di farsi vedere, oltre a mettere su
le maschere nascondevano tutti i segni particolari che potevano
permettere a qualcuno di riconoscerle: nei, tatuaggi, voglie,
cicatrici… per evitare che fuori qualcuno potesse
rintracciarle.
Perché? Perché le ragazze
del Joyful
erano speciali. Ti sei mai chiesto com’è possibile
che nessuna delle ragazze che ha lavorato lì nel corso degli
anni abbia mai parlato? La risposta è: perché non
potevano. Il proprietario del Joyful
andava in giro per la città e pescava le ragazze carine e in
difficoltà: quando devi decidere tra mangiare e pagare le
bollette, sei facile da convincere. La paga era alta, e in
più le ragazze intascavano un altro bel gruzzolo con le
mance. Aggiungici che l’opinione pubblica le avrebbe
massacrate, se si fosse saputo come si guadagnavano da vivere, e
capirai perché non ci tenevano, a spifferare tutto.
Cosa facevano le ragazze del Joyful, se il posto
non era una casa d’appuntamenti? Ballavano. Sembra
incredibile, vero? Eppure è così. Andavamo tutti
lì per vedere quelle donne meravigliose danzare pur sapendo
di non poterle toccare. Devi capire, ragazzo, che l’uomo
è masochista e ama farsi del male, e io posso giurarti che
non c’era niente di più doloroso che guardarle
ballare senza poterle avvicinare. Se tu sapessi quanti accordi sono
stati raggiunti in quelle stanze, quanti politici sono stati corrotti e
quante mazzette sono passate di mano, impallidiresti!
Ma torniamo alla mia prima volta al Joyful.
All’inizio non capivo cosa stesse
accadendo. Tutta la faccenda del mascherarsi mi sembrava un
po’ strana: anche con le maschere potevo riconoscere al primo
sguardo i miei colleghi di partito e gli esponenti di quelli avversari.
Attraversavo le sale seguendo il mio capo e ci fermavamo a parlare con
politici tra i più noti, con imprenditori ricchissimi che
volevano aggiudicarsi appalti… tutto il marcio di quegli
anni prendeva forma in quelle stanze tra divanetti di velluto, seta e
mobili pregiati. Lì ho capito che le maschere non servivano
per nascondere la nostra identità, ma per permetterci di
tramare liberamente.
Non ho mai pensato, neanche per un istante, di
andarmene e denunciare tutto. Quel posto era stato creato per irretire
e domare anche i più virtuosi, e io non sono mai stato un
santo. Avevo tanti buoni propositi, sì, ma fragili come un
castello di sabbia asciutta: bastò quel colpo di vento
profumato e tentatore a sgretolarli tutti.
Mi biasimi, ragazzo? Avresti ragione. Mi ero
lasciato comprare dal fascino del proibito e da qualche bella ragazza
che difficilmente avrei potuto avere. Anch’io mi biasimo. Non
solo non ho fatto nulla di buono, ma a differenza degli altri clienti
del Joyful,
ho rovinato la mia stessa vita.
Ma quando ti sedevi e guardavi quelle ragazze
ballare… ah, era tutto lì il segreto del Joyful. Loro
volteggiavano e ti sfioravano seducenti, facendoti immaginare tutte le
delizie che racchiudevano in quei corpi, e tu finivi per ammorbidirti.
Ti rilassavi e facevi due chiacchiere con chi sedeva al tuo tavolo,
parlavi di lavoro e senza neanche rendertene conto ti accordavi con
altri per sottrarre fondi pubblici, truccare i concorsi e le gare
d’appalto e stabilire il prezzo a cui potevano comprarti.
È da non credere, quanto diventino stupidi e loquaci gli
uomini quando sono storditi dal corpo di una donna.
In quel posto scorreva un fiume di soldi
inimmaginabile. Lo vedevi nei liquori rari e pregiati che ordinavano
gli habitué, o in quello che pagavano perché una
ragazza ballasse solo per loro. Ho visto uomini arrivare a sborsare
cinque o diecimila euro per avere vicina la loro ragazza preferita per
mezz’ora. Regalavano loro gioielli, abiti firmati e, quando
riuscivano a conquistare i favori della ragazza che desideravano,
arrivavano anche case e automobili di lusso.
Come dici? Sì, la regola del Joyful prevedeva
che non si potessero toccare le ragazze, ma quello che accadeva fuori
era un’altra storia. Molte delle farfalle trovavano
una sistemazione stabile come amanti di questo o di quel politico e si
ritiravano.
Sei o molto sveglio o molto informato, ragazzo, se
sai che farfalle
era il termine con cui ci si riferiva alle ragazze del Joyful. Erano
belle, delicate e leggiadre proprio come loro, e ognuna aveva il nome
di una particolare farfalla. Ne portavano sempre una riproduzione
appuntata sui capelli, così potevano essere individuate
più facilmente dai clienti.
Ai miei tempi, la più richiesta era
Purple Emperor. Il giorno della mia prima visita al Joyful, lei era la
novità del momento: era stata ingaggiata dal proprietario un
paio di mesi prima, nel bel mezzo della crisi finanziaria. Tutti la
volevano e tutti chiedevano di lei, nonostante ci fossero ragazze molto
più belle. Il fatto è, ragazzo, che quella donna
era fuori dall’ordinario. Le farfalle che erano
lì da più tempo avevano l’aria annoiata
e indifferente, quelle nuove erano intimidite e impacciate: Purple
Emperor, no. Attraversava le sale con sguardo altero e il mento
sollevato in un gesto di sfida, e aveva l’incedere di una
regina. Attirava gli sguardi come il miele attira le api, come il ferro
attira una calamita. Era diventata quasi una legge fisica: se
c’era Purple Emperor tu dovevi
guardarla, volente o nolente. Speciale,
ragazzo: l’unico modo per capire davvero il significato di
questa parola era guardare Purple Emperor.
L’ho adocchiata quella sera stessa. Non
che fosse una vera bellezza – non era molto alta,
né prosperosa come tante altre farfalle
– ma aveva una pelle bianca che sembrava di crema, ti veniva
voglia di assaggiarla, sul serio… e quei capelli scuri, che
cadevano giù come fossero state onde, li spostava sempre di
lato, lasciando scoperto il suo collo lungo...
Scusa, ragazzo, sto divagando. Alla fine, la cosa
che più ti colpiva di quella donna erano gli occhi. Erano
grandi, e scuri, ma quando li guardavi, ci vedevi dentro tutta la vita
che una persona può possedere. Ti bruciavano, quegli
occhi, dico davvero.
Se io la osservavo, lei invece non mi aveva
degnato di uno sguardo. Non che guardasse qualcuno: si limitava a
salire sul palco, ballare e andarsene in un’altra sala. Ci
ignorava, tutti quanti: non ci considerava degni neanche di
un’occhiata rivolta per sbaglio.
L’ho inseguita. Quando è
scesa dal palco e si è diretta verso una delle uscite della
sala, ho piantato il mio capo e i tizi con cui stavamo parlando per
andarle dietro. Li ho sentiti ridere – non ero il primo a
reagire così, sembra ci siano passati tutti, con una farfalla o con
l’altra.
Le sono corso dietro per tre ore, di sala in sala,
come se non potessi farne a meno; e in effetti non potevo, non riuscivo
a staccare gli occhi da lei. Alla fine è stata lei ad
avvicinarsi. Si è messa a cinque centimetri da me, in bilico
sui suoi tacchi altissimi, e mi ha guardato male col naso per aria. Mi
ha chiesto cosa volessi da lei con un tono esasperato che alle mie
orecchie era irresistibile. “Cos’è, un
altro imbecille che vuole fare di me la sua amante?” mi ha
berciato contro. “Torna a farti comprare da quelli come te,
damerino, ché io non sono in vendita!”
Cos’ho risposto? Non ho risposto
affatto, ragazzo! Ero talmente ammaliato da quella piccola creatura
furiosa che tutto quello che sono riuscito a fare è stato
continuare a fissarla con un sorriso ebete. Dopo un po’ mi ha
sbuffato contro e se n’è andata pestando i piedi e
borbottando come una teiera. E io la trovavo più bella che
mai.
La sera dopo sono tornato al Joyful, stavolta
senza il mio capo. Anche quella volta ho passato il mio tempo a seguire
Purple Emperor, a guardarla, a sperare che mi parlasse di nuovo. Ma lei
sembrava aver già dimenticato che esistessi: mi passava
davanti con la schiena diritta, ancheggiando, senza guardarmi, quasi
fossi stato trasparente. Andò avanti così per un
bel pezzo; ci vollero quattro mesi perché mi rivolgesse di
nuovo la parola.
Com’è successo? In
realtà non lo so neanch’io. Quella volta ero
rimasto fino all’ora di chiusura; gli inservienti stavano
già pulendo e gli ultimi clienti se ne andavano alla
spicciolata. Io ero seduto al bancone, e mandavo giù un
drink dietro l’altro. Era un periodaccio al lavoro, quello, e
una volta che Purple Emperor si era ritirata nei camerini, non avevo
nient’altro da fare per distrarmi.
E poi è scivolata sullo sgabello
accanto al mio; ha puntato un gomito sul bancone, ha appoggiato la
testa alla mano aperta ed è rimasta a fissarmi per un pezzo.
Era ancora vestita, mascherata e truccata. Dopo un po’ ho
agitato il bicchiere verso di lei. “Che
c’è, ne vuoi un po’?” le ho
chiesto. L’alcool mi aveva già stordito, ed ero
sulla buona strada per diventare completamente ubriaco.
Lei ha scosso la testa, facendo ondeggiare la
farfalla che aveva ancora appuntata sui capelli. “Dovresti
smetterla di bere, signor Ministro del Lavoro” mi ha detto,
“o domani non sarai in grado di svolgere il tuo”.
Non so con che espressione l’ho
guardata, così come in quel momento non sapevo se essere
scioccato per il fatto che sapesse chi ero o per le parole in
sé, ma lei deve averla trovata molto divertente,
perché ha gettato indietro la testa e si è messa
a ridere. Non parlo di quelle risatine leziose o affettate che fanno in
genere le donne per sembrare seducenti: lei rideva davvero, con la
pancia e i polmoni, ed è finita che si è
ritrovata senza fiato. “Sei divertente, signor Ministro del
Lavoro Quasi Ubriaco” mi ha detto prima di andarsene.
“Quasi quasi mi stai simpatico”.
Da quella sera abbiamo cominciato a parlare; a
volte erano intere conversazioni, altre volte soltanto un saluto
frettoloso, ma Purple Emperor sembrava trovarmi quantomeno tollerabile,
a differenza di tutti gli altri avventori del Joyful. Dopo altri
cinque mesi eravamo in rapporti più o meno amichevoli.
Cominciò a raccontarmi qualcosa di sé –
che le piaceva il teatro e amava Shakespeare, per esempio, o che quando
passava davanti a una libreria, non poteva fare a meno di entrarci
– e quando parlava liberamente si illuminava tutta: ti
abbagliava, e non potevi fare a meno di guardarla. È stato
lì che ho capito che mi ero innamorato di lei.
Hai sentito i rintocchi delle campane? Si
è fatto tardi. Devo andare.
Come dici? Il seguito della storia? Be’,
diciamo che domani potrei passare di nuovo di qua, alla stessa ora. O
dopodomani. Magari tra una settimana. Chi lo sa? Se ci rincontreremo,
magari ti dirò come finisce questa storia. Stai bene,
ragazzo.
*
Una bella fortuna
rincontrarti, ragazzo. O forse sei venuto qui ogni giorno dal nostro
incontro?
Però. Sei quello che si dice uno
testardo. Buttare tutti i tuoi pomeriggi per più di un mese
solo per sentire la storia di un vecchio? Devi essere un tipo strano.
Perché non sono tornato prima? Gli
acciacchi, ragazzo, l’età: la vecchiaia
è una brutta bestia. Soprattutto se sei solo. Ma ora
torniamo alle cose serie: non volevi sentire il resto della storia?
Bene. Dove ero rimasto? Ah, sì. Ti ho
detto che dopo nove mesi dalla prima volta che avevo visto Purple
Emperor, ho capito di essermene innamorato. La scelta più
banale sarebbe stata prenderla da parte una sera all’orario
di chiusura del Joyful
e chiederle di diventare la mia amante, abbandonare tutto, stare con
me. Ma lei era più orgogliosa della donna più
orgogliosa che tu possa immaginare: sapevo che se le avessi proposto
una cosa del genere, non mi avrebbe più guardato in faccia.
Così ho deciso di mostrarle che l’amavo, e che
l’amavo talmente tanto da riconoscerla anche fuori dal Joyful. Avevo
pochissimi elementi per poter sperare di trovarla in una
città grande come Roma, ma decisi di provarci lo stesso.
Cominciai a girare tutte le librerie. Prima di
andare al ministero e quando ne uscivo la sera, fino
all’orario di chiusura dei negozi, nei finesettimana e nei
giorni di festa, camminavo a caso per la città e se vedevo
una libreria entravo, mi guardavo intorno e cercavo una donna dalla
pelle di velluto e gli occhi vivi e bellissimi come i suoi. La sera
andavo puntuale al Joyful,
la guardavo ballare e chiacchieravo con lei durante le pause e nei
pochi momenti liberi che aveva. Vivevo per guardarla al Joyful, e cercarla
fuori di lì.
È doloroso, sai? Volere tanto qualcuno
e non poterlo avere. Ma ho avuto pazienza: io, ragazzo, che mi ero
abituato a vedermi servire su un piatto d’argento tutto
quello che desideravo e a non dover aspettare mai, ho passato mesi ad
arrancare per le librerie del centro e della periferia di Roma in ogni
momento libero nella speranza di incontrare Purple Emperor, di vedere
finalmente il suo volto, di dimostrarle quanto contasse per me. E alla
fine, eccola.
Credevo che la ballerina fosse irresistibile, ma
la donna che c’era sotto la maschera era semplicemente
meravigliosa. Stava in quella libreria vicina a Piazza della
Repubblica, con il naso infilato ne Il trionfo della morte,
un’enorme sciarpa di lana intorno al collo nonostante fosse
soltanto Novembre e un cappellino verde scuro che le pendeva sul lato
destro della testa, e sul volto aveva l’espressione
più tranquilla e felice del mondo: non l’avevo mai
vista così.
Mi ci sono voluti dieci minuti per trovare il
coraggio di avvicinarmi. A quell’ora c’era
pochissima gente nella libreria, e nessuno mi aveva notato o
riconosciuto. Ho fatto un gran giro, passando per i corridoi fino ad
arrivarle alle spalle, anche se avevo paura che se ne andasse mentre
non l’avevo sotto gli occhi. Ma quando sono spuntato nella
sezione in cui l’avevo vista lei era ancora lì,
impalata nello stesso punto, ad accarezzare le pagine del libro che
aveva tra le mani. Ne ho preso uno anch’io, tanto per
nascondermi. Mi sono avvicinato pian piano, le sono arrivato alle
spalle. Volevo parlarle, ma solo in quel momento mi sono reso conto che
non ci riuscivo. Le parole non mi venivano, la gola era bloccata,
facevo fatica a respirare. Ho cercato di schiarirmi la gola, ed
è uscito fuori un verso rauco e strozzato. Lei è
saltata su, spaventata, e si è voltata a guardarmi.
Mi ha riconosciuto subito, l’ho visto da
come le sue pupille si dilatavano, l’ho sentito nel suo
respiro che accelerava. Le ho teso un segnalibro a forma di farfalla,
l’avevo visto mentre entravo, ed era una cosa stupida, ma non
sapevo come farle capire che sapevo che era proprio lei, Purple
Emperor. Ha socchiuso la bocca, voleva parlare, ma sembrava non
riuscirci neanche lei. Balbettava. “Ma tu… qui-che
fai, tu…”, ed era così carina mentre
annaspava, non l’avevo programmato e sapevo che non era una
mossa saggia, ma non potevo resistere. Le ho afferrato il volto e
l’ho baciata.
Mi aspettavo che mi respingesse, ragazzo, che mi
tirasse un pugno e marciasse via inferocita. Invece non l’ha
fatto. Si è dimenata un po’, all’inizio,
anche se debolmente. Ho staccato appena le labbra dalle sue –
avevo già osato troppo, potevo aver buttato al vento un anno
e mezzo di paziente lavoro – e lei ha smesso di agitarsi e mi ha baciato.
Riesci a comprendere la meraviglia di questa cosa così
semplice? Lei
baciava me.
Proprio me, che non avevo mai veramente sperato di riuscire a farle
capire che l’amassi, ed essere ricambiato.
Quella sera, guardarla al Joyful aveva tutto
un altro sapore. E dopo la chiusura, per la prima volta, venne a casa
mia.
Non fare quella faccia, ragazzo: non facemmo
l’amore. Io ero ancora così sbalordito per la sua
arrendevolezza che non riuscivo a fare altro che guardarla e tenerla
stretta, mentre sentivo il suo cuore battere vicino al mio, ogni
battito che mi ricordava che lei era davvero lì con me.
Anche lei era stordita: sapeva di piacermi, immaginava che prima o poi
avrei tentato di portarmela a letto, ma non le era mai passato per la
testa che potessi amarla. Era felice, quella notte. Anche se,
orgogliosa com’era, questo me lo disse solo molto tempo dopo.
Come ho appena detto, era orgogliosa.
Così tanto che quando le chiesi di lasciare il lavoro di
ballerina per stare con me, lei rifiutò. Sapevo che
l’avrebbe fatto; odiava anche solo pensare di dipendere da
qualcuno, era dell’idea che stare con me e permettermi di
pagare tutte le sue spese e aiutare i suoi genitori sarebbe stato come
vendersi; non lo sopportava.
Continuò a lavorare al Joyful, e io ad
andarci per poterla guardare. Non ero geloso: ero certo di lei e dei
suoi sentimenti per me, lo ero sempre di più ogni giorno che
passavamo insieme. Fuori dal Joyful
lei era mia, solo mia: i mesi passavano e io sapevo che era solo
questione di tempo prima che cedesse e mettesse da parte quel suo
dannato orgoglio per stare con me. Sposarmi, magari, e avere dei figli.
Già mi preparavo per la fatica che sospettavo avrei dovuto
fare per convincerla a diventare mia moglie. Ma se ti aspetti un lieto
fine, ragazzo, stai ascoltando la storia sbagliata.
Circa sei mesi dopo la mia prima serata al Joyful, al locale
era arrivata una nuova farfalla:
Blue Emperor. Scegliere il suo nome era stato facile, per il
proprietario: era bellissima, alta, dalla pelle di porcellana, con
lunghi boccoli biondi e grandi occhi azzurri, identici ai tuoi, come
una principessa delle favole; e, cosa più importante, Purple
l’aveva presa subito sotto la sua ala protettrice. Una mossa
saggia, perché nonostante il giro in cui si stava infilando,
quella ragazza aveva un’aria sperduta e
un’innocenza che facevano gola a molti.
Era curioso osservare Purple e Blue insieme. La
prima rimproverava sempre la seconda: la esortava a stare attenta, a
non lasciarsi abbindolare dai clienti, ma Blue era davvero innocente e
non per affettazione: aveva un’anima candida come non ne ho
mai visto l’eguale.
Il mio capo si prese subito una sbandata per Blue
Emperor. Aveva l’indole del predatore, e il candore di quella
ragazza lo eccitava oltre ogni misura.
Purple si impegnava più che poteva per
tenerla lontana dalle sue grinfie. Si arrabbiava, le faceva ramanzine,
e quando lo vedeva avvicinarsi a lei, la trascinava via con la scusa di
dover sostituire delle colleghe in altre sale. Così le
riuscì di tenere Blue separata dal mio capo per quasi un
anno, ma alla fine non poté nulla contro tutti i soldi e il
potere di quell’uomo. Con quelli si comprò la
possibilità di stare da solo con Blue Emperor; con il suo
fascino, invece, conquistò il cuore tenero di quella povera
ragazza. Lei credeva ancora al principe azzurro, al vero amore e al
lieto fine delle favole: niente di quello che le aveva detto Purple era
riuscito a farle aprire gli occhi sugli squali tra cui veleggiava ogni
sera. Fu una facile preda.
Blue Emperor e il mio capo divennero amanti.
Purple fumava di rabbia: conosceva troppo bene quell’uomo per
avere dubbi su come si sarebbe comportato. Lui non chiese mai a Blue di
lasciare il Joyful:
era sposato, aveva dei figli, e non avere tra i piedi la propria amante
era una comodità a cui non avrebbe mai rinunciato.
Contro ogni previsione, per qualche mese tutto
andò bene. Poi le cose precipitarono.
Puoi immaginarlo da solo. Blue Emperor rimase
incinta, e come chiunque tranne lei avrebbe potuto prevedere, il suo
amante insisté per farla abortire.
Ma Blue era più forte di quando
credessimo. Amava già quel figlio che le cresceva in grembo,
e si rifiutò di accondiscendere a quella terribile
richiesta. Continuò a lavorare al Joyful; disse a
Purple che l’avrebbe fatto fino a quando la gravidanza non
fosse diventata evidente, e poi sarebbe tornata alla
normalità, avrebbe cercato un lavoro ordinario e una
casetta, con i soldi che aveva messo da parte in quell’anno.
Al mio capo, quel progetto non andava
giù. L’idea che un suo figlio illegittimo girasse
per il mondo lo mandava in fibrillazione: era un pericolo troppo
grande, Blue avrebbe potuto far scoppiare lo scandalo in ogni momento,
e il test del DNA l’avrebbe inchiodato senza appello.
Così si accordò con il proprietario del locale, e
decisero di optare per la soluzione che per secoli aveva risolto questo
tipo di problemi.
Non lo scorderò mai. Era un
mercoledì sera, era quasi l’ora di chiusura e la
maggior parte dei clienti se n’era già andata dal Joyful, compreso il
mio capo. Blue e Purple erano al piano superiore, approfittando della
relativa solitudine per chiacchierare e ridere in pace. Io ero un piano
più sotto, nascosto sulla soglia della sala che dava sulle
scale. Le ho viste sbucare sul pianerottolo, ho sentito le loro risate
squillanti. Erano proprio sul bordo del primo gradino quando qualcuno
spalancò di scatto la porta lì vicino e
colpì Blue Emperor in pieno. Per un istante lunghissimo il
mondo sembrò muoversi al rallentatore: vidi i suoi riccioli
ondeggiare follemente mentre barcollava; i suoi occhi si sgranarono
sotto la maschera, il sorriso che aveva sul volto si congelò
e divenne una smorfia di paura, e una delle sue mani andò
d’istinto a coprire il ventre, quasi avesse già
capito cosa stesse per succedere e quale sarebbe stata la tragica
conseguenza.
Ma Purple non era pronta a vedere la sua amica
perdere il bambino, o peggio, spezzarsi l’osso del collo dopo
un volo giù per le scale. Con un balzo le arrivò
addosso mentre il corpo di Blue già aveva perso
l’equilibrio e le serrò una mano sul braccio in
una morsa ferrea. La strattonò indietro, verso il
pianerottolo, l’unico riparo sicuro.
Rischiò di finirci Purple,
giù per le scale. Ma Blue no; lei era al sicuro, in salvo,
lontana da quella rampa maledetta.
Dalle porta che l’aveva urtata
sbucò il proprietario del Joyful: aveva
l’espressione scocciata quando vide che Blue non era caduta,
ma la nascose rapidamente. “Che fortuna, Purple, che tu abbia
questi riflessi” disse a denti stretti.
“Già. E che
sfortuna, che tu abbia aperto la porta proprio mentre
passava Blue” sibilò lei di rimando. Aveva fatto
due più due in un secondo; il mattino seguente, a casa mia,
mi confessò che temeva che accadesse qualcosa di simile sin
da quando Blue le aveva confidato di voler avere il bambino.
Quella fu l’ultima volta che qualcuno
vide Blue Emperor. Il giorno dopo, all’orario di apertura, il
proprietario si accorse che non si era presentata al lavoro. Il mio
capo la fece cercare, ovviamente – voleva essere certo che il
problema del bambino venisse risolto – ma nessuno la
trovò mai. Era sparita, semplicemente.
Se c’entrava Purple? Centro pieno,
ragazzo. La mia donna, la mia splendida, amata Purple, c’era
dentro fino al collo. Non fu facile estorcerle la verità, ma
alla fine cedette: aveva aiutato Blue a nascondersi. Quella stessa
notte in cui Blue rischiò di volare giù dalle
scale, Purple l’aiutò a raccogliere le sue cose e
i soldi, la spedì lontano, dove nessuno l’avrebbe
trovata, e coprì le sue tracce. E ci riuscì
talmente bene che mai nessuno fu in grado di scoprire dove Blue Emperor
e il suo bambino non ancora nato erano andati. Nemmeno io
l’ho mai saputo: Purple si rifiutò categoricamente
di dirmi dove avesse mandato la sua amica.
Ero preoccupato. Naturalmente il proprietario del Joyful aveva capito
che c’era Purple dietro l’inspiegabile sparizione
di Blue, e non aveva esitato nell’informare il mio capo.
Erano entrambi furiosi: uno aveva perso una notevole fonte di guadagno,
l’altro non aveva più la possibilità di
rimediare al suo piccolo problema.
Chiesi a Purple di lasciare il lavoro e
nascondersi. La pregai, la supplicai, ma lei fu irremovibile: oltre
alla propria famiglia, adesso aveva anche quella di Blue di cui
preoccuparsi, perché solo con la promessa di tenere
d’occhio anche i suoi genitori era riuscita a convincere Blue
a scappare.
Mi sarebbe piaciuto trovare una soluzione per quel
problema. Mi scervellavo, mi lambiccavo il cervello in ogni momento
libero per capire come sistemare quella situazione da pazzi, ma non
avevo idee. L’unica cosa a rendermi tranquillo era sapere
che, finché era accanto a me, Purple non correva rischi e io
avevo più tempo per farmi venire in mente una soluzione
decente.
La verità era che di tempo non ne avevo
affatto.
Circa una settimana dopo la sparizione di Blue
Emperor, fu convocata una riunione straordinaria di tutti i ministri
del Lavoro dei Paesi dell’Unione Europea. Non potevo
sottrarmi: dovetti partire, con la previsione di stare via circa due
giorni.
Convinsi Purple a passare con me la notte prima
della mia partenza. Era tardissimo – o prestissimo, a seconda
dei punti di vista: quasi le quattro del mattino, credo. Ci eravamo
addormentati abbracciati dopo aver fatto l’amore, ma ero
così nervoso che riuscivo solo a sonnecchiare; bastava il
minimo rumore per svegliarmi. Purple dormiva; aveva il palmo di una
mano e la fronte pressati sul mio petto. Ogni tanto si muoveva appena e
mi si stringeva addosso un po’ di più. A un certo
punto strofinò piano il naso sul mio petto; la sentii
respirare profondamente e baciarmi all’altezza del cuore. Si
muoveva piano, convinta che fossi addormentato. E poi sentii quel
mormorio bassissimo, quasi impercettibile. “Ti amo”.
Era la prima volta che me lo diceva. Io glielo
avevo detto, e non una volta sola, ma lei a me non l’aveva
mai detto. “Te lo dirò quando meno te
l’aspetti, perché se te lo dico quando tu lo dici
a me, sembrerà che lo faccia solo per darti la risposta che
ti aspetti” mi aveva detto un giorno, con uno dei suoi soliti
ragionamenti contorti. Ma in quel momento capii cosa intendesse:
sentire quel “ti amo” mormorato, senza alcun
preavviso, fu dolce; così dolce che mi spezzò il
cuore.
Il mattino seguente, partii. Le ore sembravano non
passare mai, i discorsi degli altri ministri erano solo un ronzio privo
di senso. Avevo una brutta sensazione e volevo solo tornare a casa,
trovare Purple e stringerla a me, baciarla, tenerla al sicuro.
La sera seguente ripartii per l’Italia.
Quando arrivai andai dritto al Joyful:
non m’importava che stesse lavorando. L’avrei
portata fuori di lì e le avrei chiesto di sposarmi. Avevo
deciso – no, avevo capito
– che non potevo più aspettare. Ma quando entrai
al Joyful,
trovai la peggiore delle sorprese ad attendermi.
Uno dei buttafuori, un uomo particolarmente
grosso, aveva un sacco caricato su una spalla e una pala in una mano.
Borbottava, furibondo. “Perché tocca sempre a me
ripulire?” ringhiava sottovoce. “Loro fanno i
casini e io devo sistemarli”.
“Che cos’è
successo?” chiesi, simulando indifferenza. Avevo sentito dire
che qualche volta c’era scappato il morto, al Joyful, ma da
quando lo frequentavo non era mai capitato.
“Il capo e un suo amico, quello che
stava sempre con Blue Emperor, erano arrabbiati marci. Una farfalla gli stava
dando un sacco di problemi e hanno deciso di sistemare la cosa a modo
loro” bofonchiò, infastidito. Aggrottò
la fronte, dando un colpetto al sacco che portava in spalla.
“Peccato. Mi stava simpatica, Purple Emperor; era sempre
gentile, con me”.
In quel momento il mio cuore si spezzò
davvero. Non ho un altro modo per descrivere quello che provai. Era un
uomo finito, proprio come mi vedi ora.
A questo punto non c’è molto
altro da raccontare. Mi offrii di aiutarlo a caricare la macchina; gli
presi la pala e gliela sbattei in testa con tutta la rabbia che provavo
in quel momento. Il poveretto crollò come un sasso e io
rubai la macchina, con dentro il corpo senza vita della donna che
amavo. Lo portai via, mi nascosi. Comprai una casetta in un posto
lontano dalla città e seppellii Purple sotto un
bell’albero, all’ombra, nell’angolo del
giardino. Ogni giorno mi siedo accanto a lei e le parlo.
Il suo vero nome? No, ragazzo, questo è
un segreto che non rivelerò. Il suo nome resterà
con me fino a quando non la raggiungerò sotto
quell’albero.
Sono rimasto con lei per tutti questi anni.
L’unico contatto col passato lo ebbi poco dopo essere
scappato: rintracciai quel pover’uomo talmente disperato da
dover nascondere cadaveri di innocenti per il proprietario del Joyful e versai sul
suo conto corrente una grossa somma di denaro, grande abbastanza da
permettergli di lasciare quel posto e rifarsi una vita in un luogo
lontano. Mi auguro l’abbia fatto: quella sera di tanto tempo
fa, erano due uomini disperati a fronteggiarsi sull’ingresso
di servizio del Joyful,
con un cadavere tra loro.
Provai anche a rintracciare Blue Emperor. Lei era
stata amica di Purple, era stata salvata da lei, e sentivo che in Blue
e nel suo bambino sopravviveva un pezzetto di Purple.
Ma la donna che amo aveva fatto un ottimo lavoro.
Nessuno fu mai in grado di rintracciarli, e dopo molti tentativi, mi
rassegnai. Così tutto quello che mi rimase di Purple Emperor
fu una lapide in giardino e una manciata di ricordi.
Questo è tutto, ragazzo. Il mio
racconto termina qui, e non credo di avere nulla da aggiungere. Adesso
devo andarmene: sono lontano da casa da troppo tempo, e Purple mi
aspetta. Vivi la tua vita lontano dalla corruzione, ragazzo, e niente
insozzerà la tua anima.
Ti auguro una vita felice.
Vuoi saperla un’ultima cosa?
Sarà l’aver rievocato questa storia dopo tanti
anni, ma tu hai una faccia familiare. Deve essere la vecchiaia che fa
brutti scherzi. Addio, ragazzo.
******
Finalmente sono arrivato
al traguardo che mi ero prefissato. Scrivere un libro. E raccontare la
verità.
LA COLLEZIONE DI FARFALLE
di
Alessandro Borromini
A mia madre, che ha
combattuto contro il mondo per darmi la vita,
e a Purple Emperor, che
ha salvato quella di entrambi.
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