Questa
storia nasce dopo un’ispirazione improvvisa,
dovuta a una festa in pieno stile Middle-Earth con tanto di
“lembas bread” &
“ale”.
A
dire il vero era da tempo che pensavo ad una storia del
genere.
Il
protagonista è Frodo, il personaggio che più
adoro in
assoluto.
Ho
sempre ritenuto perfetto il finale scritto dal mio
caro compaesano Tolkien, ma non nego che la curiosità sul
destino del Portatore
dell’Anello è rimasta.
Di
fatto abbiamo poche certezze e si può solo immaginare
quale sia stata la sua Eternità.
È
infine davvero guarito?
Oppure
le ferite continuano ancora a tormentarlo?
Questo
è un mio tentativo di risposta.
Perché
poi una sudafricana scrive in una lingua non sua,
su un sito italiano di ff? Ebbene è stato quando ho vissuto
in Italia che sono
passata dall’altro lato della barricata, non limitandomi
più a leggere ma
iniziando appunto a scrivere. Continuo su questa linea insomma.
È
stato così che ho conosciuto delle persone speciali,
come Silvia,
alla quale dedico
questa storia insieme a Sascha, colui che di fatto è il mio
Sam. ♥
Prima
di lasciarvi sappiate
che tutto quanto di nuovo troverete e soprattutto non conforme agli
scritti del
“maestro”, sono mie licenze poetiche. E abbiate
pietà di me se c’è qualche
strafalcione che non ho notato o che alle mie orecchie suonava invece
bene…
Vi
lascio alla lettura
___________________________
How do you pick up the threads of an old life?
How
do you go on, when in your heart you begin to understand there is no
going
back? There are some things that time cannot mend. Some hurts that go
too deep,
that have taken hold…
AINADAMAR
Capitolo
uno
Argento
Passi
leggeri riecheggiavano appena per il lungo patio.
Il
pavimento rivestito da losanghe di marmo candido, scolpite finemente da
motivi
modulari.
Un
giardino magnificamente tenuto.
Un
mare di verde.
Un’intricata
quanto perfettamente studiata trama di rami e foglie lussureggianti.
Siepi
basse e curate dalle abili mani di giardinieri a fiancheggiare un
brevissimo
sentiero.
Una
fontana seminascosta e imponente.
Il
rumore discreto e musicale dell’acqua, ritmico nella sua
melodia interiore e
priva di spartito cartaceo, a fungere da sottofondo a quella notte
altrimenti
silenziosa.
Assenza
di suono.
La
logica conseguenza della fine del giorno che da qualche ora aveva
ceduto alle
lusinghe delle tenebre.
Quiete.
Il
riflesso dell’anima di coloro i quali dimoravano in quelle
Terre Imperiture e
le cui vite erano rientrate nei binari della tranquillità.
Ora
che la minaccia dell’Anello era stata sventata e la spirale
impazzita di sangue
scarlatto allontanata definitivamente.
Per
tutti.
Per
tutti…?
La
Luna si stagliava contro la nera ardesia di una cupola eterea infinita
e
sgombra di nubi.
Signora
della notte.
Maestosa.
Regale.
Distante.
Una
nota disarmonica.
A
conferma di ciò, un tremito gelido attraversò la
schiena della figura che
percorreva lentamente lo spazio semicoperto.
Il
marmo sembrava riflettere e ridare all’esterno la freddezza
di quella luce
serica. Esattamente come accadeva di giorno, quando a essere assorbito
era
invece il calore dei raggi del Sole. Nelle ore nelle quali la canicola
era
maggiore, la pietra lattiginosa assumeva una tonalità di
bianco insopportabile
agli occhi. Quel candore feriva brutalmente le iridi e marchiava a
fuoco le
piante dei piedi di quanti si avventuravano per quei corridoi senza
calzature.
Lui
era uno di quelli.
Gli
occhi, di un azzurro intenso, sembravano enormi su quel volto pallido.
La
fronte appena velata da gocce opalescenti di sudore freddo.
L’andatura sicura,
sebbene non esattamente vigorosa.
Si
fermò.
Distolse
lo sguardo dalla sua guida notturna.
La
Luna.
Colei
che gli aveva provocato quel senso di malessere.
Era
raro in lui.
Era
raro in qualsiasi creatura della sua specie.
Abituato
alla vita a stretto contatto con la natura e gli elementi che la
costituivano,
dal più banale stelo d’erba coperto dalla rugiada
del mattino sino ai più alti
rappresentanti, quali erano gli Astri, aveva finito con lo stabilire
loro dei
legami di tipo quasi panico. Come li avesse personificati. Li
rispettava come
era solito fare con qualsiasi altro Hobbit, Elfo, Nano o rappresentante
della Gente
Alta che conoscesse. Aveva imparato a non temerli, piuttosto ad amarli.
Nel
caso particolare della Luna poi, aveva sempre sorriso alle notti nelle
quali,
piena, era visibile in tutto il suo splendore, esattamente come soleva
salutare
le giornate ridenti di Sole, riscaldate dai raggi fecondi.
Poi
qualcosa era cambiato.
Durante
i mesi nei quali aveva vagato per la Terra di Mezzo.
In
quell’occasione aveva smesso di guardare alla Luna
positivamente. Aveva
iniziato a non soffrirne più la presenza, a non trovare
più in lei nessuna
bellezza, nessuna traccia di maestà.
Solo
un profondo senso di amarezza.
Era
diventata l’icona di quella parte del giorno, inteso come
entità di
ventiquattro ore, che non riusciva più a considerare come
ristoratrice o
confortante.
Precisamente
di notte tutti i pensieri funesti tornavano in superficie con maggiore
prepotenza, rendendogli impossibile il riposo, penoso il trascorrere
delle ore,
lì a occhi spalancati aspettando il sorgere del Sole, ed
insostenibile il peso
del fardello che aveva finito per trascinare avanti sempre con maggiore
fatica.
Un
semplice cerchietto d’oro, contenente un potere negativo di
incommensurabile
proporzione ed effetto.
Un
Anello che aveva deviato il tranquillo corso della sua esistenza.
Un
Anello che si era impossessato a tratti della sua mente, smuovendo le
acque
della sua solitamente affabile natura, rendendolo scontroso, bramoso di
un
potere che non gli era mai interessato, rendendolo cieco di fronte
all’evidenza, facendogli allontanare da sé il
leale Samwise e dare invece
ascolto alla volontà malata e infida di Gollum.
Gli
occhi, allontanati dal disco argenteo notturno, si posarono sul marmo.
Lo
sguardo si focalizzò sull’ombra grigio chiaro che
si stagliava longilinea sulla
pietra cesellata ad arte e lucida di fronte a lui.
“Sam…”.
Un
sorriso triste gli incurvò i lineamenti dolci del volto.
L’ovale
sorridente e appena paffuto dell’amico gli riempì
la memoria.
Fotogrammi
della loro vita nella Contea, poi altri in viaggio per Terra di Mezzo,
gli attimi
di sconforto, le incomprensioni, le lacrime che avevano versato allo
stremo
delle forze, Sam che lo proteggeva da Gollum…
“Gollum…”.
Gli
occhi si chiusero, mentre il ricordo di quell’essere di
difficile
classificazione, il risultato della deformazione di colui che un tempo
era
stato lo Hobbit Sméagol, sostituiva quello malinconico, ma
indubbiamente
positivo e ricco di calore di Sam.
Una
strana morsa gli contorse lo stomaco, mentre il corpo si irrigidiva
dolorosamente e le mani si stringevano a pugno. Violentemente e in un
gesto
poco consono per lui. Respirò profondamente, cercando di
allontanare quel
disagio e quello strano sapore metallico che si stava impossessando del
suo
palato. Dovette passare qualche istante, prima di riaprire gli occhi e
voltarsi
dietro di sé.
Un
riflesso incondizionato, che non aveva potuto evitare, le iridi che si
muovevano guardinghe come a temere l’arrivo, tanto
inaspettato quanto
repentino, dell’essere che aveva cercato di ucciderlo.
Ancora
rivedeva la schiena arcuata e attraversata da
un’evidentissima spina dorsale a
tendere il sottile strato di pelle grigio-rosa malsano di quel corpo
semi-deformato, ma incredibilmente agile, dinoccolato e resistente. Poi
quegli
occhi spropositati ad occupare un buon settanta per cento del volto
grinzoso di
colui che era stato un membro della sua stessa specie.
E
poi quella voce, sibilante e in grado di assumere più
tonalità ingannevoli. Da
quella spietata e avida di Gollum, a quella lamentosa e infantile di
Sméagol.
…
il mio tesoro…
Ma
era stato Gollum a vincere in quella faida bipolare.
Quello
stesso essere verso il quale aveva mostrato più volte
pietà.
In
maniera inspiegabile per Samwise.
In
maniera del tutto logica per lui, invece.
Gollum,
ai suoi occhi, non era mai stato troppo diverso dall’essere
nel quale lui
stesso era andato trasformandosi durante l’Avventura
dell’Anello. Aveva rivisto
in lui la sua stessa corruzione, sebbene ad un livello molto
più avanzato.
L’ex
Hobbit aveva, infatti, ceduto completamente alla brama effimera del
potere
dell’Unico Anello.
Lui
no.
Aveva
allontanato il torpore che aveva sopraffatto le sue membra esauste e la
sua
mente continuamente sottoposta all’invito mellifluo della
voce di Sauron,
proprio nell’attimo immediatamente precedente
l’azione che aveva rischiato di
compromettere l’esito positivo dell’Impresa.
Salvandosi.
Salvandosi…?
Sospirò
ingiungendosi di calmarsi.
Gollum
era morto.
La
lava incandescente aveva liquefatto il suo essere, insieme
all’Anello che si
era impossessato della sua anima dannandola e degradandola.
Proprio
dopo essersi appropriato di Lui.
Il
tesoro così chiamato, l’aveva voluto per sempre
con sé, in quel mare
gorgogliante di bollicine sature di gas e zampillante di schizzi
iridescenti,
cangianti, dall’arancione più vivido al giallo
più puro e rovente.
Uno
scherzo del destino.
…
il mio tesoro…
Spostò
le iridi, che ora mostravano appena i residui di quello stato di
agitazione,
soffermandole sui contorni del paesaggio che lo circondava e poi sulla
seconda
ombra proiettata dalla Luna. Dietro di sé e appena
più chiara di quella che si
stagliava sul lato opposto.
Due
ombre che prendevano vita dalla base dei suoi piedi, appena divaricati.
Piedi
da Hobbit.
Non
troppo piccoli, candidi e coperti da una curiosa peluria.
Due
ombre lunghissime.
Sorrise
impercettibilmente e per un attimo in maniera spontanea.
Per
i suoi piedi buffi, per la sua ombra altissima.
Ironia.
Può
uno Hobbit avere un’ombra così lunga?
Sì.
Scosse
la testa, mentre muoveva il busto in avanti.
L’espressione
del volto nuovamente assorta, come se quel sorriso fosse stato un
accessorio
stridente.
E
forse era così.
Se
nel vecchio Frodo della Contea la tristezza era una nota poco consona
adesso,
nel nuovo Frodo della Contea esiliato volontariamente a Valinor, nel
Regno
Eterno che si estendeva al di là dei Porti Grigi, era una
caratteristica quasi
comune e spesso mal celata.
I
piedi si poggiarono con l’usuale leggerezza sugli ampi
scalini che permettevano
l’accesso al giardino. Imboccò deciso e senza
saggiare ulteriormente con lo
sguardo le silhouette delle piante maestose che conosceva ormai a
menadito.
L’aspetto
pregevole della fontana gli riempì le iridi. Come
ipnotizzato dal rumore
monotono dell’acqua limpida che scorreva incessante, si
avvicinò presso la
scultura ricavata da una nivea roccia calcarea. Il bordo della vasca
inferiore
gli arrivava all’altezza del petto, pur non essendo questa
esageratamente
elevata.
Alzò
il mento e osservò il corpo centrale, dal quale sgorgava il
flusso in tanti
getti copiosi. Sollevandosi poi sulla punta dei piedi,
poggiò le mani
sull’estremità della vasca e sporse in avanti il
volto, studiandone
l’improvviso riflesso emerso sulla superficie dello specchio
d’acqua, mosso qua
e là dagli zampilli che vi si tuffavano dentro.
Il
quadro che ne risultava era un primo piano tremolante e non
perfettamente
visibile a causa dell’ombra prodotta dalle fronde degli
alberi più imponenti.
“Frodo
Baggins…”.
La
voce del piccolo Hobbit modulò il suono come assente e con
un’intrinseca nota
d’incertezza.
Quasi
un volersi chiedere:
Sono
davvero io?
O
forse, più precisamente:
Sono
ancora io?
“Frodo
Baggins…”.
Di
nuovo, a voce più alta, il giovane originario della Contea
ripeté il proprio
nome, cercando di coglierne l’essenza e sforzandosi di capire
se quelle due
parole lo rappresentassero ancora.
Non
stentava a credere che molti avessero di lui un’immagine
diversa. Memorie
relative a un essere allegro, solare, gentile. Tutto parzialmente vero.
Era
rimasto cortese, questo sì, ma per il resto era cambiato.
L’aver
distrutto l’Anello e l’aver ricondotto
l’anima nera di Sauron laddove non
poteva più nuocere, non aveva avuto come conseguenza
scontata l’estinzione del
fardello che gli aveva gravato sulle spalle.
Era
rimasto un qualcosa.
Un
residuo duro a morire.
Una
sorta di demone che gli impediva di godere appieno della vita
nell’accogliente
Contea che gli aveva dato i natali, facendolo sentire fuori luogo,
senza motivo
apparente.
Peregrin
Took, Meriadoc e Samwise erano riusciti a riadattarsi nuovamente alle
loro
routine precedenti la creazione della Compagnia.
Lui
no.
Era
un suo problema dunque.
Era
un malessere al quale egli stesso non sapeva dare un appellativo, ma
che
avvertiva, inequivocabilmente.
Senza
nome.
Un
male oscuro.
Ma
era lì.
Con
lui.
Non
lo aveva del tutto abbandonato.
Nemmeno
in quel di Valinor.
Nella
terra della letizia e della gioia imperiture.
Nella
terra dei Luminosi per antonomasia che lo aveva accolto però
ugualmente,
insieme a Bilbo, nonostante la loro natura non elfica.
Una
terra nella quale si era augurato di poter ricominciare, quasi sperando
che la
sua malinconia si dileguasse tra le acque azzurre del Mare, durante il
lungo
viaggio che li aveva fatti allontanare a Ovest della Terra di Mezzo.
Aveva
sperato che tutto svanisse in maniera impalpabile, ma al tempo stesso
decisa,
come vedeva puntualmente fare alla densa bruma mattutina, quando cedeva
il
passo ai raggi tiepidi del Sole nascente a Est.
Ma
lui stava ancora aspettando il suo Sole.
Chissà
poi se sarebbe mai sorto.
Chissà
se sarebbe mai giunto.
Chissà
se lo avrebbe mai trovato.
Sarebbe
mai riuscito di nuovo ad alzarsi al mattino serenamente, al colmo
dell’aspettativa nei confronti del dì nascente?
E
si sarebbe mai di nuovo coricato a letto la sera, soddisfatto della
giornata
appena trascorsa e desideroso quindi di concedersi un riposo
ristoratore?
Sarebbe
mai di nuovo riuscito a sedere a tavola e concedersi un pasto di quelli
luculliani, tanto cari agli esseri della sua specie, e indice della sua
ritrovata gioia di vivere?
Sarebbe
tornato mai alla sua vecchia vita?
Nemmeno
scrivere la storia nata da quei mesi di avventura, lo aveva aiutato.
Gli
incubi che spesso gli rovinavano il sonno avevano come comune
denominatore
quella strana sensazione di fastidio, irrequietezza.
Perenne
a quanto sembrava.
Eterna
all’apparenza, come la Terra che adesso lo ospitava.
Non
bastava avere accanto la presenza rassicurante di Bilbo o
dell’accorto Gandalf,
né quella discreta ma solidale degli Elfi.
Nessuna
parola gentile da loro, nessuna conversazione o gesto affettuoso
potevano
lenire quell’infelicità, quando tornava in
superficie. E non c’era modo di
prevederlo. Giungeva senza preavviso, guastando la sua permanenza in
quel luogo
deputato alla tranquillità e alla serenità per
antonomasia.
L’Anello,
in un modo o nell’altro, aveva segnato la vita del suo
Portatore, e la purezza
d’animo di colui che generosamente si era offerto per
l’incarico, pur avendo
resistito a lungo, aveva funto da terreno ideale per il Male,
anziché essere un
mezzo in più per sconfiggerlo del tutto, come sarebbe stato
naturale pensare.
L’occhio
nero di Sauron aveva avuto la sua piccola rivincita.
Il
volto tremolante, sul quale adesso aveva fissato il proprio sguardo,
non gli
propose nulla di nuovo in un certo senso. Fisicamente era ancora lui.
“Frodo
Baggins…”, formularono quasi come a se stesse le
labbra dalla linea
improvvisamente dura.
Lineamenti
armoniosi ed espressivi.
Numerosi
riccioli castani scendevano a mo’ di frangia su una fronte
pallida e ancora
imperlata di sudore, indice del suo disagio. L’aria era
appena calda, una
temperatura che difficilmente avrebbe fatto sudare se non unita a
quell’inquietudine interiore. Alcune di quelle ciocche erano
umide, più scure e
incollate sulla pelle, quelle appena più lunghe invece gli
facevano il
solletico sulla base del collo.
Due
orecchie dalla classica sagoma puntiforme facevano capolino da quelle
trame
color caffè. Il suo biglietto da visita più
distintivo in un certo senso. Una
delle caratteristiche più evidenti ad un occhio estraneo,
grazie alla quale si
comprendeva la sua natura non umana.
Anche
gli Elfi avevano quel tipo di orecchi, ma la somiglianza con gli Hobbit
si
fermava lì. Nulla della leggiadria dei Signori della Terra
che lo ospitava lo
caratterizzava, né tanto meno la linea particolarmente
aggraziata ed efebica
del corpo, né il portamento regale ed innato. No. Suoi erano
invece l’altezza
non esaltante, il fisico appena tozzo sebbene snello e niente affatto
grossolano nei movimenti, e in generale un sembiante che ispirava
istintivamente simpatia e senso di protezione nelle creature delle
altre
stirpi.
Il
suo aspetto lo faceva sembrare ancora un bambino per via dei tratti
delicati e
fanciulleschi che gli schizzavano la superficie ultimamente cerea del
volto.
Gli
occhi erano comunque senza dubbio il dettaglio di maggiore rilevanza.
Gli
occhi di un saggio sul volto di un bambino.
Occhi
screziati da lame argentee a farsi beffa, con la loro perfezione, della
luce
lunare e a rifletterla, contemporaneamente, in un inconsueto gioco di
specchi.
L’iride
di un azzurro intenso era per l’appunto arricchita da quella
tempesta di
acciaio splendente.
Una
smorfia di sofferenza modificò quel quadro stabile. Le dita
delle mani
strinsero con maggiore determinazione il bordo della vasca, il corpo
divenne
all’improvviso pesantissimo e dovette poggiare interamente le
piante dei piedi,
ora incapaci di sopportare il suo pur discreto peso, a terra.
Subito,
parte dell’immagine riflessa venne meno e la testa, come
mozzata da un colpo
preciso di spada, fu visibile solo dal naso in su.
Gli
occhi.
Ancora
una volta.
Il
mezzo attraverso il quale denunciava il suo disagio.
Uno
sguardo assorto nella maggior parte dei casi, mai interamente privo di
quel
grigio antracite paragonabile a delle nuvole cariche di pioggia in un
cielo
terso sull’immacolato verde della Contea.
Si
passò una mano tremante sulla fronte, avvertendo sui
polpastrelli ghiacciati,
il sudore che imperlava in maniera malsana la pelle.
Allontanò i capelli dal
volto, come a cercare ristoro, ma il movimento gli risultò
impacciato. Sentiva
il tessuto della leggera camicia che indossava umido. Inspiegabilmente
però
aveva freddo.
E
il dolore che lo aveva riscosso dalla contemplazione meccanica e
spassionata
del proprio volto, non accennava a diminuire. Era per quella stessa
pena fisica
che si era alzato di scatto e ritrovato a sedere sul soffice materasso
della
propria camera da letto, ormai alcune ore prima. Una fitta martellante
e
persistente all’altezza della spalla, laddove il
più temibile dei Nazgûl, Witch-king,
lo aveva pugnalato, inferendogli
una ferita profonda. Era accaduto a Weathertop. Una
scheggia della lama
con cui era stato colpito si era fatta velocemente strada verso il
cuore, ma
non del tutto, grazie alle cure prodigategli da Elrond, Signore di
Rivendell.
Una
ferita dunque rimarginatasi tecnicamente dal punto di vista medico, ma
che lo
aveva tormentato durante tutta l’estensione del viaggio,
soprattutto quando i
poteri malvagi dell’Anello avevano cercato di avere la meglio
sulla sua
razionalità, oppure se si era trovato a distanza ravvicinata
dalle creature
totalmente schiave di quel cerchietto d’oro recante una,
all’apparenza
sibillina, iscrizione nella Lingua di Mordor.
Lo
stesso fastidio, sebbene con minore frequenza, si palesava quando a
svegliarsi
era la seconda delle ferite che aveva riportato durante il viaggio.
Quella
dovuta al pungiglione dell’aracnide che aveva tentato di
ucciderlo più volte e
contro la quale aveva combattuto strenuamente prima di cedere.
Shelob…
Era
questo il nome di quell’essere innaturalmente enorme e in
grado di produrre una
ragnatela tanto spessa quanto viscosa che lo aveva impedito nei
movimenti,
rendendogli estremamente difficile la fuga.
Era
andato a letto relativamente tardi, dopo una cena consumata in
compagnia della cerchia di Elfi cortigiani della Dama Galadriel e del
suo
consorte Celeborn, presso la dimora che era stata loro destinata a
Valinor.
Non
erano rare riunioni del genere a dire il vero. Come non era inusuale
imbattersi in gruppi più o meno numerosi, costituiti dai
protagonisti
dell’Avventura dell’Anello, passeggiare sulla
sabbia finissima della spiaggia
che costituiva il limite orientale di Valinor. Solitamente appena dopo
il
levarsi del Sole, oppure nel tardo pomeriggio, quando le colorazioni
dai toni
più disparati iniziavano a tinteggiare il cielo
all’orizzonte, preparando un
testimone ideale per la notte. Rosa, sfumature inconsuete di lilla,
nuvole
topazio, soffici e corpose come panna montata, a dipingere
l’etere.
Frodo
aveva goduto di quell’atmosfera serena e al tempo stesso
gioiosa,
sebbene assolutamente parca in espressioni colorite o sollevamenti di
gomito.
Si sorprendeva sempre per come quelle creature immortali sapessero
dosare
positivamente le emozioni, negative o positive che fossero,
distillandole.
Tutt’altra cosa accadeva invece tra gli Hobbit e i Nani, ma
anche tra gli
Uomini, lo sapeva bene. Abbandonati i cerimoniali ampollosi, anche
quest’ultimi
erano dalla natura decisamente solare e godereccia.
Era
stato lieto di vedere che Dama Galadriel si era del tutto ripresa da un
paio di settimane che l’avevano vista non in perfetta forma
dal punto di vista
fisico. La sua ospite aveva rallegrato il convivio cantando delle
melodie
particolarmente belle e questo l’aveva resa ancora di
più la Regina
incontrastata della serata, come a rivendicare l’essersi
riappropriata di
quell’aura luminosa e splendente che la circondava sempre e
che l’aveva
abbandonata solo per qualche giorno nefasto.
La
notizia del suo misterioso malore aveva francamente sorpreso tutti e
per
quindici giorni era stato impossibile vederla. Frodo si era recato a
palazzo
più di una volta e si era informato delle sue condizioni
rivolgendo domande a
Sire Celeborn, il quale non aveva però rilevato cosa avesse
causato il
malessere.
Qualche
pomeriggio prima, di fronte alla notizia di una ripresa della Dama,
si era allontanato più sollevato dalla dimora elfica,
osservando a lungo le
finestre delle stanze che sapeva ospitavano Galadriel e le aveva
augurato una
completa guarigione, per poi congedarsi con un inchino.
Tornato
a casa, aveva trovato Bilbo in piena fase creativa, intento a
scribacchiare versi su versi, seduto nel loro studiolo e assolutamente
concentrato sul suo lavoro. Nonostante avesse provato a chiamarlo, per
palesare
così almeno il suo rientro dopo un intero pomeriggio fuori
casa, non aveva
ricevuto nessun cenno particolare da parte del cugino e lo aveva visto
di nuovo
conscio della realtà che lo circondava, solo quando nella
cucina si respiravano
ormai i profumi di quella che era una tipica cena Hobbit. Ricca come
sempre.
Zuppa
di funghi, stufato di carne, bruschette dorate e condite con un filo
d’olio e salse appetitose, l’immancabile birra e
poi una crostata rustica con marmellata
di mirtilli e frutti di bosco. Sebbene non mangiasse più con
l’appetito di un
tempo, amava cucinare e continuava a farlo soprattutto per Bilbo, per
quel suo
formidabile appetito che non accennava a diminuire.
Lo
Hobbit più anziano lo aveva salutato con un:
“Salve Frodo! Sei qui da
molto, ragazzo mio? Direi di sì visto che hai avuto il tempo
di cucinare tutte
queste pietanze”, aveva esordito autorispondendosi, per poi
dare un morso
deciso ad un crostino e masticarlo con gusto, annuendo ad indirizzo del
più
giovane cugino che, non potendo trattenere un sorriso di fronte a tanta
genuinità, si apprestava a servire la zuppa in alcune
terrine d’argilla bruna
smaltata.
Durante
la cena avevano conversato del più e del meno e Frodo aveva
poi
accennato alla sua visita a palazzo.
Bilbo
aveva finito di sgranocchiare la sua terza fetta di dolce, mandandola
giù con un abbondante sorso di tè nero con
aggiunta di fiori di melissa,
complimentandosi ancora per l’ottima cena e aveva poi
parlato: “Mi fa piacere
sapere che la Dama stia meglio. Vuol dire che dovrò
sbrigarmi. Spero comunque
che ne venga fuori qualcosa di ugualmente decente”.
Frodo
aveva preso a sparecchiare il tavolo nel frattempo e, fermandosi per
guardare interrogativamente il suo coinquilino, aveva esternato il
proprio
dubbio: “Di cosa stai parlando? Devi affrettarti a fare
cosa?” aveva, infatti,
inquisito, iniziando a riempire una bacinella con dell’acqua
tiepida e pronto a
lavare i piatti.
“Questo
può aspettare, ragazzo mio”, gli aveva sorriso
affettuosamente
Bilbo, riferendosi alle stoviglie da insaponare e appoggiandogli
delicatamente
una mano sulla spalla che sapeva essere stata ferita.
“Aspettami fuori sotto il
portico. Ti raggiungo tra un minuto”.
Scuotendo
la testa di fronte a quell’ennesima bizzarria, Frodo si era
asciugato le mani con un canovaccio di lino appeso presso il lavello ed
era
uscito di casa. L’aria della notte profumava intensamente di
elanor e
niphredil. Un angolo del loro giardino era appunto coperto interamente
da un
cuscino latteo di niphredil e uno contiguo, ma dorato, di bellissimi
quanto
piccoli e delicati elanor. Un regalo di Galadriel, la quale aveva
portato con
sé da Lothlórien due vasetti, colmi
rispettivamente delle due specie floreali
nel bel mezzo della loro fioritura primaverile. Un ricordo del suo
Regno Dorato
nella Terra di Mezzo.
Bilbo
si era affacciato poco dopo portando con sé dei fogli
scribacchiati,
quelli ai quali stava lavorando in precedenza, aveva intuito Frodo
fumando un
po’ di erba pipa. Mansione che faceva spesso dopo cena, nelle
serate nelle
quali si sentiva più sereno del solito.L’odore
acre ma al tempo stesso piacevole delle foglie di Vecchio Tobia che
bruciavano lentamente si era così unito a quello
più dolce dei fiori e,
osservando ancora le azioni dell’altro Hobbit, che era
nuovamente piombato in
casa per poi uscirne con in mano un calamaio colmo di inchiostro nero e
un
pennino creato appositamente per lui dagli Elfi,
aveva aspettato che quest'ultimo si appunto
spiegasse.
Cosa
che era avvenuta appena un istante dopo. La bella voce baritonale di
Bilbo aveva, infatti, preso a echeggiare intorno a loro, fluttuando
sotto il
portico ligneo e facendo disegnare sul volto di Frodo
l’ennesimo, e raro,
sorriso della serata.
"Che
te ne pare?”, aveva infine chiesto, gli occhi vivacissimi per
via
della lettura ad alta voce dei versi che aveva appena concluso.
“Mi
sembra un’idea bellissima. Credo che la Dama lo
apprezzerà molto”,
aveva risposto Frodo, ripassando mentalmente le strofe che aveva appena
udito e
saggiandone così le rime. Anche lui come il suo genitore
adottivo, aveva sempre
nutrito un interesse particolare per la letteratura e le arti in
generale ed
aveva quindi un ottimo orecchio e un ottimo gusto in fatto di canzoni e
poesie,
eventualmente musicate.
“Davvero,
Frodo? Non lo dici solo per farmi piacere?”.
Di
fronte a quel dubbio così profondamente sentito, il giovane
Hobbit aveva
negato con la testa e rassicurato l’altro con la
sincerità che gli era propria.
“Niente affatto. Non sono solito mentire, lo sai bene. E men
che meno a te.
Quello che hai scritto è un canto eccellente, un augurio di
pronta guarigione
che descrive perfettamente le qualità della Signora del
Bosco d’Oro. È uno dei
tuoi lavori migliori, mio caro Bilbo".
"Oh,
beh. Grazie allora, mio piccolo Frodo", aveva scherzato
Bilbo ricalcando il tono paternale con il quale l’altro aveva
concluso il suo
discorso, in un chiaro intento di imitare il finto burbero, distratto e
assolutamente affettuoso Gandalf. "Ho seguito un'improvvisa
ispirazione,
sai? Oggi pomeriggio, poco dopo che tu eri uscito, stavo fumando
proprio come
te ora, qui seduto su questi stessi scalini e mentre osservavo il mare
ho
spostato lo sguardo verso la dimora della Dama. I versi si sono
susseguiti
nella mia mente in maniera fluida, credo di poter dire, e questo
è il
risultato”.
Frodo
aveva annuito, come sempre colpito dall'entusiasmo infantile e
contagioso di Bilbo quando si trattava di nuove composizioni poetiche.
Gli era
sempre piaciuta quella freschezza in lui e sapere che lo avrebbe
accompagnato
per l'eternità lo rendeva felice.
"Queste
sono le note che ho buttato giù. Sono solo una specie di
spartito abbozzato, si capisce”, aveva ripreso lo Hobbit
ultracentenario
porgendo un paio di fogli al suo interlocutore che aveva smesso di
fumare la
pipa e preso invece a scorrere con occhi interessati la serie di note
che erano
neonate in quel pomeriggio di calma benedetta dai Valar, come sempre
lì nelle
Terre Imperiture.
"Hai
pensato proprio a tutto, eh?”, aveva sorriso genuinamente lo
Hobbit dalla morbida e riccioluta capigliatura castana, colpito
positivamente
dall'armonia delle note. Un degno accompagnamento per quei versi
così melodici
già di per se stessi.
"Beh",
aveva sorriso a sua volta Bilbo, una smorfia sorniona e
soddisfatta sul volto che aveva recuperato l'aspetto che lo aveva
caratterizzato fino a quando aveva posseduto l'Anello. Di fatto la sua
vecchiaia era scomparsa una volta messo piede a Valinor. "Credo che
cantare i miei versi senza accompagnamento musicale sarebbe stato in un
certo
senso... incompleto", aveva spiegato con lo stesso ghigno furbo ad
illuminargli il volto.
"Decisamente...",
gli aveva allora fatto eco Frodo, tenendogli il
gioco.Una
serata come tante in un certo senso.
Una
serata come quelle che avevano vissuto innumerevoli volte nella Contea,
prima della Quest che aveva modificato le loro esistenze.
Un
velo di nostalgia aveva oscurato per un attimo i loro volti, prima di
essere cacciato di nuovo via, in favore dell'argomento che aveva dato
origine a
quell'atmosfera rilassata e serena."Vorresti
aiutarmi a comporre la strofa finale, Frodo?", aveva
allora ripreso a parlare Bilbo.
"Ne
sarei onorato", aveva risposto serio lo Hobbit più giovane,
alzandosi e sedendosi sui soffici cuscini della panca che ospitava
già il
cugino. Capo chino sui fogli, la luce viva e appena tremolante del
lampadario
in ferro battuto, alimentato da una quantità appropriata di
olio, ad
accompagnarli nel resto di quella serata, il rumore appena udibile del
pennino
che tracciava segni grafici eleganti su quella carta appena ruvida, e
quindi
perfetta per assorbire subito l’inchiostro, man mano che il
canto veniva
completato e modificato qua e là.
La
cena di quella sera appena conclusasi, era stata appunto l'occasione
per
omaggiare Galadriel con il loro presente. Timidamente Bilbo aveva
chiesto a
Celeborn e alla Dama se era possibile per lui e Frodo onorare quel
banchetto
con una loro canzone. Il permesso era stato accordato immediatamente,
suscitando esclamazioni di piacere. Gli Elfi amavano moltissimo i canti
e Bilbo
e Frodo erano noti per la loro bravura.
Tutti si erano aspettati evidentemente una canzone Hobbit
per così dire,
un componimento già noto alle loro orecchie e pronunciato
nella Lingua della
Contea, per questo grande stupore aveva causato l'ascoltare quel
melodioso
sovrapporsi di voci maschili cantare nell'Elfico propriamente di
Lothlórien. Un
Elfo aveva ricevuto da Bilbo una copia dello spartito e con dita veloci
ed
abili, aveva pizzicato l'arpa durante tutta la durata del canto,
fungendo da
accompagnamento musicale.
Tutti
gli occhi dei commensali erano rimasti incollati sui due Hobbit che
avevano appunto espresso la loro gioia per la guarigione di Galadriel
in quel
modo così speciale. Quando l'ultima nota si era oramai
dispersa tra le pareti
del salone che li ospitava, volti sorridenti e un applauso entusiasta
avevano
salutato l'esibizione dei due abitanti della Contea. Dama Galadriel li
aveva
ringraziati con un breve, ma sentito discorso e illuminati
letteralmente con
uno dei suoi sorrisi più splendenti.
Quella
sera poi a Frodo aveva fatto particolarmente bene conversare con
Gandalf, seduto accanto ad Elrond. Aveva intuito che fossero a
conoscenza del
suo malessere. Tutti lo erano a Valinor. E tutti erano preoccupati per
la sua
salute. Il suo stato di Portatore dell’Anello, lo aveva reso
personaggio
notissimo e benvoluto. Se prima era spesse volte appellato come Amico
degli
Elfi, adesso era molto di più.
Era
comprensibile che i suoi amici poi fossero turbati dalla sua
infelicità. E
ugualmente comprensibile era la loro impotenza di fronte quella
situazione. Se
era in qualche modo lecito non aspettarsi un’esternazione dei
propri dubbi da
Elrond, vista la sua natura discreta, poco ipotizzabile era invece che
lo stesso
Bilbo, così energico e vicino a lui grazie ad un legame che
andava molto più in
là della mera genetica, si sentisse inibito e preferisse
quasi glissare
sull’argomento.
Frodo
aveva avvertito su di sé gli sguardi dissimulati, ma vigili
dei commensali.
Gandalf,
Elrond e la stessa signora di Lothlórien erano
tutt’altro che ciechi o stolti.
Sapevano leggere tra righe ed era chiaro che avessero cognizione della
sua
sofferenza e con quelle riunioni regolari non facevano altro che
ripetergli
silenziosamente che era circondato da persone che tenevano molto a lui.
Nessuno
gli aveva mai chiesto direttamente il motivo di tale
infelicità, anacronistica
in un certo senso, ora che la minaccia di Sauron era stata allontanata.
Non
era necessario chiedere.
Loro
già sapevano.
Sapevano
che il suo disagio sì proveniva da quelle cicatrici fisiche
che interrompevano
la tessitura liscia e perfetta del suo corpo, ma soprattutto, ed era
questo il
punto focale, era a livello psicologico e interiore che si poteva
parlare chiaramente
di segni fino a quel momento indelebili.
Tutto
proveniva da lì.
Da
quel senso di spossatezza ed esaurimento delle energie fisiche e
morali, come
avesse perduto la propria anima, vendendola effettivamente a Sauron.
Era
la conseguenza del viaggio e sarebbe stata lì per
l’eternità ormai,
accompagnandolo come un velo trasparente, ma dal riflesso opaco,
grigiastro, a
coprire come una patina quanto vedeva e viveva e a minare dunque la
freschezza
e l’essenza più limpida di quegli istanti.
Attimi
che diventavano così pesantemente uno simile
all’altro, senza distinzione, né
differenza sensibile.
Una
cortina pesante, su spalle provate da un’esperienza tanto
fuori dal comune
quanto distruttiva.
Si
era congedato cortesemente, rispettando la sua natura intrinseca di
Gentilhobbit ed era rincasato con Bilbo, particolarmente rinvigorito da
quei
convivi ed entusiasta per la conversazione che aveva avuto con
l’ospitale
Elrond e ovviamente per il buon esito della loro esibizione. Pur
essendo
rimasti in silenzio, mentre percorrevano il sentiero che permetteva
l’accesso
alla loro abitazione, Frodo aveva percepito l’entusiasmo
dell’anziano cugino in
maniera palpabile. Sinceramente contento per Bilbo aveva girato la
piccola
chiave d’argento che apriva il portone principale della casa.
Volendola
guardare dall’esterno avrebbe sicuramente ricordato Bag End di Hobbiton. E la somiglianza
non era affatto casuale. Con
loro grande sorpresa, non appena messo piede sul suolo sacro di
Valinor, Frodo
e Bilbo erano stati condotti in quella che era una casetta Hobbit sotto
tutti i
punti di vista. Un tentativo per farli sentire a proprio agio da subito.
Situata
verso Nord, con tipiche porte e finestre circolari, ad un solo piano e
all’interno con dei soffitti a misura di Mezzuomo. Il
giardino che la
circondava poi era un tripudio di piante in fiore. Un lavoro accurato,
degno
del più laborioso dei Samwise Gamgee, tale era la cura nei
dettagli e
l’evidente armonia dei colori di quella flora perfettamente
miscelata.
Una
cascata di edera dalle foglie verde cadmio con delle ridenti sfumature
verde
bottiglia si arrampicava sulla parete frontale della casa, costituendo
una
trama bella e ridente. Il prato era stato tagliato di recente e
nell’aria si
respirava ancora l’odore caratteristico dell’erba
recisa. Siepi di rododendri
in fiore delimitavano il perimetro del giardino in tutta la sua
lunghezza. I
fiorellini di un rosso vivace interrompevano la superficie verde scuro
che dava
loro vita. L’aiuola di niphredil candidi
si armonizzava con altrettante
aiuole di camelie purpuree, violacee e rosate, nonché gli elanor già citati. Non
mancavano infine delicate dalie dalle
sfumature calde del giallo, rosso e arancio, con tutte le nuance intermedie.
Anche
l’interno ricordava Bag End
con tanto
di studio nel quale ambo i cugini avevano trascorso molto del loro
tempo.
Accompagnato
Bilbo alla sua porta, gli aveva augurato la buonanotte, per
poi recarsi nella sua stanza. Una volta svestitosi si era gettato sul
letto
psicologicamente esausto e, contrariamente ad ogni aspettativa, era
crollato in
un sonno pesantissimo e all’apparenza senza sogni.
Svegliandosi
di soprassalto aveva avuto l’impressione che le pareti
gialline della camera da letto lo stessero soffocando. Portatosi le
mani
intorno al collo, aveva sentito pulsare una vena selvaggiamente.
Costretto da
una necessità violenta poi, aveva spostato le proprie dita
sulla spalla,
stringendola convulsamente e premendo sulla cicatrice della pugnalata,
come a
voler sedare quell’improvviso risvegliarsi delle carni.
L’aveva sentita
martellare contro il palmo della mano, in sintonia con il proprio cuore
che
batteva senza tregua, la gola secca, le labbra doloranti e screpolate
come non
bevesse da tempo immemorabile e paradossalmente il torace e il volto a
ricoprirsi
di quell’insano strato di sudore gelido.
Poi,
così come era venuto, il tamburellare impazzito di quello
spirito
fosco che era rimasto intrappolato nelle sue carni dal giorno triste
dello
scontro contro il più temibile di Neri Sovrani, era scemato,
lasciandolo però
provato, lo sguardo incupito e una reazione furiosa contro se stesso,
per
quella debolezza che lo coglieva e contro la quale poco poteva o, per
meglio
dire, nulla poteva.
Si era alzato di scatto, scorgendo di sfuggita il riflesso del proprio
corpo snello e parzialmente nudo riflesso dalla parete limpida dello
specchio,
la luce crepuscolare data dalle fiamme tremolanti delle candele accese
con le
quali dormiva da quando era ritornato ad Hobbiton, l’odore
della cera che
fondeva man mano che lo stoppino bruciava.
I
suoi occhi avevano colto solo il segno scarlatto che le proprie dita,
strette come una morsa, avevano lasciato intorno alla spalla, poi aveva
afferrato velocemente una camicia e un paio di pantaloni abbandonati su
una
sedia di fianco al letto ed era uscito dalla stanza, richiudendosi la
porta
alle spalle ed iniziando a percorrere lo smial silenzioso ed immerso
nella
penombra.
Quasi
senza accorgersene, aveva aperto il cancelletto che aveva cigolato
impercettibilmente e, dopo averlo richiuso alle sue spalle, si era
incamminato
come posseduto da una qualche entità sovrannaturale, sebbene
non esattamente un
Valar protettore.
Aveva
dormito pochissimo, si era accorto osservando la posizione della Luna.
Forse un
paio di ore e di nuovo si trovava a percorrere il sentiero verso il
Castello di
Galadriel.
Difficile
dire perché.
Però
era lì.
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